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Figlie di Fiamma
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E-book126 pagine1 ora

Figlie di Fiamma

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Info su questo ebook

A volte per completarsi occorre perdere un pezzo di sé.
È ciò che scopre Minerva mentre contempla il corpo aggraziato e senza vita della madre al volante della sua auto distrutta.
Attraverso la voce di una donna brillante, seducente e fin troppo padrona di sé, Irene Malfatti ci fa da guida, con intelligente e smaliziata ironia, lungo il percorso dentro se stesse, a caccia delle catene che abbiamo forgiato per imprigionarci, per spezzarle una a una e riemergere all’aria e alla luce.
Abbattendo uno dopo l’altro tabù e luoghi comuni, l’autrice ci mette con disarmante schiettezza di fronte a un universo femminile che probabilmente conosciamo ma che raramente riconosciamo.
Un romanzo che vi commuoverà, vi strapperà sorrisi e risate di cuore, vi regalerà insospettate conferme e vi dimostrerà che per essere donna bisogna “uccidere l’Angelo del Focolare”.
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2018
ISBN9788831938174
Figlie di Fiamma

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    Anteprima del libro

    Figlie di Fiamma - Irene Malfatti

    falò

    I

    Mia mamma lo aveva sempre detto, che sarebbe morta in un incidente stradale.

    Lo diceva ridendo, ma come si ride della verità, per alleggerirla mentre la si conferma, e lo diceva come una garanzia, anche: non scassatemi se fumo troppo, mangio strano, dormo poco.

    Tanto morirò di incidente stradale.

    Era pur un’ipotesi resa plausibile dalla sua tenace inabilità alla guida.

    Sapeva di non saper guidare.

    Soprattutto in quella che chiamava guida minore: parcheggiare, immettersi nel traffico. Era una tamponatrice renitente. C’erano stati tamponamenti fortunati - aveva conosciuto il suo grande amore tamponandolo - e altri un po’ meno - aveva preso più di un palo e qualche muretto, e fatto cadere una vecchietta in motorino, che non si era fatta niente, ma da allora era per noi diventata l’asfaltavecchie.

    Ogni volta, al rinnovo dell'assicurazione, se non c'era aumento del premio assicurativo era diventato un rito familiare il brindisi alla Yaris, eterno catorcio da lei bistrattato. Ma erano di più gli anni in cui il brindisi supplementare veniva dedicato all’aumento. E come sempre, si brindava ai semafori sempre verdi e ai parcheggi senza manovra .

    Perciò quando il mio amico Pietro - diventato istantaneamente lo sbirro, nel nostro lessico familiare - mi ha chiamata chiedendomi di raggiungerlo in via Tal dei Tali perché mia mamma aveva avuto un incidente, io me la sono immaginata in uno dei suoi incidenti minori e, dato l'intervento della pattuglia, in preda a una qualche crisi isterica o a una più probabile furiosa polemica con la polizia stradale: alla peggio me la vedevo con la patente ritirata per guida in stato di ebbrezza, perché lei, che pure in pubblico parlava spesso, che scriveva e si esponeva e non faceva certo vita ritirata, era comunque insospettabilmente timida e se stava andando a condurre una riunione sulla consapevolezza sessuale femminile, beh, senza un prosecchino d’incoraggiamento, invece di parlare, sarebbe scappata lontano.

    Magari il prosecchino era stato raddoppiato, magari a stomaco vuoto, come per tre quarti del tempo viveva lei. Era probabile, tanto più se stava andando, come diceva lei, a fare la spacciacazzi.

    Da tanti anni predicava attivamente l’importanza del piacere autogestito, della masturbazione, dell’intimità con se stesse. Lo faceva ormai per lo più scrivendo, o tenendo conferenze a tema, ma se un gruppo di donne le piaceva particolarmente, rispolverava la valigia con il campionario e partiva, armata di falli rotanti e non, palline cinesi, lubrificanti, ecc… a cercare di guadagnare un altro avamposto nella guerra di trincea del femminismo ludico.

    L’idea di mia mamma incidentata, potenzialmente brilla, e soprattutto impaziente di andarsene con urgenza a spacciar cazzi, mi sembrava presagio di spasso infinito. Non solo sul momento, ma anche in futuro: voleva dire arricchire la mitologia familiare di un altro episodio strampalato, aver qualcosa di nuovo per cui percularla in eterno.

    Perculare mia mamma, per me e mia sorella, era un divertimento inesauribile: le usciva un faccino impermalito, ma gli occhi le ridevano monelli, il sottotesto del suo broncio pareva essere vabbè sì, ho combinato anche questa.

    Figuriamoci se potevo perdermela, 'sta scena. Figuriamoci se poteva perdersela anche mia sorella.

    «Elettra, vieni… mamma ha avuto un incidente, m’ha chiamato Pietro, la raggiungiamo».

    «E perché t’ha chiamata lo sbirro, invece che lei?»

    «Perché lei senz’altro si vergogna. Capace già pensava di tornare a casa con una macchina nuova spacciandola per acquisto compulsivo, pur di non raccontarci quel che ha combinato. E non chiamarlo sbirro.»

    «Lo chiamo Calibro Ventidue, preferisci?»

    In realtà no, non preferivo, ma la diatriba era aperta da quando Pietro aveva iniziato a frequentare saltuariamente - purtroppo, secondo lui - casa nostra. Come mia sorella aveva saputo che era poliziotto, lo aveva in automatico qualificato come sbirro. Mia mamma, come faceva sempre se aveva il dubbio che tenessi a qualcuno e che quindi lo si dovesse risparmiare dai nostri atroci motteggiamenti, si era mossa in sua difesa e aveva obiettato, citando Pasolini dopo Valle Giulia: «I poliziotti sono figli di poveri».

    «O di esaltati» aveva contrattaccato Elettra.

    Potevano andare avanti all’infinito, e quindi avevo provato a zittirle con un argomento che non ammettesse repliche: «Ce l’ha di ventidue centimetri, basta!»

    Si ammutolirono all'unisono, strabuzzando gli occhi: ognuna evidentemente con un proprio commento in testa. In sostanza, comunque, avevo ottenuto solo che Elettra iniziasse a chiamarlo Calibro Ventidue. E in realtà lo chiamavo così anche io, in certi momenti, e gli piaceva anche molto. Anche se a me, 'sti ventidue centimetri, per lo più facevano male.

    «Ma secondo te che ha combinato mamma stavolta?» mi chiedeva Elettra mentre guidavo verso il luogo dell’incidente. E ci eravamo scatenate con le ipotesi: avrà investito un’altra vecchia, avrà asfaltato un ciclista - no, quello ce lo avrebbe raccontato lei, è il suo sogno - un cervo, un cinghiale, una mucca, zio Tobia ia-ia-ohhh.

    Arrivate, ridevamo di gusto.

    Pietro no.

    Pietro di solito davanti a me brilla, ed era poi il motivo per cui, saltuariamente, sopportavo sbirritudine e bordate calibro ventidue: che mi guardava e brillava. Mia mamma disapprovava blandamente: «C apirai che merito… E chi non brillerebbe, davanti a te? Vale la pena se brilli di rimando anche tu».

    Stavolta non aveva nemmeno l’ombra di un sorriso, guardandomi.

    Era serio e scappava con lo sguardo.

    «Che ha fatto?» gli ho chiesto, ancora con la risata in gola.

    «Non ha sofferto» mi ha risposto, gli occhi più lucidi e tristi che io abbia mai visto.

    «Ma chi? La vecchia, il ciclista?»

    Era rimasto zitto, abbracciandomi.

    Mia mamma, parlava della mia mamma.

    Solo allora ho visto la macchina col muso accartocciato. E solo allora ho messo a fuoco tutta quella gente intorno. Troppa gente intorno. Il brusio era insopportabile.

    «Le hanno tagliato la strada, ha sterzato e…» e le parole erano diventate in un attimo un fruscio, un sibilo.

    E alla fine era davvero morta in un incidente stradale.

    Ironia della sorte, la colpa proprio non era stata sua.

    Ironia supplementare, nell’impatto la valigia si era aperta e l’abitacolo era un carnevale di vibratori fluo.

    Lei era reclinata in avanti, ma composta. La guardavo aspettando che si tirasse su, si guardasse intorno, ridesse imprecando «Porco cazzo, son volati tutti i miei cazzi!»

    E invece stava zitta e ferma.

    E se lei stava zitta e ferma, o quantomeno se ci stava senza una sigaretta accesa, bisognava proprio che fosse morta.

    La guardavo impietrita. Sapevo che Elettra, ovunque fosse, lì accanto, stava facendo lo stesso: ma non la vedevo.

    Vedevo solo lei, ferma, composta, e cercavo nella mente qualcosa che mi soccorresse.

    Cercavo una presa, una leva, un qualunque genere di appiglio.

    Era stata brava lei, a disseminarci la vita di appigli, le veniva naturale.

    Lei parlava di una qualunque cosa e, così dal niente, ti scoccava una qualche istruzione, detta in tono leggero. Magari non ci facevi nemmeno troppo caso, però al momento giusto te la ritrovavi in tasca, trovavi la sua voce, potevi rifarti a un qualche mi ha detto così.

    Mia mamma parlava molto di vivere, e se parlava di morire lo riferiva al morire in vita per poi proseguire. Diceva che morire succede, si può solo provare a farlo con grazia.

    Lo diceva a mia sorella quando sdava di testa per il dolore disumano del momento: la guardava con l’amore indulgente con cui ci guardava quasi sempre, e rilevava che no, grazia proprio nemmeno un po’, ma aggiungeva: «V abbè, con grazia se riesci, sennò poi è lo stesso».

    Però della morte finale non diceva niente.

    Non le pareva forse che ci fosse niente da dire: dopo c’è il nulla per chi va, e c’è tutto quello che resta per chi resta.

    Io la guardavo esanime, lì dentro al catorcio: realizzavo che stavo assistendo alla prima grande scena che non avrei potuto raccontarle: cosa ti sei persa, quanto ti sarebbe piaciuto, ma la coniugavo già al tempo imperfetto, e già nel declinare il verbo mi si presentava - davanti, addosso, in bocca, in pancia, mi si sgretolava la pancia - la misura dell’averla persa.

    Torna indietro un momento, mamma, di questo non abbiamo ancora parlato.

    Torna indietro, dimmi con parole tue cosa fare adesso, che ho davvero bisogno e per la prima volta non ci sei.

    Torna qui e vergognati, mamma, che di questo non mi hai mai detto niente.

    Parole sue non ne trovavo, ma le piaceva tanto, questo sì, una poesia di Neruda sulla morte.

    Le piaceva così tanto che l’aveva trascritta sui nostri diari, quelli che scriveva per me e mia sorella da quando siamo nate, che diceva se muoio sopravvivimi con tanta forza pura, e poi qualche strofa dopo non voglio che vacillino né il tuo riso né i tuoi passi, non voglio che muoia la tua eredità di gioia, e terminava

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