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Schegge di vita: Romanzo
Schegge di vita: Romanzo
Schegge di vita: Romanzo
E-book244 pagine3 ore

Schegge di vita: Romanzo

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SCHEGGE DI VITA



Il romanzo racconta le vicende (schegge)
che hanno caratterizzato la vita di Giampaolo M.,
campione di biliardo, contrabbandiere, pittore
(diplomato all’Accademia di Belle Arti di via Ripetta a Roma).
L’esperienza in tenera età con una ragazzina
(Gemma, figlia di uno straccivendolo)
lo ha bloccato, fino ai diciotto anni, quando Roberta,
facendogli conoscere il sesso e l’amore,
lo ha liberato psicologicamente
e lanciato verso storie,
alcune delle quali dolorose e drammatiche
(tradito da Fiamma, che aveva in mente di sposare;
relazioni terminate con due aborti).
Frequentatore di night: relazioni con entraîneuses.
Contrabbandiere a Brindisi: fascino di quel mondo;
personaggi; avvenimenti; disavventure,
una delle quali gli lascerà il segno.
Le amicizie nel circolo del biliardo
e una falsa testimonianza a favore del suo capo, Nicolino,
a cui la Guardia di Finanza ha sequestrato il motoscafo,
gli causano problemi (interrogatori, intercettazioni,
condanna in contumacia
al pagamento di centoventunomila euro).
Grandi somme (anche l’eredità) sperperate;
pensione sociale.
Vita dell’uomo e dell’artista.
Trama per un film.

 
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2018
ISBN9788829502011
Schegge di vita: Romanzo

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    Schegge di vita - Leon Marchi

    Softbrainstorm©

    1

    Giampaolo, sul finire degli anni cinquanta, viveva, insieme alla famiglia, tra la periferia di Ostia e il canale. Aveva amici, con i quali stava bene; tuttavia, l’amico con il quale si confidava, lanciando lo sguardo in lontananza, era il mare. Camminando sulla battigia o seduto su uno scoglio, ne ascoltava la voce, ora calma ora inquieta ora adirata; e lo fissava ammirato, quando, complice il vento, le onde galoppavano senza freno, ognuna agitando la spumosa criniera, prima di impennarsi e infrangersi. Ogni volta aveva la sensazione di essere ribattezzato da quegli spruzzi; ogni volta avvertiva un brivido lungo la schiena, e si sentiva penetrato fin nel midollo da una presenza, che, agendo come lievito, lo faceva crescere dentro lentamente, rendendolo consapevole del suo essere. Là, a quella liquida vastità, il suo giovane cuore chiedeva aiuto e consiglio: alimento per i suoi desideri, per le sue aspettative.

    Appena ebbe conseguito il diploma di terza media, il parroco, venuto a sapere dai genitori che Giampaolo da un po’ di tempo disegnava aerei dappertutto, si adoperò per farlo arruolare, come specialista, nell’ Aeronautica militare. E certamente sarebbe diventato motorista, e assegnato alla Scuola di Volo Basico Avanzato a Elica di Latina, grazie alla propria intelligenza e all’interessamento del fratello di don Remo, capitano nella S.V.B.A.E., se i suoi desideri e le sue aspettative, fino ad allora segreti e senza voce, non avessero premuto, per essere manifestati; così, cosciente di non poter più tacere, ma a corto di parole in grado di esprimere il proprio subbuglio interiore, egli si rivolse alla persona in cui sempre aveva nutrito fiducia.

    Il professore di disegno, senza perdere tempo, si recò dal parroco, e gli mostrò i lavori del suo protetto, che doveva essere aiutato a percorrere la propria strada, per la quale era chiaramente portato. Benestante e scapolo, il professore si offrì di seguirlo negli studi e di sostenerne le spese.

    Grande fu la delusione del padre, falegname, costretto a sgobbare nella sua bottega da mattina a sera per mandare avanti la famiglia, composta da quattro persone; più grande la delusione della madre, che già vedeva Giampaolo in divisa, avviato a una apprezzabile carriera. Separatamente o insieme, tentarono di dissuadere il figlio, argomentando che non era saggio lasciare il certo per l’incerto: il pane sicuro per un avvenire d’artista che non offriva alcuna garanzia. Ma un poco si rassicurarono perché, come sottolineò il parroco, con un diploma in tasca, un domani, nel caso in cui il giovanotto avesse cambiato idea, sarebbe potuto entrare nell’ Aeronautica militare, con il grado di ufficiale.

    Ad attenuare le resistenze del fratello e della cognata (collegate alla preoccupazione del viaggio che il loro figliolo avrebbe dovuto affrontare, tutt’i santi giorni, da Ostia a Roma e viceversa), capitò a fagiolo la proposta di Attilio, il quale, capocantiere in una impresa edìle in forte espansione, in cambio di un modesto anticipo, assicurava l’acquisto (in via Tuscolana) di una casa a un piano circondata da ampio giardino, con annessa costruzione in muratura, da adibire a laboratorio di falegnameria, al cui avvio avrebbe contribuito commissionandogli lavori rifiniti; a dissolverle, infine, fu la considerazione che il resto del dovuto, ridotto all’osso, avrebbero potuto pagarlo a rate o, se volevano togliersi il pensiero, in un’unica soluzione, con il ricavato della vendita della casa e della falegnameria a Ostia, per i quali già si erano fatti avanti alcuni acquirenti.

    Il trasferimento della famigliola a Roma permise ad Attilio (amareggiato, perché non poteva avere figli) di avere una seconda casa, nella quale era accolto con calore. Aiutava la nipotina Marina a fare i compiti; parlava con il fratello e la cognata; con la sua presenza, offriva l’occasione a Giampaolo di stare fuori un po’ di più: di vedersi con qualche compagno di scuola e andare nei dintorni con la bicicletta del padre, o arrivare a piedi fino agli acquedotti, che ammirava, immobile, a lungo, prima di tornare a casa. A volte capitava che lo zio venisse con zia Giulia: allora, si formavano due gruppi (uno, con Marina, lo zio e il papà; l’altro, con Giampaolo, la zia e la mamma), i quali stavano tanto bene separati, al punto da fondersi soltanto all’approssimarsi dei saluti.

    È facile comprendere perché si costituivano i due gruppi e perché, anziché uscire, Giampaolo restava volentieri a casa: nel primo gruppo, la vivace spontaneità della bambina coinvolgeva il papà e lo zio, rendendoli leggeri e liberandoli dai pensieri; nel secondo, l’effervescente allegria della zia e il suo calarsi riflessivo nella quotidianità attraevano il ragazzo e la taciturna Claudia, aiutandoli piano piano a uscire fuori e a mostrarsi. Alla fine della serata, ognuno sentiva di stare bene. E sentivano di stare bene, di nuovo insieme, Attilio e Giulia.

    ---

    Quando Giampaolo uscì dall’ Accademia di Belle Arti di via Ripetta, salito su, e affacciatosi al parapetto, fu tentato di gettare il diploma nel Tevere. La vita gli balenò davanti agli occhi con la velocità del fulmine, fermandosi su due avvenimenti luttuosi: la morte della sorella (sette anni prima, colpita dalla leucemia) e della madre (due anni dopo, consumata dal dolore).

    Deciso a lasciarsi alle spalle la sua esistenza, diventata una gabbia, si aprì con don Remo, il quale (sorpreso e amareggiato per quanto l’anima candida del ragazzo di allora fosse diventata nera e fosse a un passo dal perdersi) convenne che, lo staccarsi dall’ambiente, gli avrebbe giovato.

    Così, rivoltosi al fratello, divenuto vice comandante della S.V.B.A.E., Giampaolo M. fu chiamato a prestare servizio a Latina: in qualità di aviere di leva, perché il parroco, ritenendo che fosse cambiato, non lo vedeva portato per la carriera militare.

    Era lì da appena un mese, quando (essendo nato e cresciuto nell’arenile di Ostia) fu scelto quale bagnino nello stabilimento balneare fatto edificare dal Comando aeroportuale di Latina per il personale militare e i loro parenti.

    I primi tempi, il bagnino designato, entusiasta, sfotteva i commilitoni, poiché lui andava a divertirsi al mare e loro restavano a lavorare negli hangar; e nelle sere libere correva dalla ragazza in un podere dell’agro pontino, che, essendo molto bella e pretenziosa, veniva a costare parecchio per le sue tasche. Vi erano due modi per fare fronte alla situazione: accettare le attenzioni di un signore (fine e delicato rispetto ad altri esseri rozzi che gli giravano attorno), che, per ottenere la sua compagnia, lo avrebbe riempito di soldi, o rimangiarsi la promessa (fatta davanti alla tomba della madre) di non riprendere più una stecca da biliardo in mano. Scelse la seconda soluzione, certo che la madre avrebbe capito: proponendosi di giocare fino al raggiungimento di una determinata somma, in modo da non dare nell’occhio, iniziò a bazzicare una sala, dove si scommetteva.

    Presto, tuttavia, la sua mansione di bagnino, fonte di divertimento e tempo libero, con il sopraggiungere della buona stagione, divenne la sua prigione. Non riusciva ad avere un attimo libero, poiché al termine dei voli (che si svolgevano a tutte le ore), ufficiali e sottufficiali si recavano, anche all’imbrunire, allo stabilimento, dove bivaccavano fino all’alba, giocando a carte e rivolgendosi a lui per ogni cosa (dal caffè al cognac, alla sdraio e ad altro), approfittando del fatto che, essendo aviere, era costretto a ubbidire.

    Data la situazione, si rese conto di avere presa una bella fregatura: riusciva a dormire, sì e no, quattro ore, perché faceva tardi, per servire i signori ufficiali e sottufficiali, e la mattina presto doveva saltare giù dalla branda, nel retro della sala ristoro, perché la signora (***) arrivava allo stabilimento quando albeggiava, per respirare iodio, come le aveva prescritto il medico militare.

    L’aviere Giampaolo M., al quale quella mattina gli occhi non si volevano aprire per la stanchezza e il sonno accumulati, sentendosi chiamare la prima e la seconda volta: «Bagnino, mi puoi mettere la sdraio?», alla terza, assonnato e mezzo nudo, uscì a metterle la sdraio nel punto desiderato, facendo forza su se stesso, per non augurare all’egregia signora di strozzarsi, con tutto quello iodio.

    Questa storia si ripeteva e non terminava mai, tanto che il povero bagnino stava meditando di darsi malato o, peggio, di squagliarsela: non era possibile che un povero cristo dovesse lavorare, soltanto lavorare, senza avere il tempo per riposare! Così, giù di corda e con un diavolo per capello, alcune mattine dopo, alla voce: «Bagnino, mi vuoi mettere la sdraio?», sbottando, gridò: «Sta a cacà!», rimettendosi a dormire.

    La risposta, captata e subito diffusa per tutto l’aeroporto, per la sua indubbia volgarità, essendo la signora moglie del generale (***), senz’altro avrebbe procurato la reclusione all’aviere Giampaolo M. se a placare la madre e poi il padre non fosse intervenuta la figlia, rilevando che l’aviere si era comportato in quel modo perché, sottoposto a lavoro massacrante, senza che nessuno lo aiutasse, era sull’orlo del crollo. E la mattina dopo, consentendo al giovane sull’orlo del crollo di dormire, fu lei a mettere la sdraio nel punto desiderato dalla signora madre, in attesa dell’arrivo, il giorno successivo, di un aiuto, disposto dal generale in persona.

    Intenzionato a ringraziare la signorina, l’aviere la seguiva con gli occhi e con i piedi; ma, anche se riusciva ad avvicinarla, non gli era possibile rivolgerle la parola perché, ora uno ora l’altro, gli ufficiali se la rubavano, e, lei, ridendo, si lasciava portare via, lungo la battigia, o in un giro sul mare, che a quell’ora era un sogno. Un giorno finalmente ci riuscì, perché… perché lo permise la signorina.

    La quale alla fine si aprì al punto da confessargli la propria simpatia e la propria ammirazione, con parole inequivocabili: «Tu sì che sei uomo vero, non questi sottotenentini che, con i loro lei, non vanno mai al dunque».

    L’aviere, che, quanto a intelligenza ed esperienza, era capitano o maggiore, la dichiarazione della signorina Lucrezia accolse con contenuto ardore, che tutto fece uscire nel primo incontro e negli altri concessi loro dalla sorte: sulla spiaggia o in una cabina o nel retro della sala ristoro.

    E quando, non per loro volontà, anzi con loro dispiacere, l’avventura amorosa terminò, la signorina (maturata e diventata adulta nel corpo e nella mente) un solo appellativo ispirava in chi la guardava: Donna! e l’aviere (promosso generale sul campo, in virtù delle valorose prestazioni) appariva ricco di un’umanità serena, piena, che soltanto la conoscenza profonda di che cosa è l’amore può dare.

    In seguito, apparentemente per normali esigenze logistiche, l’aviere Giampaolo M. fu trasferito all’ Aeroporto di Ghedi (vicino Brescia), dove, preposto all’autobotte, era di servizio 24 ore e le 48 successive era a riposo.

    Il trasferimento del sunnominato in realtà fu stabilito dal generale (***), su suggerimento della sua signora; la quale, non appena si presentò il partito buono, sacrificò la simpatia esistente tra la figlia e l’aviere alle intenzioni serie di un tenente, il cui padre era ammiraglio, ben introdotto negli ambienti governativi.

    I due giovani, alla prova dei fatti, ne furono beneficiati: la signorina Lucrezia, perché andò sposa a un altro uomo vero; Giampaolo, perché nel tempo libero poté dedicarsi alla pittura (a soggetti originali e a decine di d’après), con l’intima consapevolezza di avere (non soltanto dentro, ma anche negli occhi e nella mano) una sua propria linea, sgorgante dal suo essere, in armoniosa simbiosi con l’ indefinibile presenza, come lui la chiamava.

    Se un mese prima del congedo non fosse dovuto correre a Roma, probabilmente (per godere ancora di quella pace) avrebbe messo la firma; ma il padre (d’accordo con il destino, che aveva deciso altro per il figlio), facendo ricorso a una bronchite degenerata in polmonite (anch’essa presa sottogamba), lo aveva chiamato urgentemente a sé, al reparto di terapia intensiva dell 'Ospedale san Giovanni, dove giaceva, con un piede di qua e uno di là. Duro e compatto come il legno del noce, il falegname superò i momenti critici e piano piano mise entrambi i piedi di qua, uscendo, dopo una breve degenza, dall’ospedale.

    A Giampaolo, data la situazione, non restò che tornare all 'aeroporto, prendere le proprie cose e, dopo i rituali saluti, partire per Roma. Lucrezia, venuta a sapere il giorno e l’ora del suo congedo, lo attese fuori con la macchina e lo condusse in uno chalet in riva al mare, a Ostia, dove fu testimone commossa della lacrima lenta che gli segnò il volto, al calare del sole, dinanzi a quella liquida vastità, parlando dell’Arte e dei Maestri che l’hanno onorata. Lo volle per l’ultima volta, prima di lasciarlo davanti al portone di casa.

    Al suo ritorno, il padre, seduto nel laboratorio di falegnameria, dava indicazioni ai due lavoranti: più di una volta cercò di alzarsi; ma vi rinunciò, perché comprese che le gambe non erano in grado di sostenerlo. In due settimane, non mancandogli l’appetito e sempre sostenuto dalla volontà, era tornato quello di prima, però con quel pizzico di prudenza e saggezza che si acquisiscono quando si è scampati per un pelo alla morte.

    In quelle due settimane Giampaolo si riaffacciò a piccoli passi alla quotidianità caotica e sregolata di Roma, diversa da quella serena e ordinata dell' Aeroporto di Ghedi. Rientrò nella sezione del Partito, dove rivide compagni e compagne; vagò nel quartiere; andò agli acquedotti; si spinse, infine, fino a Ostia, per rivedere la casa dove aveva abitato insieme alla sorella Marina e alla mamma Claudia: la casa con la falegnameria e tanti ricordi; poi, col cuore gonfio, diritto verso il mare; e, sulla sabbia, andare a piedi nudi e i pantaloni arrotolati, con scarpe e calzettoni sistemati alla cinghia dei pantaloni, a destra e a sinistra; e, a riva, saggiare la temperatura dell’acqua e sentire la voglia di spogliarsi e tuffarsi e allontanarsi e fermarsi al largo e, là, essere solo, in compagnia dell' indefinibile presenza, che, con il linguaggio muto del silenzio, parla d’immortalità alla sua esistenza, incerta tra il credervi e il non credervi; e finalmente, finalmente dare le spalle all’inquietudine crescente delle onde, all’urlo del loro padre, che lo chiama, lo chiama; e, senza voltarsi, sordo, via, via, percorso lungo la schiena da un brivido, dal brivido prodotto da quella scossa misteriosa e immensa.

    Più nessun legame con il Partito: il filo, spezzato; dietro le parole, vuoto e mancanza di chiarezza, mancanza di sincerità. Aveva dato tanto, con la sua arte, negli allestimenti delle Feste dell’Unità: neanche un grazie!. Compagni, tutti compagni, ma divisi in furbi e stupidi: in quelli che danno e quelli che arraffano soltanto. «Via, via di là, e non rallentare il passo, nella speranza che qualcuno ti chiami! La verità è che non sei dei loro, non lo sei mai stato: colpevole di avere creduto veramente, di avere creduto come si dovrebbe».

    Aprirsi con don Remo? Sì, fino a quando non scova in te il diavolo: il diavolo, proprio così, dinanzi al quale è sperduto e gli mancano parole assennate e scaglia soltanto ottusi strali di condanna.

    Al professore di disegno desiderava mostrare un’immagine di sé che gli desse gioia, ricompensa meritata, per quello che ha fatto per lui. Andarlo a trovare? Una sola occhiata, e capirebbe, capirebbe che è l’uomo, non l’artista, a essere nei guai: l’artista potrebbe aiutarlo; di aiutare, di aiutare l’uomo, non è in grado, perché da qualche tempo l’uomo, l’uomo di oggi, gli è distante, distante anni luce, al punto che… al punto che ha occhi soltanto per l’uomo offertogli dall’Arte compresa, vicina, amata.

    ---

    Giampaolo il mattino si alzava presto, e subito gettava uno sguardo attraverso il vetro (per riprendere contatto col mondo), tracciando (prima di andare di là, per fare colazione) una linea sulla parte appannata: ora orizzontale ora verticale ora obliqua ora spessa ora sottile, ma di uguale lunghezza (a significare: che il suo passo di artista era né lungo né corto né lento né veloce o a scatti, disponendo di tutte le andature, fuse tra loro in modo equilibrato; che le direzioni in cui procedere erano molteplici).

    Il padre gli aveva assegnato un’ala della casa, composta da salone (adibito a studio), camera da letto, bagno e cucina: un quartierino che assicurava all’artista indipendenza e privacy. In quella pace, con la musica in sottofondo, divenire un tutt’uno con il cavalletto e la tela e i colori e i pennelli, e calarsi nel lavoro da realizzare, era avvenimento gioioso, ogni volta misteriosamente nuovo: da vivere, da godere, al quale offrirsi, per il quale consumarsi, per il quale soffrire. Lì, immerso nel tempo breve ed eterno, accadeva che all’improvviso gettasse lo sguardo all’orologio, e soltanto allora si rendeva conto di dover andare in bagno e di avere sete e di avere un buco nello stomaco. Alla fine, dopo aver salutato il padre in falegnameria, si preparava da mangiare e, con un occhio al televisore e uno al piatto, masticava e ingoiava il cibo macchinalmente, di colpo preso dal lavoro interrotto. E poteva accadere che subito andasse di là e si rimettesse davanti al cavalletto o, cedendogli la testa per il sonno, si buttasse sul letto (dai quindici ai trenta minuti: non per dormire, bensì – passando in vorticosa rassegna immagini, sensazioni, pensieri, schegge di vita propria e altrui – per scaricare la stanchezza e la tensione accumulate nelle tempie e negli occhi).

    I giorni e le settimane e i mesi, in quel periodo, furono fruttuosi e sereni: Giampaolo, pur trascorrendo gran parte della mattina e del pomeriggio nello studio, usciva e si mescolava alla gente, percependone la presenza e il respiro, cogliendone le ansie, gli smarrimenti, le attese, i desideri e la voglia di parlare, il bisogno di comunicare, di urlare la propria condizione al mondo arido e indifferente. L’incontro di Amelia tra i banchi di una libreria e l’esecuzione del suo primo autoritratto, all’improvviso, gli cambiarono l’esistenza.

    Glie la cambiarono, perché, vivendo ormai in una dimensione sospesa tra il cielo e la terra, aveva perduto le naturali difese, necessarie per sopravvivere nella giungla umana. Così, quando quella voce lo accarezzò e quegli occhioni neri lo trafissero, commise l’errore di crederli di un angelo, mentre erano armi di donna in carne e ossa, che, a proprie spese, aveva capito quanto sia saggio mascherare l’indifferenza con un sorriso caldo e ammaliante.

    Ad Amelia, ridotta a straccio da un artistucolo, adesso glie ne capitava un altro, pericolosissimo, più contenuto e accorto, anche lui, anche lui pieno della propria arte: il tarlo che gli divora l’umanità buona, risparmiando quella arrogante, rancorosa, insoddisfatta, che stringe e asfissia quanto le càpita a tiro, a patto che abbia cuore e polmoni. Adescarlo e lasciarlo, senz’alcuna spiegazione, col sorriso ironico e crudele sulle labbra: un modo per vendicarsi dell’altro, che tanto si è divertito a farla soffrire, a condurla sull’orlo… Precipiti lui, adesso, nel burrone: vi precipiti, e urli, urli pure la propria innocenza! Adesso, pareggiato il conto, può di nuovo avere fiducia in un domani, con luci e ombre, ma non buio.

    Una settimana era trascorsa dal casuale incontro con Amelia nella libreria, una settimana in cui quel diavolo aveva giocato con la parte più tenera e indifesa del suo essere. E già un’ora dopo averne ricevuto il benservito, un’ora dopo, i pennelli, ai quali aveva affidato il compito d’indagare sul perché di quell’epilogo, i pennelli scavavano fin dentro il midollo dell’uomo e dell’artista, allo scopo di scovare la risposta plausibile.

    Il risultato? Dopo un giorno e una notte, in cui la sua esistenza di colpo sembrava essersi fermata, il padre, preoccupato, fa capolino dalla porta e lo vede davanti al cavalletto, malfermo sulle gambe: gli si avvicina, e lui gli crolla tra le braccia, febbricitante, con gli occhi lucidi. Uno sguardo alla tela: quel volto diviso in due, una parte normale e sana, l’altra invasa da piaghe e deformata, è il volto del figlio, il volto

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