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Una manciata di niente
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E-book282 pagine4 ore

Una manciata di niente

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Info su questo ebook

Siamo a Comacchio (FE) nella metà dell’Ottocento. Filippo Mezzogori, operaio esperto nella lavorazione della canna palustre, relativamente benestante, si ritrova all’improvviso a doversi confrontare con la fame e la miseria, venendo nel contempo a scoprire un ambiente a lui nuovo, quello dei fiocinìni: i tradizionali ladri di pesce, da lui fino a quel momento considerati alla stregua d’inguaribili malandrini.
LinguaItaliano
Data di uscita15 set 2018
ISBN9788829510030
Una manciata di niente

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    Anteprima del libro

    Una manciata di niente - Luigi Bosi

    DIGITALI

    Intro

    Siamo a Comacchio (FE) nella metà dell’Ottocento. Filippo Mezzogori, operaio esperto nella lavorazione della canna palustre, relativamente benestante, si ritrova all’improvviso a doversi confrontare con la fame e la miseria, venendo nel contempo a scoprire un ambiente a lui nuovo, quello dei fiocinìni: i tradizionali ladri di pesce, da lui fino a quel momento considerati alla stregua d’inguaribili malandrini.

    Introduzione

    Alla città di Comacchio e alla sua gente,

    che tanto mi hanno saputo dare.

    Nel mondo fatto d’acqua e di cielo delle Valli di Comacchio di metà Ottocento, dove impera la miseria più nera su di una popolazione paziente e laboriosa, ogni giorno in lotta per la propria sopravvivenza e per quella delle rispettive famiglie, si dipana la storia di un giovane grisolino, Filippo Mezzogori, operaio specializzato nella lavorazione della canna palustre, elemento primo d’ogni manufatto.

    La sua posizione relativamente benestante in una società di miserabili, a un certo punto per una serie di contrattempi viene irrimediabilmente compromessa.

    Filippo Mezzogori si ritrova così dalla sera alla mattina a doversi confrontare con la fame e la miseria, venendo nel contempo a scoprire un mondo per lui relativamente nuovo, quello dei fiocinìni, i tradizionali ladri di pesce, da lui fino a quel momento considerati alla stregua d’inguaribili malandrini.

    UNA MANCIATA DI NIENTE

    1.

    Con le prime luci dell’alba la nebbia era andata diradandosi, e in lontananza già si poteva scorgere l’inconfondibile profilo del Duomo. L’imponente mole della cattedrale dedicata ai san Cassiano era quella del resto che nelle giornate di buona visibilità si vedeva per prima, affiorante sul pelo dell’acqua, da qualsiasi parte della laguna ci s’avvicinasse alla città.

    Ancora un paio d’ore e sarò a Comacchio… pensava fra sé il giovanotto, mentre in piedi sul fondo della stretta batàna [1] spingeva sui remi senza sforzo apparente, facendo filare l’imbarcazione come fosse un pesce. Fra poco m’aspetta un buon bagno caldo: mi faccio bello, e poi via di corsa dalla Cassiana. Mi farà festa la mia donna, ci potrei scommettere, dopo tutto il tempo che non ci vediamo!

    Aveva lasciato Caldirolo che ancora era notte fonda, dal momento che s’era svegliato molto presto e non era più riuscito a riprendere sonno. Il pensiero del resto dei due giorni di mùta [2] da trascorrere a casa, con la moglie e con i suoi figlioli, procurava al giovane una forte eccitazione, dandogli una carica incontenibile. Quel ragazzone grande e grosso come un armadio, Mezzogori Filippo detto al Bisìn [3], dal volto cordiale e sempre sorridente, e dai grandi occhi glauchi come quelli d’un vitello che ampiamente giustificavano il soprannome non proprio comacchiese che i suoi concittadini gli avevano affibbiato, si considerava un uomo fortunato, o così almeno in quel momento lui si riteneva.

    D’altronde come non considerarsi tale, se alla sua età già poteva fare affidamento su di un lavoro altamente specializzato, e pure ben remunerato, come quello del grisolìno [4], un mestiere che suo padre gli aveva insegnato alla perfezione, istruendolo fin da quando era un bambino. Il vecchio era solito portarsi dietro il figlio ovunque andasse, senza stancarsi mai d’insegnargli ogni segreto di quell’arte non facile. Così ben presto Filippo aveva imparato a raccogliere le canne della valle per farne ottime grisòle [5], ampie e resistenti, che da quelle parti venivano usate per costruire qualunque manufatto, dalle baracche a cento altri marchingegni.

    Lui il mestiere l’aveva appreso alla perfezione, così come aveva imparato a costruire i complicati lavoriéri [6], che di canna per l’appunto erano intessuti. Tanto che quelli dello Stabilimento delle Valli Camerali ben presto l’erano venuti a cercare e l’avevano assunto in pianta stabile. Pagandolo anche niente male, assai più di tanti altri suoi compagni: quaranta bajòcchi [7] al giorno gli davano, quasi mezzo scudo, non pochi per un giovane della sua età. Abbastanza comunque da poter mantenere con decoro una famiglia, per la verità non ancora numerosa come lui avrebbe voluto, ma che certamente si sarebbe ben presto ingrandita, vista la smania con la quale lui e sua moglie correvano a cercarsi non appena se ne presentava l’occasione.

    Con questi pensieri per la testa Filippo continuava a spingere sui remi, mentre poco alla volta s’avvicinava alla città. Comacchio ormai la si poteva distinguere abbastanza agevolmente, nella foschia azzurrina che sempre più andava diradandosi. La giornata d’ottobre era bellissima, di quelle che fanno sembrare un piacere anche la fatica.

    Quei due giorni di riposo al Bisìn in fondo se li era meritati, dopo tutto il lavoro svolto negli ultimi tempi! Per ore e ore aveva sgobbato come un mulo, a preparare ogni cosa per l’imminente inizio della pesca. Aveva controllato ogni tratto, ogni angolo del lavoriéro, così come tutte le altre strutture di canna che a lui erano affidate.

    Benché la stagione si mantenesse al bello e l’aria ancora fosse tiepida, ormai non mancava molto a novembre e prima o poi il tempo si sarebbe guastato e sarebbero iniziate le burrasche dell’autunno. Allora anche per quell’anno del Signore, il 1852 per l’esattezza, così come per tutti gli altri anni che il buon Dio da che mondo è mondo aveva mandato sulla terra, la stagione della pesca avrebbe avuto inizio. Per quel tempo ogni cosa doveva essere in perfetto ordine: il suo compito consisteva proprio in quello, nel controllare il lavoriéro e vedere che non ci fossero fessure nelle grisòle di canna con cui era costruito, dalle quali il pesce avrebbe potuto scappare. Non doveva esserci neppure uno spiraglio, perché neanche un’ aquadèlla [8] doveva trovare il modo di passare.

    Era un congegno perfetto, il lavorièro, una specie di ricamo intessuto con la canna sul bel mezzo del canale, nel cui ordito non si poteva tollerare alcuna falla. Quello per l’appunto era il compito di Filippo Mezzogori! Quello era il delicato lavoro che i suoi capi gli avevano affidato e che da lui pretendevano venisse svolto alla perfezione. Neppure un pesciolino doveva farsi strada attraverso le pareti del complicato attrezzo, che l’ingegno degli uomini di valle da centinaia d’anni aveva escogitato per la cattura non solo delle anguille, ma pure dei cefali e delle piccole acquadèlle.

    Lui quel lavoro l’aveva svolto com’era sua abitudine, vale a dire a regola d’arte, e in cuor suo si sentiva sereno. Aveva sgobbato giorno e notte, immerso nell’acqua fino al collo e con i piedi che affondavano nel fango, indifferente al freddo al quale del resto era abituato, per controllare ogni tratto della complessa trappola, ogni spigolo, ogni singola giuntura. Non gli era sfuggito nulla, ne era più che certo. Quei due giorni di mùta se li era proprio meritati!

    Il sole era alto nel cielo e già faceva caldo, quando la barca di Filippo infilò lo stretto passaggio che immetteva in valle Fattibello [9]. La città gli apparve allora in tutto il suo splendore, con gli arditi campanili e con i ponti che andavano a congiungere fra loro le viuzze che costeggiavano i canali, sulle rive dei quali una folla chiassosa e variopinta s’affrettava verso la messa mattutina o verso il mercato. Si trattava per lo più di donne e di bambini, le cui voci stridule si mescolavano al suono cadenzato degli zoccoli di legno, andando a ravvivare la bella giornata di un autunno ormai inoltrato.

    Finalmente infilò l’imboccatura del canale e in breve superò la catena di San Pietro, già abbassata a quell’ora. Con il capo rivolse un rispettoso cenno di saluto ai due gendarmi papalini, che dalla riva lo tenevano d’occhio senza mostrare peraltro particolare interesse per la sua persona. Poco più avanti, ma ben discoste dai primi, stavano due «braghe bianche», due guardie austriache della caserma di Sant’Agostino, che neppure si degnarono di sollevare lo sguardo al suo passaggio.

    A Filippo venne fatto di sorridere, ma si guardò bene dal farsi scorgere da riva. Erano come cani e gatti, i tedeschi e i papalini, da qualche tempo a questa parte! Quando andava bene s’ignoravano a vicenda, pronti a guardarsi in cagnesco, o peggio ancora ad attaccare briga fra di loro, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione. E di occasioni non ne mancavano di certo, anche perché quando non ce n’erano, non ci voleva molto a crearne a bella posta.

    Era da alcuni anni che austriaci e papalini non si potevano soffrire, da quando i ‘crucchi’ s’erano fatti scappare da sotto il naso il famigerato Garibaldi, il più pericoloso, a sentire loro, dei briganti ancora in circolazione. A quel pensiero un brivido corse lungo la schiena del Bisìn, al ricordo dei rischi a cui allora, senza rendersene ben conto, lui stesso s’era trovato esposto suo malgrado. Lui comunque quel povero diavolo di Garibaldi l’aveva visto da vicino, e sinceramente non la pensava affatto come loro. L’aveva guardato dritto negli occhi, quello che tedeschi e papalini chiamavano «pericoloso delinquente»; l’aveva osservato a suo piacere, da qui a lì, e non aveva avuto affatto l’impressione che si trattasse di un brigante. Al momento comunque non aveva nessuna voglia di ricordare i rischi corsi in quella pericolosa circostanza, aveva ben altro per la testa a cui pensare.

    Adesso che era arrivato, Filippo si sentiva ancora più impaziente, come se temesse che anche un solo minuto della licenza che gli avevano concesso potesse andare sprecato. Legò la barca al pontile del Cerùsic [10], e con un balzo scese a terra.

    2.

    La baracca di Antonio Farinelli, detto al Cerùsic, costruita naturalmente quasi tutta in canna e solo in parte con assi di legno, nonostante l’aspetto fatiscente era uno dei luoghi di ritrovo più frequentati dai pescatori di Comacchio. Eretta sull’acqua, su solide palafitte ben piantate al fondo, era situata giusto al termine delle ultime case del paese, in prossimità della catena che alla sera veniva sollevata per sbarrare l’entrata del canale di san Pietro. Per questa ragione costituiva l’approdo quasi obbligato per quelli che, come Filippo, facevano ritorno in città al termine delle due settimane di lavoro trascorse in valle.

    Di lì dovevano passare tutti quanti, prima di raggiungere le loro abitazioni, e c’era sempre qualcuno che ne approfittava per darsi una lavata e per mettersi un po’ in ordine. Ma la baracca del Cerùsic era anche un luogo d’incontro piuttosto frequentato, dove erano soliti trascorrere buona parte del loro tempo libero tutti gli sfaccendati del paese, i disoccupati e coloro che si trovavano in attesa di un lavoro, che da quelle parti loro malgrado non mancavano di certo. Fra un bicchiere di vino e l’altro, fra una chiacchiera e qualche maldicenza, si faceva passare il tempo e ci si scambiavano le ultime novità provenienti dalla valle.

    Al Cerùsic intanto, senza troppa fretta, esercitava il suo antico mestiere di barbiere, tosando e sbarbando quel branco di caproni maleodoranti, appena tornati dal lungo periodo d’isolamento. A richiesta era pure in grado di fornire l’acqua per un bagno, che qualche volta poteva anche essere calda. Cercava insomma di ridare a quei disgraziati, reduci da una quindicina di giorni trascorsi lontano da casa, fra uomini soltanto, in mezzo ai disagi della vita di valle, un aspetto che s’avvicinasse il più possibile a quello umano. E prima di rispedirli a casa, dalle rispettive mogli, con l’aggiunta di due soli pàoli [11] era in grado di fornire loro una bella impomatata di brillantina e una spruzzata d’acqua di colonia che sapeva di violetta.

    La sua vera arte comunque, quella dei salassi, alla quale doveva il nome, al Cerùsic la riservava ai clienti di riguardo. Per la sua abilità in questa antica pratica, da alcuni dei suoi concittadini, quanto meno da quelli più istruiti, veniva anche detto al Flabòtom, termine che in un certo senso pareva dargli ancora più importanza. Fare i salassi del resto non era cosa di poco conto, bisognava stare molto attenti a non esagerare. Di solito erano soltanto i signori che lo mandavano a chiamare a quello scopo. I poveracci non ci pensavano neppure, anche perché lui si faceva pagare il giusto per il suo disturbo. Per i poveri erano sufficienti un paio di mignatte [12], che lui del resto sapeva dove andare a trovare, in qualche canale d’acqua dolce, e che era in grado di procurare per tre soli pàoli la dozzina, e tutto finiva lì. Per i signori no, per quelli ci volevano la sua arte e i suoi rasoi taglienti. Ma soprattutto ci voleva la pazienza di starli ad ascoltare e di assecondarne le fisime, che non erano poche. Questo era il vero motivo per cui alla fine il conto che presentava era salato.

    "Ehilà Bisìn, è un pezzo che non vi si vede da queste parti. Era ora che faceste ritorno fra i cristiani!… Volete che vi faccia bello per la vostra Cassiana? Sarà meglio comunque che prima vi diate una pulitina, poi a sbarbarvi ci penserò io. Perché mi sa che se andate a casa in questo stato pietoso, con la puzza che fate anche di lontano, vostra moglie vi rispedisce in valle a padellate!"

    Mia moglie è pronta a ricevermi anche così, e sempre a braccia aperte. Lei con me non ha problemi… Comunque, credo che sia meglio se mi do una ripulita.

    Va bene, allora bevetevi un bicchiere di rosso intanto che vi faccio preparare l’acqua. Poi, dopo che vi sarete lavato, ci penso io a sbarbarvi come si conviene. Vi faccio pelo e contropelo, così neanche più vi riconoscono.

    C’era una penombra soffusa nell’angusto locale, e un forte odore stantio di vino andato in aceto. Alcuni uomini se ne stavano seduti su panche addossate alle pareti di canna, in attesa che venisse il loro turno. Al centro della stanza, proprio di fronte alla porta lasciata aperta perché entrasse un poco di luce, era collocata la seggiola con il cliente di turno insaponato, attorno al quale al Cerùsic si muoveva con gesti misurati. Lavorava senza fretta, continuando a discorrere e a elargire i suoi giudizi di uomo saggio, di uno cioè che in vita sua ne ha viste e ne ha sentite tante.

    Filippo attese che la vecchia Marta gli preparasse l’acqua. La grande bacinella di rame era sistemata in un’angusta rientranza della stanza principale, separata con una grisòla di canna dal resto del locale, così da garantire un minimo di riservatezza. La vecchia arrivò con due secchi d’acqua appena attinta dal canale sottostante e li versò nella tinozza.

    Ehi vecchia, ma questa è acqua fredda, e per di più abbastanza sporca!… Io il bagno lo voglio fare caldo. Caldo e a lungo, da non finire più: da addormentarmi dentro la mastella. Portate tanta acqua calda, siamo intesi, e anche il sapone, altrimenti vi corro dietro con la scopa…

    La vecchia brontolando se ne tornò sul retro, dove due grandi fuochi sempre accesi provvedevano a riscaldare una serie di paioli pieni d’acqua, e di lì a poco fece ritorno nel locale con due secchi fumanti.

    Ecco accontentato il signorino! Mai soddisfatti questi giovanotti d’oggi, anche il sapone vogliono!… Ai miei tempi era ben diverso, mica c’erano tutte queste comodità. E soprattutto mica si facevano diventare matte le povere vecchie come me. Si aveva più rispetto ai miei tempi, più rispetto…

    In un attimo al Bisìn si liberò dei suoi quattro stracci sporchi e saltò nell’acqua. Era una meraviglia, ci si stava da papi. Scivolò sul fondo e si lasciò andare beato. Per un certo tempo tenne gli occhi chiusi, e in effetti per poco non prese sonno veramente, come aveva predetto alla vecchia.

    Ehi, guarda un po’ chi si rivede… Il mio giovane cognato, il bel Filippo per il quale mia sorella va matta. Chissà poi cosa ci trova in lui, quella poveretta.

    Il viso affilato e poco rassicurante di suo cognato Ignazio Manfrini, detto al Ladrén, gli sorrideva da un’estremità della bacinella dove Filippo tutto nudo se ne stava raggomitolato come dentro a un tiepido utero sicuro. Quell’improvvisa apparizione valse da sola a far cessare il momento di piacevole rilassamento che, dopo tanti giorni di duro lavoro, il giovane grisolìno s’era concesso.

    " At salùt, Ignazio. Cosa ci fai qui a quest’ora del mattino? Non sei a lavorare?"

    Eh sì, a lavorare!… È una parola, lavorare di questi tempi. È un lusso che mica tutti se lo possono permettere. Purtroppo di lavoro in giro non ce n’è, neanche poco, e tu lo sai bene. A casa mia fa freddo e si patisce la fame, come al solito. I miei sei bambini fra un pasto e l’altro fanno in tempo a dimenticarsi di come si fa a masticare, ecco qual è la situazione.

    "Beh, tu però sai bene come arrangiarti per rimediare qualcosa con cui tirare avanti!… Mica ti chiamano al Ladrén per niente".

    Interrotto sul più bello da quell’incontro del quale avrebbe fatto volentieri a meno, Filippo s’era levato in piedi e già si stava asciugando come meglio poteva con gli stessi indumenti appena tolti.

    Tu sai bene che in questo maledetto paese se uno dovesse attendere di trovare un lavoro onesto per mettere a tavola la propria famiglia, dovrebbe aspettare un pezzo.

    Adesso al Ladrén s’era fatto serio in volto, come se a un tratto cupi pensieri avessero preso a passargli per la testa.

    Per forza uno deve arrangiarsi come può, mica può lasciarsi morire di fame.

    Ma sì, ma sì, anche tu hai ragione… convenne a questo punto al Bisìn, guardando il cognato dritto negli occhi. Pur non essendo tanto più anziano di lui, Ignazio al suo confronto pareva un vecchio.

    Non doveva essere facile, pensò Filippo, trovare il modo di sfamare una famiglia numerosa come la sua, senza poter contare su di uno straccio di lavoro. Rubare pesce era il mestiere di quell’uomo, ogni santo giorno, a qualsiasi costo. Rubare pesce a sufficienza per mantenere la famiglia, e soprattutto stando ben attento a non farsi prendere dalle guardie dello Stabilimento.

    Non doveva essere per niente facile fare il fiocinìno [13], così si chiamavano al suo paese i ladri di pesce che per pescare usavano la fiocina. Ci voleva molta costanza e del gran fegato. Senza contare gli incidenti di percorso che non erano di poco conto, come quando ci s’andava a imbattere nei guardiani, e allora erano guai. Quante volte suo cognato era finito in prigione per furto di pesce?… Almeno una decina, se non ricordava male. Forse anche di più.

    Del resto non poteva sbagliarsi di molto, perché in quei disgraziati frangenti era sua moglie Cassiana che ogni giorno, senza dirgli niente, allungava qualcosa da mangiare alla cognata. Era convinta che lui non s’accorgesse di nulla, ma in realtà Filippo faceva finta di non vedere, per non dover intervenire e magari per non doverla rimproverare. Che la sua donna avesse un cuore d’oro in fondo non gli dispiaceva per niente, era un fatto che in segreto lo riempiva d’orgoglio.

    Beh, e adesso come te la cavi?

    La domanda di Filippo era stata fatta con naturalezza, come se in effetti gli fosse importato qualcosa di come al momento stessero andando gli affari del cognato. Il giovanotto intanto s’era rivestito.

    "Adesso va abbastanza bene, anche perché tra non molto avrà inizio la stagione della pesca, e io e la mia congrega, formata da tanti poveracci come me, godremo del diritto della « buona mano» [14]. Il che vuol dire, come tu ben sai, tirare avanti per qualche mese con un lavoro onesto, senza correre troppi rischi, anche se di questi tempi con la pesca delle mani si tira su ben poco".

    Beh, sempre meglio che niente, non ti pare?

    "Sì, ma tu sai anche che la mia mano è composta da una trentina di persone, tutta brava gente e grandi lavoratori, il che però vuol dire trenta famiglie da mantenere, e prima di tutto da sfamare ogni giorno. Mica poco, non ti pare? Ci vorrebbe un aiuto da parte di qualcuno, una piccola spinta… Un colpo di fortuna che ci caschi addosso dall’alto…"

    Ignazio, detto al Ladrén, adesso aveva assunto un’espressione furbesca e fissava il cognato dritto negli occhi. Pareva che lo volesse sondare con lo sguardo.

    Cosa stai dicendo? Di che aiuto stai parlando?

    Filippo s’era fatto attento, la sua voce ora tradiva una certa apprensione.

    Per un momento il cognato rimase in silenzio, continuando a fissare il giovane dritto negli occhi. Poi si decise a parlare e a tirare fuori ciò che aveva dentro, dopo essersi accertato che nei paraggi non ci fosse qualcuno che potesse sentirli.

    "Ascoltami bene Filippo, io non sono qui per caso. Ti aspettavo, a dire la verità... È Malgrén, il mio capo, che mi ha mandato a parlare con te. Te l’ho detto, nella nostra compagnia, quella della mano di Caldirolo, siamo in trenta, tutta gente con una famiglia numerosa da mantenere. Con la pesca delle mani che avrà inizio fra qualche settimana non possiamo farcela a sfamare per molto tempo i nostri familiari. A meno che il lavoriéro non lasci passare il pesce!… Se le grisòle non sono messe giù troppo bene, se di tanto in tanto presentano qualche piccolo difetto, può darsi che qualche pesce in più abbia modo di scappare, e noi saremo pronti ad acciuffarlo. Basterebbe che qualche rammendo non sia fatto a regola d’arte, che qualche fessura rimanesse lì per caso, e anche per noi ci potrebbe scappare abbastanza da poter campare. Ecco, è proprio questo che sono venuto a chiederti, non solo a nome mio, ma anche del mio capo e di tutti i miei compagni. Malgrén mi ha detto di riferirti che ci potrebbe essere qualcosa anche per te…"

    "Fermo là, Ladrén di nome e di fatto che non sei altro, non dire una parola di più!" lo interruppe al Bisìn, al quale le proposte disoneste che quei mascalzoni si permettevano di venirgli a fare già gli avevano fatto venire la mosca al naso. Era in procinto di perdere le staffe. Il solo sentire nominare Malgrén, ossia Raffaele Nordi, lo spregiudicato capo dell’agguerrita congrega della mano di Caldirolo, lo faceva andare in bestia. Voi a me questi discorsi non li dovete fare! Non ci dovete neppure provare, avete capito? Io faccio il mio lavoro come lo so fare, ossia bene. Punto e basta. E voi fate il vostro come potete. Ma non vi dovete permettere di venirmi a fare delle proposte disoneste. Ci tengo anch’io al mio lavoro e alla mia famiglia. Perciò cavati dai piedi, e lasciami in pace!

    Senza più prestare attenzione al cognato, che s’era bloccato a metà del discorso e non sapeva cos’altro aggiungere, anche perché la voce di Filippo nel frattempo s’era alzata di parecchi toni e poteva essere udita dagli altri clienti della stanza accanto, l’irruente grisolìno andò dritto a sedersi sulla sedia del barbiere resasi libera, pronto per essere tosato e sbarbato.

    "Avanti, Cerùsic, datevi da fare. E voglio pure l’extra con la brillantina, il profumo e tutto il resto: avete capito bene!"

    3.

    Mentre entrava

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