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Dumià
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E-book274 pagine3 ore

Dumià

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In ebraico ci sono due parole per dire “silenzio”: “sheket” è l’assenza di rumore, “dumià” è il silenzio interiore. Dumià, a Neve Shalom, è diventato il nome per chiamare la casa di preghiera dove i fedeli di tutte le religioni possono meditare e pregare Dio. Un luogo che va oltre i pregiudizi e le guerre, un luogo dove le persone si uniscono.
Dumià è anche il senso che l’autrice ha voluto dare alla sua vita. Origini antiche, un padre assente ma molto ingombrante, la ricerca continua di se stessi e della propria religiosità, girando il mondo ma vivendo in un Paese pieno di contraddizioni, la lotta per i diritti umani, la profonda fiducia nel genere umano e la speranza nel suo tikkun, il miglioramento.
Se credete che le persone “normali” abbiano una vita necessariamente “normale” vi sbagliate di grosso. Ecco la storia di una donna che ha vissuto ogni minuto della propria vita nella sua pienezza, tra scelte difficili, drammi, guerre, amori, avventure, delusioni e scoperte, sempre vivendo in maniera completa alla ricerca di se stessa, per trovare la vera felicità. E, nonostante l’educazione “di una volta” e la provenienza borghese, l’ha trovata, sempre restando fuori dagli schemi, sempre al di là di ogni catalogazione, cercando di essere portatrice di pace, di dialogo, di unione.

Marina Ergas nasce a Milano nel 1947 da genitori ebrei con origini spagnole, greche, turche e inglesi. Il padre, Moris Ergas, noto produttore cinematografico, lasciò la moglie Jenny e le figlie quando Marina aveva cinque anni e dal quel momento è iniziato il suo errare alla ricerca di una propria famiglia e della felicità. Dopo aver vissuto per cinquant’anni in Israele, dove ha fatto tutti i tipi di professioni, dall’hostess di terra per diverse linee aeree, all’expertise di diamanti, fino alla lunga carriera di guida turistica, oggi vive a Vezzo, sul Lago Maggiore. È autrice del libro, L’Altro, edito da Europa Edizioni.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2018
ISBN9788893847759
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    Anteprima del libro

    Dumià - Marina Ergas

    Kipling)

    Prefazione

    Quelle raccontate in questo libro sono memorie.

    Due anni fa ho seguito un corso sui nuovi sviluppi della ricerca sul cervello, corso tenuto dal dottor Halamish, uno dei ricercatori sull’argomento del Wiezmann Institute di Rehovot.

    Durante il corso ho appreso in particolare i dettagli sul funzionamento della memoria che mi hanno insegnato molto sulla percezione della realtà: noi ricordiamo fatti che a nostro parere sono accaduti, ma che in realtà potrebbero non esserlo o potrebbero essere stati modificati dal nostro cervello. Non ne ricordiamo altri, li abbiamo cancellati.

    Possiamo inserire nuove memorie inesistenti, se siamo stimolati a farlo.

    La maggior parte delle storie raccontate in questo libro sono state scritte in forma di diario in tempo reale o poco dopo essere avvenute. Altre sono state aggiunte in tempi successivi, fino ad oggi.

    Le origini

    Mio padre era un delinquente. Sì, me lo diceva mamma quando ero appena una bambina e me lo ripetevano continuamente tutti i suoi parenti, gli amici, i collaboratori. Effettivamente, con gli anni, anche io ho avuto modo di verificare questa realtà, che probabilmente ne aveva anche fatto un uomo affascinante e carismatico ma moralmente assolutamente deplorevole. Tanto che quando lo seppellimmo mi sarei voluta accertare che la bara fosse ben chiusa, onde evitare spiacevoli ritorni…

    Ma iniziamo dal principio.

    La storia delle mie origini ha radici lontane e le ho ritrovate nel libro per il dottorato scritto dall’italo-americana Francesca Trivellato che tratta del commercio marittimo da Livorno.

    L’archivio del porto di Livorno è andato completamente perduto in un incendio, ma i documenti che riguardano la mia famiglia erano conservati fuori dell’archivio, quindi si sono salvati. Da questo libro ho appreso che gli Ergas, cioè la famiglia di mio padre Moris, erano proprietari di navi che navigavano e commerciavano nel Mediterraneo, anche facendo base in un secondo centro importante, Haleb, in Siria. Ma il commercio andava ben più lontano, verso l’India. Gli Ergas, tra le altre cose, importavano diamanti ed esportavano coralli.

    Anche nel libro di Yosef Hayim Yerushalmi Dalla corte al Ghetto si trova il nome degli Ergas, dove si spiega che da Ancona la famiglia si occupò di spostare la popolazione ebraica nell’impero Ottomano quando lo Stato Vaticano non era troppo amichevole con gli ebrei. Gli Ergas si trasferirono, quindi, in Macedonia.

    Una storia più recente

    Le tracce più recenti della famiglia Ergas le ho ritrovate in Grecia, a Salonicco. Anzi, per la precisione, si trattava della famiglia allargata Ergas-Aroesti.

    Mose Aroesti, il mio bisnonno paterno, viveva a Salonicco e si occupava di fornire quanto necessario alla flotta francese che si trovava di stanza nel Mediterraneo.

    La famiglia, che viveva anche a Bitola, in Macedonia, produceva e commerciava filati di cotone.

    Negli Anni Trenta, Mose Aroesti aveva già aperto, insieme alla famiglia Recanati, la Bank Discount, poi, successivamente cominciò a fare affari con la prima banca francese che fu aperta a Skopje.

    Il bisnonno aveva occhio per gli affari così, vedendo nuove possibilità di sviluppo del mercato, diede in sposa una delle sue figlie, Sarina, a Joseph Amodai, un serbo che era l’allora direttore della suddetta banca francese. Un’altra figlia, Marie, mia nonna, venne fatta sposare con un cugino, Isacco Ergas, che veniva da Bitola.

    A Skopje la famiglia si arricchì, acquistò terreni e aprì una fabbrica di filati di cotone, di tessuti e, più tardi, di tappeti. Gli Aroesti divennero tanto famosi a Skopje che venne intitolato loro addirittura un boulevard, che oggi, però, si può vedere soltanto nelle foto dell’epoca, in quanto dopo il terremoto del 26 luglio 1963 non rimane quasi nulla della vecchia città.

    Belgrado e la fuga

    Nel 1938, Marie con il marito Isacco e i loro tre figli e Sarina, con il marito Joseph e i loro tre figli, si trasferirono a Belgrado per sviluppare l’attività di famiglia.

    Moris, mio padre, venne mandato alla scuola dove studiava anche il figlio del Re dell’allora Jugoslavia, ma dopo poco tempo venne cacciato dalla scuola perché già allora si era rivelato ribelle e ingestibile.

    In quegli anni comparve nelle vicende della famiglia un misterioso personaggio, un ufficiale italiano che era legato al commercio del cotone e che sarebbe stato l’angelo custode di tutta la famiglia durante le peripezie della guerra.

    Nel 1941, diversi giorni prima dell’arrivo delle truppe naziste a Belgrado, mia nonna organizzò la famiglia in piccoli gruppi: mio padre, che era il maggiore, partì da solo con il cugino Armando, mentre i bambini più piccoli rimasero con i genitori, lasciando Belgrado in treno divisi in altri due gruppi. La méta finale per tutti era Dubrovnik, dove era stata presa in affitto una grande villa e dove si pensava si potesse passare il tempo in tranquillità fino alla fine della tempesta. Naturalmente vari aneddoti aleggiano intorno a quel periodo, tra cui quello, raccontato da uno dei cugini più piccoli, in cui mio padre pare se la spassasse con la ragazza che faceva le pulizie in casa. Moris, tuttavia, non ammise mai nulla in proposito, anzi, si rifiutava categoricamente di parlare dell’argomento.

    Ben presto, però, arrivò in Jugoslavia anche l’esercito italiano, che aveva il compito proprio di occuparsi della deportazione degli ebrei jugoslavi. L’esercito fascista si fece consegnare dagli ebrei tutti i loro denari, denari che furono depositati presso la Banca d’Italia e vennero poi restituiti con una legge del 1945. Per una ragione a me ignota, alla mia famiglia i soldi furono restituiti con quattro anni di anticipo, nel 1941, cosa che permise loro di pagarsi il trasferimento al confino aperto, pare sempre grazie all’intervento del nostro angelo custode.

    Gli Ergas vennero quindi portati al campo di concentramento di Kavaja (chiamato ghetto light), in Albania.

    Una famiglia fortunata

    Si mangiava male, e non solo i prigionieri! Anche i soldati mangiavano male, così mio nonno propose al comandante del campo di partecipare alle spese per migliorare il cibo, usufruendo di quanto la nonna aveva cucito nei vestiti della famiglia. Il comandante, che certo soffriva per quel cibo scadente, accettò l’offerta e permise a mio nonno di uscire dal campo ogni giorno con una scorta per andare a fare la spesa. Tornando verso il campo, gli uomini che lo scortavano affinché non scappasse, naturalmente, lo aiutavano a portare i sacchi con la spesa!

    A seguito di una lettera di Galeazzo Ciano e con l’intervento della Regina Elena di Savoia, che era montenegrina, circa settecento persone furono spostate con il ferryboat dal campo Kavaja in Italia, dove furono internate nel campo di Ferramonti, in Calabria e da cambusiere il nonno diventò ben presto anche cuoco del campo.

    Sorte fortunata, quella della mia famiglia diretta, visto che il resto della famiglia che era rimasto a Skopje, più di un centinaio di persone, fu deportato e ucciso nel campo di Treblinka. Erano quasi tutti donne e bambini, perché il carico dei treni verso il nord partì quando i mariti erano ai lavori forzati.

    Da Ferramonti, con il denaro restituitogli dalla Banca d’Italia nel 1941, la famiglia si divise. Mia nonna, mio nonno, le mie due zie e mio padre furono mandati a Lonigo, al confino aperto, dove la polizia controllava ogni giorno che tutti fossero presenti. Lì rimasero fino al 1943, quando all’arrivo dei nazisti nel nord dell’Italia, i Carabinieri ricevettero l’ordine di caricare gli ebrei di Lonigo per deportarli in Germania.

    Il trasporto avrebbe dovuto aver luogo tre giorni dopo, ma i Carabinieri stessi informarono i residenti di Lonigo che, quindi, ebbero il tempo di scappare.

    I miei fuggirono a Roma dove, sotto falsa identità, alloggiarono in un albergo fino all’arrivo degli alleati, per poi trasferirsi a Milano subito dopo la fine del conflitto.

    Traghettando oro

    Fu a Roma che mio padre iniziò a specializzarsi nel suo mestiere preferito: passare le frontiere illegalmente per compiere operazioni… ovviamente illegali. Mi confessò spesso che niente lo eccitava di più e nulla al mondo gli provocava una così potente scarica di adrenalina.

    L’Italia era allora divisa in due. Gli alleati avevano già liberato Roma e al Nord il valore della lira era calato a picco, così chi voleva avere speranze per il futuro cercava di acquistare oro, che al nord aveva un prezzo molto alto. Moris rubava divise dell’esercito americano, si travestiva, acquistava oro dalla parte degli alleati, passava con una barca da un piccolo porto vicino ad Ancona, e vendeva lo stesso oro al Nord, nella zona ancora controllata dai nazisti.

    Traghettò oro fino all’armistizio, poi spostò lo stesso tipo di attività sulla frontiera italo-svizzera, includendo nelle sue operazioni anche il contrabbando di valuta. Documenti falsi erano stati fatti durante la guerra. Perché smettere in tempo di pace?

    A queste operazioni partecipavano tutti i membri della famiglia, ma soprattutto le donne, che si presupponeva passassero inosservate.

    Mia madre raccontava che, dopo il matrimonio con Moris, nel 1946, aprendo gli armadi li trovava pieni di quelle che pensava fossero saponette.

    «Perché hai comprato tante saponette, caro?».

    «Stupida, sono lingotti d’oro».

    Un giorno mio padre le disse che non gli sembrava giusto che solo sua madre e le sue sorelle dovessero passare la frontiera con il busto foderato di valuta, e che quindi sarebbe stato opportuno che anche lei partecipasse agli sforzi per la famiglia. Così la imbustò e la mise sul treno con le altre signore. Quando arrivò il controllore, però, mia madre svenne dalla paura, cosa che gli fece rendere conto che lei non avrebbe potuto continuare a partecipare ai viaggi.

    Così facendo, all’età di ventun anni, mio padre era diventato milionario e giocava a baccarà a Montecarlo con Re Farouk.

    Tra un affare e un altro, tra una visita al casinò e un’altra, tra un’avventura e la seguente, Moris, dopo di me riuscì anche a fare una seconda figlia.

    Mamma, una Cittone

    Per quello che riguarda la famiglia di mia madre, la famiglia Cittone, non ho molte informazioni.

    Il nome appare sulle liste dei Marrani e anche sulle liste che riguardano l’offerta fatta dal governo spagnolo di offrire il passaporto ai discendenti delle famiglie che furono cacciate dalla Spagna nel quindicesimo secolo, approdando, poi, a Livorno.

    Anche i Cittone, dunque, da Livorno si spostarono nell’Impero Ottomano, in quella che allora era Costantinopoli e che oggi è Istanbul.

    Nei primi anni del Novecento, mio nonno Roberto, all’età di diciassette anni, tornò in Italia e si ricongiunse con la parte della famiglia che era rimasta, lavorò come operaio a Torino, alla Michelin, si arruolò come volontario (parlava il greco e il turco, lingue indispensabili nel primo conflitto mondiale) e ricevette alla fine della guerra la medaglia al valore.

    Nel 1938 entrarono in vigore le leggi razziali, così mia madre fu cacciata dalla scuola di via Ruffini, a Milano, la stessa scuola che io avrei frequentato alle elementari circa vent’anni dopo.

    Con l’inizio della guerra la famiglia si spostò in Brianza. In effetti, solo le donne si trasferirono in un albergo che, però, veniva controllato regolarmente dai fascisti e dai nazisti che allora occupavano la zona. Così si faceva passare mia nonna, inglese e quindi nemica, come sordomuta: il suo forte accento inglese l’avrebbe tradita. Gli uomini, invece, scapparono sulle montagne.

    La presenza della mia bisnonna turca aiutava, in quanto la Turchia era neutrale e il suo passaporto salvò quasi tutte le donne della famiglia insieme all’aiuto del capo della polizia di Milano, che era fascista ma amico di mio nonno. In quel periodo mia madre fu presa prigioniera durante una retata e venne caricata su un camion, ma quando un carabiniere si accorse che era diventata gialla in volto, la buttò fuori dal quel veicolo che l’avrebbe portata in Germania, pensando che avrebbe potuto fare ammalare gli altri. O forse ne La "ebbe compassione. In qualche modo la famiglia si ricongiunse a Roma, dove negli ultimi sei mesi prima della Liberazione le donne furono accolte in un convento e gli uomini… in un bordello.

    Dopo la guerra mio nonno riuscì ad aprire a Milano un negozio Iran di tappeti antichi in via Bigli, dove, più tardi aggiunse anche arazzi. L’attività dovette essere ceduta ufficialmente alla sua socia non ebrea durante tutto il periodo delle leggi razziali e della guerra. La socia, onesta, ripristinò poi il tutto alla fine del conflitto.

    Le due famiglie Ergas e Cittone si conobbero subito dopo la guerra a Lonigo, dove passavano le vacanze.

    Lì mio padre, dopo aver concupito mia zia, la chiese in sposa, ma nonno Roberto, da buon medio-orientale, gli disse che non se ne parlava di concedere in sposa la figlia più giovane se la primogenita non era ancora stata maritata. Così mio padre sposò mia madre. Era stato raggiunto un buon accordo tra un turco e un macedone.

    Fu così che il 17 giugno del 1947, a Milano, io venni al mondo.

    Come può una con le mie origini identificarsi con una qualche nazionalità? Sono nata con passaporto greco in Italia, dove ho ottenuto la cittadinanza con lo Ius Soli all’età di ventun anni, ho avuto due nonni macedoni, un padre di madre lingua serbo croato, un nonno turco, una nonna inglese e una bisnonna turca che lavorava sempre a uncinetto per realizzare le scarpine per i neonati della famiglia. Veniamo tutti dalla Spagna e io ho vissuto cinquant’anni in Israele…

    Sono nata decisamente in minoranza: quante persone conoscete che hanno una nonna inglese e una bisnonna ottomana?

    A ciascuno il suo amante

    Ho pochissimi ricordi della mia prima infanzia. Qualche immagine della domenica mattina, mentre con mamma e papà giocavamo in un grande letto a indiani e cow boys… ho immagini di me con papà e i suoi due cavalli da corsa in scuderia, uno dei quali si chiamava Murano… una tata, un’altra tata… una porta a vetri chiusa con urla dalla parte opposta. I nonni, i miei cani e i miei gatti.

    Quando avevo circa tre anni, i miei genitori di fatto si separarono, anche se la separazione ufficiale ebbe luogo dopo la nascita di mia sorella Renata, quando avevo cinque anni.

    A quell’epoca avevo già imparato a leggere da sola sulle copertine delle vecchie guide del telefono, quindi venni mandata a scuola. Venni iscritta alla Scuola ebraica di Milano che allora si trovava in via Eupili. Là rimasi per il primo anno e pochi mesi del secondo anno. Fui poi trasferita alla scuola pubblica, la Ruffini, dove non era facile essere l’unica ebrea della classe. Uscivo dall’aula durante l’ora di religione e avevo i genitori separati, cosa inusuale all’epoca, ed era anche una situazione imbarazzante resa pubblica dal fatto che mio padre aveva una relazione con l’attrice Silvana Pampanini.

    Ho conosciuto la Pampanini a Santa Marinella, dove si stava girando un film prodotto da papà. Avevo in quell’occasione assistito a una scena che si svolgeva in una delle palafitte dove abitualmente sostavano i bagnini. Era una capanna sulla spiaggia, al cui interno c’era anche una sorta di letto. Lì la Pampanini, seminuda, recitava circondata da tanta gente, tanti uomini. Poi smisero di girare e ho un vago ricordo che mi sconvolse di un qualche avvicinamento fisico da parte di mio padre. Scappai piangendo, disperata, lontano. Ci misero del tempo per ritrovarmi e riportarmi a casa. Quell’episodio segnò tutta la mia vita.

    A casa dei nonni materni in salotto c’erano molte riviste. Salii sul bracciolo della poltrona dove stava seduto il nonno e guardai la rivista che stava leggendo. Ecco papà. C’è una donna.

    «Mettete via le riviste per favore. Non vedete che c’è la bambina?»

    Aveva la voce da uomo, Silvana Pampanini, ed era una donna volgare.

    Il trasferimento dalla Scuola ebraica mi fu motivato con la scusa che il cibo lì non fosse sufficientemente buono, ma, in effetti, anni dopo, non molto tempo prima della sua morte, mia madre mi confessò che lei aveva un amante, mia sorella era appena nata e quindi non avrebbe potuto capire ma io sì, quindi decise che se io fossi andata a scuola in via Ruffini avrei potuto passare molto tempo a casa dei nonni che abitavano nella stessa strada, proprio di fronte alla scuola.

    In effetti, anche riguardo mia madre ho un ricordo che mi turbò indelebilmente. Una notte mi alzai per andare a mangiare qualcosa e, passando davanti al salotto per andare in cucina, vidi mia madre sdraiata sul divano con un uomo che, ovviamente non era mio padre. Tornai in camera mia, pensierosa e angosciata. Come l’approccio di mio padre con Silvana Pampanini a Santa Marinella, anche questo evento fu imprigionato nella mia vita.

    A casa dei nonni ci abitavano anche mio zio Elio, che ancora non era sposato, aveva una bellissima fidanzata e ascoltava musica jazz, poi la mia bisnonna turca che aveva un’orrenda parrucca in testa per mascherare l’alopecia, e Paola, figlia di una mia zia, che era rimasta orfana di entrambi i genitori e, quindi, era stata adottata da mio nonno. C’era poi Miki, un barboncino nero di taglia grande.

    Io dividevo la stanza con Paola, che amavo molto ma che sicuramente influenzava la mia anima in maniera triste, comunicandomi la sua inconsapevole malinconia.

    Si mangiava molto bene a casa dei nonni: cucina greco-turca di prima qualità.

    Ma il ricordo più bello in assoluto della mia infanzia è decisamente il seno di mia nonna: era molto sviluppato e io lo usavo come cuscino quando dormivo nel lettone tra lei e il nonno. La mia nonna materna rimane in assoluto il dono più bello che ho ricevuto in tutta la mia vita.

    Flash

    1952. Lettera standard a mio padre: Caro papà, come stai? Io sto bene, spero che tu stia bene, noi stiamo tutti bene, spero di vederti presto, bacioni, Marina.

    Per nove anni continuò questo rapporto epistolare, due volte alla settimana. Avrei potuto farne delle fotocopie. Ma allora non erano ancora così in uso. Lettere che non hanno mai avuto una risposta, a eccezione di un paio di volte in tutta la vita, per questioni più che altro pratiche. Queste lettere sono state un sine qua non per una vita tranquilla, un obbligo, un dovere, un comandamento.

    Vacanze d’estate. «Le bambine devono venire a Roma!». Era mattina. La giornata era bellissima, era estate e faceva caldo. Uscii sulla veranda aperta dove mi venne servita la prima colazione. Era una tipica casa al mare, a un piano, circondata da un giardino. Tutto era in ordine e c’era silenzio. Una signorina mi servì la colazione e mentre stavo mangiando ecco arrivare una seconda donna. Quando finii di mangiare si sedette su una sedia vicino a un tavolino e prese posizione di fronte a me con cavalletto, tela e colori. Era la pittrice.

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