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Terra Rossa: La miniera di Montecatini di San Giovanni Rotondo (1936-1973) dall'autarchia al sogno della grande industria
Terra Rossa: La miniera di Montecatini di San Giovanni Rotondo (1936-1973) dall'autarchia al sogno della grande industria
Terra Rossa: La miniera di Montecatini di San Giovanni Rotondo (1936-1973) dall'autarchia al sogno della grande industria
E-book351 pagine4 ore

Terra Rossa: La miniera di Montecatini di San Giovanni Rotondo (1936-1973) dall'autarchia al sogno della grande industria

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Info su questo ebook

L'imponente attività estrattiva, avviata dalla multinazionale Montecatini per rispondere alle direttive autarchiche del regime e per sostenere la produzione nazionale di alluminio e quindi le guerre di Mussolini, cambiò per diversi decenni il volto di quel territorio segnato dalla cronica arretratezza.

La miniera di bauxite di San Giovanni Rotondo rappresentò una forma tangibile di riscatto economico per diverse centinaia di famiglie ma fu segnata da un numero considerevole di tragedie, infortuni e vittime a causa della pericolosità delle tecniche estrattive e dal mancato rispetto delle misure di sicurezza. Ben 27 furono i morti e migliaia gli incidenti.

Nel libro emerge il volto duro del capitalismo italiano contrario ad accogliere le legittime rivendicazioni operaie e sindacali e l’antimeridionalismo di una certa classe dirigente politica ed imprenditoriale che si oppose tenacemente allo sviluppo industriale di quell’area.

LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2022
ISBN9788832104592
Terra Rossa: La miniera di Montecatini di San Giovanni Rotondo (1936-1973) dall'autarchia al sogno della grande industria

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    Anteprima del libro

    Terra Rossa - Antonio Tedesco

    Biblioteca della Fondazione Pietro Nenni

    © 2022 Arcadia edizioni

    I edizione, giugno 2022

    Isbn 9788832104592

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale

    se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    In copertina: Lavoratori della miniera di San Giovanni Rotondo davanti al pozzo.

    Foto tratta da Due più due, rivista dopolavoristica della Società Montecatini, del luglio 1959.

    Ai tanti operai che hanno perso la vita in miniera.

    Elenco delle principali abbreviazioni utilizzate (Archivi, Enti, Società)

    ACC: Allied Control Commission

    ACS: Archivio Centrale dello Stato

    ACSGR: Archivio Comunale San Giovanni Rotondo

    AGIP: Azienda Generale Italiana Petroli

    ALCOA: Aluminum Company of America

    ALSAR: Alluminio Sardo

    AMAO: Azienda Miniere Aurifere dell’Africa Orientale

    ANIC: Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili

    ASBI: Archivio Storico Banca d’Italia

    ASIRI: Archivio Storico Istituto per la Ricostruzione Industriale

    ASFPN: Archivio Storico Fondazione Pietro Nenni

    ASN: Archivio di Stato di Napoli

    CPC: Casellario Politico Centrale

    COMINA: Compagnia Mineraria Africana per lo sfruttamento minerario dell’Etiopia

    CRAL: Circoli Ricreativi Assistenziali Lavoratori

    DGPS: Direzione Generale di Pubblica Sicurezza

    EFIM: Ente partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere

    EGAM: Ente Gestione Attività Minerarie

    ENAL: Ente Nazionale Assistenza Lavoratori

    ENI: Ente Nazionale Idrocarburi

    ERP: European Recovery Program (Piano Marshall)

    INA: Industria Nazionale Alluminio

    IRI: Istituto per la Ricostruzione Industriale

    MI: Ministero dell’Interno

    SIA: Società italiana dell’Alluminio

    SIFA: Società Italiana per la Fabbricazione dell’Alluminio

    UNRRA: United Nations Relief and Rehabilitation Administration

    Nota dell’autore

    Alcuni refusi all’interno delle citazioni archivistiche, soprattutto in telegrammi, dispacci ed elenchi di nomi, sono presenti per una scelta di pubblicare fedelmente il testo originario oppure perché, come nel caso di alcuni cognomi, non sempre è stato possibile rimediare all’errore del compilatore.

    Mi rivedo nell’officina,

    fuori ardeva un cielo

    che era ancora bellico

    – era il ‘60, il ‘61, e la guerra era finita da 15 anni –

    e i fabbri avevano fatto per me

    delle palline di ferro,

    ma non andavano bene, non potevo farci niente,

    perché non erano di vetro,

    e c’era una macchina

    – e loro volevano dirmi:

    guarda come è brava!

    da cui uscivano queste palle di ferro.

    E la guerra ardeva di fuori,

    nella miniera c’era la guerra

    e il fuoco e il minerale rosso,

    c’erano i camion che partivano carichi

    e c’era il rumore dei fili della luce,

    c’erano uomini che fumavano sigarette

    senza filtro, c’era un’Italia povera,

    c’era un canale accanto

    verde coperto di fiori caduti,

    c’erano uomini che si sedevano

    e con un coltello da tasca

    tagliavano il pane e il formaggio,

    che aggiustavano ogni cosa

    e ogni cosa sapevano fare.

    C’era un’Italia povera e il deserto era riarso

    e i bambini andavano a piedi nudi per le strade.

    Se potessi cercarti

    per poterti ritrovare,

    per poterti dopo tante ricerche,

    dopo tanto cercare

    come dopo una guerra

    finalmente riabbracciare.

    Claudio Damiani(1)

    (1) Poesia tratta dal libro di Claudio Damiani La miniera, Fazi Editore, Roma, 1997. Considerato tra i più importanti poeti contemporanei italiani, figlio del direttore della miniera Alberto Damiani, Claudio è nato a San Giovanni Rotondo nel 1957 ed ha trascorso l’infanzia nel villaggio minerario, fino al pensionamento del padre nel 1963, quando poi si è trasferito a Roma.

    Prefazione

    Definire il presente volume un esempio di storia regionale, legato a un episodio della storia della Capitanata e, per questo motivo, di minor rilievo rispetto alla storia politica ed economica nazionale, significherebbe, da una parte, disconoscere sotto diversi aspetti il lavoro di scavo, sorvegliato e puntuale dal punto di vista metodologico, effettuato dall’Autore; dall’altra, aderire a interpretazioni storiografiche che relegano il racconto degli avvenimenti di una particolare zona geografica in un determinato momento storico a cronaca, storia minuta e quindi non autentica storia che, come tale, deve rimanere sulla soglia d’ingresso delle mura universitarie giacché oggetto di dibattito tra i cultori della memoria di ogni piccola patria, occasione per gli storici non togati di ricevere un riconoscimento pubblico che il più delle volte non travalica i confini della propria comunità di appartenenza.

    Il lavoro di Tedesco ribalta quelli che sono pregiudizi diffusi e che potrebbero precedere la lettura del libro. La storia locale costituisce il banco di prova di categorie storiografiche più generali, di correnti culturali e politiche che, in ultima analisi, vorrebbero derubricare lo studio degli avvenimenti delle comunità periferiche a pedissequa applicazione di concetti maggiormente comprensivi, collegati alla storia degli Stati e dei rapporti internazionali.

    In questo volume Tedesco presenta un’analisi compiuta, a partire dal fascismo, del contesto storico nel quale maturò la scelta di realizzare una miniera in una regione caratterizzata da un tessuto economico sociale di estrema povertà, da una pesante arretratezza civile cui si aggiungevano episodi, piccoli e grandi, di ordinario sfruttamento, di ingiustizia, di privilegio associato a una posizione economica e sociale di cui il fascismo si fece garante e promotore, come emerge dalla ricostruzione dell’Autore nel caso dell’azienda voluta dal regime e che lo stesso Mussolini volle visitare avventurandosi tra le vie impervie della Capitanata. Prima della nascita dell’impresa per l’estrazione della bauxite, la provincia foggiana viveva, come descritto dalla stampa dell’epoca, una condizione di arcaico sottosviluppo, in cui il paesaggio faceva "compiere un salto indietro nel corso della civiltà di almeno cent’anni […]. Una via stretta, fangosa e sporca fino all’inverosimile, fiancheggiata da una teoria di casupole basse, povere, tristi, da cui sbucano frotte di bambini mocciosi e di maialetti sguazzanti e grugnenti nel fango, bui interni di abitazioni primitive, donne e uomini che ti guardano con aria triste quasi diffidente, non un sorriso, non un fiore: ecco San Giovanni Rotondo".

    La storia della miniera di bauxite di San Giovanni Rotondo è parte della questione meridionale, nata con l’Unità d’Italia, negata dal fascismo quale invenzione della vecchia classe dirigente ottocentesca. La miniera nacque dalla necessità del regime fascista di far fronte alle inique sanzioni attraverso la politica autarchica che non avrebbe risolto, bensì inasprito, le profonde differenze tra Nord e Sud dell’Italia condannando quest’ultima parte del Paese a un destino di sottosviluppo. La fine del fascismo aprì il vaso di Pandora in cui erano racchiuse le tante contraddizioni di carattere economico, politico, civile del regime che la capillare propaganda, le promesse della conquista di un posto al sole, e comunque di primo piano nello scacchiere politico internazionale per la nazione, avevano celato. L’inizio dello sfruttamento del grosso giacimento di bauxite garganico appare un investimento legato a fattori di contingenza politica ed economica e soprattutto all’impellenza della guerra.

    Con la nascita della Repubblica non si cambiò del tutto registro rispetto al passato in ordine alla definizione dei rapporti tra le modalità di acquisizione del consenso da parte delle forze di governo e i reali bisogni di regioni colpite da povertà, migrazione, profondo disagio sociale. Saranno le esigenze della politica, in gran parte clientelare e corporativa, ad avere la meglio sulle valutazioni di carattere economico. Si cercò, come illustrato dall’Autore nel volume, di dare nuova linfa all’impresa mineraria attraverso strategie economiche percorse da diverse contraddizioni e su cui gravava l’irremovibile peso degli alti costi estrattivi.

    Di queste contraddizioni, accanto alle evidenti velleità, anche di tipo personale, della classe dirigente, furono vittime soprattutto i lavoratori che avevano legato il proprio destino, provenendo in molti casi da diverse parti d’Italia, alla miniera che si trovava a due passi dal paese ormai conosciuto nel mondo per la presenza della figura carismatica di Padre Pio. Il peso delle scelte dettate da fini di costruzione del potere ricadde drammaticamente sulle spalle dei diavoli rossi, gli operai della miniera definiti in questo modo per il loro appartenere al partito socialista oppure al partito comunista e l’essere perennemente sporchi del rosso della bauxite. Le condizioni in cui gli operai svolgevano le loro mansioni nel corso della giornata migliorarono solo in parte nel corso degli anni e prevalentemente in seguito a scontri di carattere sindacale e politico.

    La storia di questi lavoratori, delle loro famiglie e nel complesso della comunità garganica, messa a dura prova anche dalle calamità naturali, costituisce un chiaro esempio di mancata modernizzazione dall’alto, attraverso le leve dello Stato, che il più delle volte si è tradotto in politiche di tipo affaristico, inadatte allo sviluppo di tipo economico delle regioni meridionali in relazione alle loro specificità culturali, alle risorse naturali, alle condizioni generali della popolazione. La storia di un episodio apparentemente secondario getta una luce sulla storia complessiva del Paese, sulle tare che ne hanno accompagnato lo sviluppo fin dal Risorgimento e che il fascismo e la politica nel secondo dopoguerra non hanno risolto.

    La lettura del pregevole lavoro di Tedesco, in cui si sovrappongono diversi piani di indagine e di esposizione: dalla ricerca di archivio all’analisi della stampa dell’epoca, dalle testimonianze dirette alla bibliografia a corredo del volume che dimostra l’attenta ricerca dell’Autore sul lato storiografico e sotto il profilo economico e politico del tema oggetto del libro, contribuisce a colmare una lacuna nella storia del nostro Paese e offre una chiave di lettura argomentata sui rapporti tra economia e politica nel Mezzogiorno, tra storia politica nazionale e storia regionale, tra prospettiva globale e vicende che, con alcune forzature, si possono definire periferiche.

    Daniele Stasi

    Capitolo 1

    In piena autarchia

    Alluminio: «metallo italiano»

    Come è noto, l’adesione degli italiani al duce e al fascismo raggiunse il momento culminante nella seconda metà degli anni ‘30, dopo la conquista dell’Etiopia(2) – l’unica guerra coloniale che ottenne un largo consenso popolare(3) – e la successiva consacrazione dell’impero, pur non essendo del tutto chiaro agli italiani quale fosse il reale progetto del regime per le terre africane. Nei discorsi del duce e nella assidua propaganda, a parte l’indicazione di alcuni specifici obiettivi, si insistette su formule generiche, come quella dell’«impero del lavoro» o della colonia come spazio ideale per la formazione «dell’uomo nuovo» fascista, frugale, guerriero e consapevole della propria superiorità razziale(4). Quella guerra, lungamente preparata in un periodo di crisi economica internazionale, fu voluta per dare prestigio e lustro all’Italia, per assegnarle un vero e proprio impero coloniale e dimostrare in tal modo la potenza del fascismo.

    Dopo la conquista dell’Etiopia si ritenne concluso il disegno espansionista dell’Italia fascista e dietro a quello sforzo bellico c’era, seppur con poche conoscenze e senza una reale pianificazione, l’interesse a sfruttare economicamente quei territori, soprattutto con la speranza che potessero offrire abbondanti materie prime. Mussolini ostentava una certa sicurezza sulle potenzialità del sottosuolo etiope all’indomani della proclamazione dell’impero:

    «[…] Il territorio dell’Etiopia è oggi così vasto e le sue risorse così poco note che sarebbe impossibile fare un calcolo realistico degli anni necessari perché renda».

    In realtà le risorse minerarie nelle colonie italiane si rivelarono assai modeste. La Libia, che Mussolini aveva affidato a Italo Balbo, si rivelò uno «scatolone di sabbia», come la definì Gaetano Salvemini, perché gli importanti giacimenti di petrolio verranno scoperti solo negli anni ‘50(5). Invece per procedere alla ricerca di giacimenti in Etiopia, soprattutto di minerali e combustibili, fu istituito nel 1936 un apposito servizio minerario che accertò la presenza di buoni giacimenti di oro e di platino ma i costi di estrazione, gestione e trasporto rendevano oneroso lo sfruttamento, mentre sin da subito le ispezioni dell’Agip alla ricerca di idrocarburi, nonostante le alte aspettative del regime, si rivelarono molto deludenti. All’AMAO, fu affidata la riorganizzazione dei giacimenti eritrei, mentre il compito di intraprendere la prospezione di tutte le aree inesplorate dell’Etiopia fu affidato alla COMINA, costituita nel 1937 dalla Montecatini e da altre grandi imprese siderurgiche e meccaniche italiane. Nel complesso i risultati ottenuti furono assai modesti(6).

    Ben presto le scelte del regime si evolveranno dalla colonizzazione economica alla colonizzazione demografica(7), per dare uno sbocco ai tanti giovani disoccupati, soprattutto del Mezzogiorno, e per arginare la piaga dell’emigrazione. In Etiopia la colonizzazione demografica apparve subito di difficile attuazione, a causa dell’assenza di infrastrutture e della natura del territorio e soprattutto per ragioni di sicurezza, considerata l’ostilità della popolazione autoctona, mentre in Libia il disegno mussoliniano cominciò a prendere consistenza a partire dal 1938 quando il regime approvò un piano per insediare, nell’arco di un quinquennio, 20.000 coloni l’anno in Libia. Un piano che prevedeva, per i coloni, la detassazione dei terreni e la costruzione delle case rurali con le relative attrezzature per avviare l’attività, grazie ai contributi del Ministero dell’Africa italiana che mise a disposizione grossi finanziamenti, mentre la Cassa di Risparmio di Tripoli venne autorizzata a concedere prestiti a tassi bassissimi. I progetti dei nuovi villaggi (ben 26) furono ultimati ai primi del 1938 e proprio in quell’anno cominciarono ad arrivare i nuovi coloni italiani convinti dalla propaganda fascista, colma di retorica, che gli aveva promesso terre fertili e prospettive di ricchezza. Il 28 ottobre del 1938, sedicesimo anniversario della marcia su Roma, 17 navi con circa 20.000 Italiani, stipati come sardine, partivano dai porti di Venezia, Genova, Trieste, Napoli alla volta di Tripoli. Si trattava soprattutto di giovani provenienti dal Veneto, dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Basilicata, praticamente dalle regioni più povere d’Italia. Il trionfale arrivo sulle coste africane venne raccontato dal Giornale Luce nel 1938, con una ripresa aerea su Tripoli, che esaltava le opere costruite dal fascismo, e con retorica più che mai fascista sottolineava che «l’esercito del lavoro aveva così posto piede sulla terra dove, sempre più, il deserto dovrà indietreggiare di fronte alla tenacia ed alla fatica costruttrice». A Tripoli, dopo la messa, celebrata da un giovane vescovo davanti ai coloni rurali italiani, si inaugurò il monumento con Mussolini a cavallo che sferra in alto la spada dell’Islam. La sontuosa scultura equestre era opera dell’artista Quirino Ruggeri e voleva rappresentare il duce amico e protettore del popolo musulmano.

    Lo spettacolare evento, organizzato dal Commissariato per le Migrazioni Interne, che aveva il compito di selezionare le famiglie degli immigrati, rappresentò per il regime un’occasione propizia per propagandare la sua opera(8). In breve tempo nella sola Tripoli, si insediarono oltre 40.000 italiani che rappresentavano il 37% della popolazione della città.

    Fondare un impero italiano era stata la massima ambizione di Mussolini. Il mito dell’impero, nella mente del duce, era intrecciato all’ambizioso programma di rigenerazione pedagogica dell’intera nazione(9). Il laboratorio della nuova razza, la fabbrica dell’italiano nuovo, era stato messo in campo sin dal 1925 con l’istituzione di organizzazioni e strutture popolari (balilla, dopolavoro) che insieme alla scuola dovevano assolvere al delicato compito di plasmare le coscienze, soprattutto quelle più malleabili come quelle giovanili, al fine di creare una popolazione unita, disciplinata e fedele allo stato e al suo condottiero.

    La guerra in Etiopia, che comportò un impiego straordinario di mezzi e di uomini durò solo sette mesi ma il tripudio della guerra, come ricordato dallo storico Del Boca, fu abbastanza effimero: «Se era cessata la guerra, era però cominciata la guerriglia, che gli etiopici avrebbero condotto ininterrottamente[…] mandando in fumo tutti i progetti di insediamento rurale»(10). La repressione italiana, come accertato, fu assai crudele e sorretta da una buona dose di sentimenti razzisti e quella guerra fu condannata dalla Società delle Nazioni.

    Alla condanna fecero seguito le sanzioni economiche che consistettero nel divieto per gli Stati facenti parte della Società delle Nazioni di mandare armi e munizioni in Italia, di concedere prestiti al governo di Roma, di importare merci italiane e di esportare in Italia merci che potessero essere utili all’industria di guerra. Mussolini rispose alle sanzioni di Ginevra, che si riveleranno blande e inefficaci, con eclatanti manifestazioni anti-sanzionistiche, come la raccolta dell’oro. Fu una specie di plebiscito, in cui la commozione popolare per i torti che la Società delle Nazioni faceva all’Italia raggiunse vertici altissimi e milioni di italiani donarono gli anelli nuziali alla patria.

    La campagna del regime contro le sanzioni fu scandita dai celebri slogan «Noi tireremo dritto», «L’Italia farà da sé». Celebre il manifesto dove un balilla faceva la pipì sulle inique sanzioni strillando: «Me ne frego!». Mussolini per impedire che le sanzioni potessero minare il prestigio del regime e colpire l’industria bellica nazionale lanciò, nella primavera del 1936, la svolta autarchica e protezionistica del fascismo. La politica autarchica fu varata per tentare di contemperare due esigenze: l’avvio di un grosso programma di investimenti pubblici e modernizzare l’apparato industriale italiano. Una struttura industriale maggiormente sviluppata nei settori di base avrebbe da un lato potuto affrancare in misura significativa il paese dalle importazioni di materie prime e manufatti (grazie ad una politica di sostituzione delle importazioni), riducendo quindi gli esborsi valutari e, dall’altro, avrebbe potuto consentire di sostenere un apparato militare e una politica di potenza adeguati agli obiettivi del fascismo(11).

    Per comprendere il nuovo indirizzo autarchico nella politica economica del fascismo è utile attingere a due relazioni pronunciate da Mussolini davanti all’assemblea del Consiglio Nazionale delle Corporazioni rispettivamente il 23 marzo 1936, dove annunciò ufficialmente la nuova politica autarchica e il 15 maggio 1937:

    «Il 18 novembre 1935 è ormai una data che segna l’inizio di una nuova fase della storia italiana. Il 18 novembre reca in sé qualche cosa di definitivo, vorrei dire di irreparabile. La nuova fase della storia italiana sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione. Nessuna Nazione del mondo può realizzare sul proprio territorio l’ideale dell’autonomia economica, in senso assoluto, cioè al cento per cento; e, se anche lo potesse, non sarebbe probabilmente utile. Ma ogni Nazione cerca di liberarsi nella misura più larga possibile delle servitù straniere»(12).

    «L’assedio economico […] è stato decretato contro l’Italia perché si è contato […] sulla modestia del nostro potenziale industriale […]. Questo ha sollevato una serie di problemi che tutti si riassumono in questa proposizione: l’autonomia politica, cioè la possibilità di una politica estera indipendente, non si può più concepire senza una correlativa capacità di autonomia economica […] La nuova fase della storia italiana sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione»(13).

    Il governo italiano mise in atto, quindi, iniziative mirate a ridurre drasticamente le importazioni – seppur, in realtà, le più avanzate economie occidentali sin dalla fine degli anni ‘20 avevano avviato politiche simili per sottrarsi alle turbolenze della finanza internazionale – ma fu costretto a misurarsi con un compito molto arduo: mantenere la società e l’economia italiana nel solco della modernità tecnologica facendo leva solo sulle proprie risorse; compito reso particolarmente difficile, perché il nostro Paese, a differenza di altre «autarchie», era (ed è) pressoché privo di alcune materie prime e soprattutto di combustibili fossili. Il fabbisogno nazionale annuo di petrolio in tempo di pace era stato quantificato dal regime in circa 2 milioni di tonnellate e per quanto riguarda il petrolio italiano, si sperava di estrarne almeno 200.000 con le trivellazioni dell’AGIP in diverse aree del Paese ma i risultati, nonostante i grandi sforzi, furono modesti, pertanto risultarono imprescindibili le importazioni dall’Iraq, dalla Romania e dell’Albania, nonostante i tentativi di impiegare surrogati (alcol, gas di legna) e prodotti sintetici(14). Anche per il carbone le ricerche non ebbero un grande successo, ad eccezione dei giacimenti istriani di Arsa, già attivi dal 1928 e di quelli sardi di Carbonia in cui si cominciò l’attività estrattiva nel 1937; pertanto, nonostante l’intensificazione dell’attività estrattiva, fortemente voluta dal duce, per coprire il fabbisogno nazionale, quantificato in 12 milioni di tonnellate l’anno, era necessario importarne almeno 8-9 milioni. La mancanza di carbone e di petrolio all’interno dei confini nazionali mise in evidenza i limiti strutturali del suo processo di industrializzazione segnando profondamente i destini del Paese(15).

    La politica autarchica, quindi, non si tradusse di fatto in una totale rinuncia alle importazioni quanto piuttosto in una forma di aiuto per la ripresa industriale, necessaria anche per la preparazione a una nuova guerra ritenuta ormai prossima. Attraverso i piani autarchici le aziende furono spinte, con incentivi, a impegnarsi nella ricerca di prodotti innovativi o quanto meno di succedanei o surrogati di quelli che erano abitualmente importati dall’Italia. Di fatto la scelta dell’autarchia fu legata allo sviluppo di un’economia di guerra che produsse notevoli distorsioni nei consumi e negli investimenti e riguardò soprattutto alcuni settori strategici: i minerali metallici, le materie tessili, i combustibili. Negli anni successivi i vestiti italiani vennero confezionati con fibra artificiale rayon o con lana sintetica ricavata dal latte, il lanital. Per le scarpe si ricorse al cuoio artificiale (Cuoital)(16) e si utilizzò la canapa, il fiocco, il cotone proveniente dalle nuove colonie africane. Una particolare declinazione dell’autosufficienza economica venne propagandata nei prodotti alimentari. L’adozione di «uno stile di vita frugale e guerriero» verrà promosso anche attraverso la sostituzione della carne con il pesce e della pasta con il riso. Si ebbe inoltre una proliferazione di surrogati, prodotti autarchici destinati alla povera gente e spesso scadenti: ad esempio al posto del caffè, divenuto quasi introvabile, vennero utilizzati l’orzo mondo o vestito, la ghianda e il fico e andò di moda il caffè di cicoria, fatto nella «napoletana» riempita a metà e venduto nelle varietà Extra, Cammello e Suora. A Bologna apparirono prodotti improbabili come il Condit, una specie di ragù, e la Vegetina, tortino di verdura dai componenti «altamente sospetti». L’Ufficio propaganda del Pnf pubblicò l’opuscolo «Sapersi nutrire», con numerosi consigli alimentari e norme dietetiche, ricco di illustrazioni e motti sulla infelicità e i malanni provocati da un eccesso di cibo, con slogan alquanto evocativi: «Ne uccide più la gola che la spada», «Gli obesi sono infelici»(17). In Italia, dunque, l’autarchia venne subito percepita come una manifestazione della più italiana delle arti: quella di arrangiarsi. La comunicazione del regime oscillava tra la rivendicazione della modernità industriale, con le geniali invenzioni dei chimici che sopperivano alla mancanza di materie prime, e la mitologia contadina e arcaica del grano, delle masse rurali e di «quando c’è il pane c’è tutto». Non senza efficacia, però. La propaganda era martellante, sempre retorica e spesso rozza.

    Il settore principale su cui Mussolini fece pressioni per una concreta politica autarchica, era il settore della difesa nazionale «di fronte all’eventualità di una guerra europea». Mussolini da una parte sostenne con decisione il Consiglio Nazionale delle Ricerche

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