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Linee parallele
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E-book205 pagine2 ore

Linee parallele

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Info su questo ebook

Agneta Banèr e Marta Vendramin conducono due vite diametralmente opposte, l’unica cosa che le accomuna è la dolorosa e combattuta convivenza con il passato. Agneta è esausta della propria esistenza, protrattasi unicamente nel patimento a causa di una malattia sconosciuta. Marta respinge ogni remota opportunità verso un’esistenza felice, come un incessante flagello per la morte della madre. Un incidente del tutto fortuito le fa incontrare e, da quel momento, la loro relazione diventa unica e indissolubile, volta alla ricerca morbosa di una nuova vita mai più avvezza al dolore. Ma l’incombenza di un oscuro segreto cambierà per sempre il loro destino.

Nato a Dolo nel 1976, Tobia Berti ancora oggi vive e lavora nella Riviera del Brenta. Il suo percorso inizia con la scultura: dopo la formazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia, firma una lunga serie di opere, prodotte in rassegne personali e collettive, simposi e concorsi di rilevanza internazionale. Nel 2000 intraprende la carriera di fotografo e regista, comincia a collaborare con diverse aziende operanti nel mondo del design, interpretando e valorizzando le loro collezioni attraverso scatti still life e di ambientazione, ma anche contribuendo al processo creativo di definizione della campagna pubblicitaria e dell’intero catalogo. Dal 2007, l’attività si intensifica con la regia, la scrittura e produzione di spot/corporate video e video di prodotto. Ma è con i video musicali e i cortometraggi da lui scritti e diretti che ottiene i maggiori riconoscimenti, partecipando a diversi festival internazionali e collaborando con personaggi illustri del mondo dell’arte e dello spettacolo, tra i quali Allan Nicholls, Alexandros Kapelis, Achille Gallo e Sylvain Tremblay.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673779
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    Anteprima del libro

    Linee parallele - Tobia Berti

    INTRODUZIONE

    Ho sempre pensato che questa città attenda paziente febbraio per mostrare il suo abito più esclusivo ed elegante, un privilegio concesso a pochi intimi, non a gente frettolosa.

    Il sole è appena tiepido, quel poco che basta per farti sedere sulla prima panchina libera, per lasciarti accarezzare dai raggi attraverso l’aria frizzante, che porta con sé il profumo inconfondibile del momento in cui la primavera sembra ancora lontana ma l’inverno è già terminato.

    Io sono fortunata, il mio palazzo ha un’altana.

    L’ho arredata in maniera semplice, in fondo lo sono anch’io, al contrario di quanto sembra.

    Ci ho messo una sedia a sdraio.

    Sì, una solamente, perché mi piace venirci da sola. Non ho molti amici. Anzi nessuno, per la verità.

    Be’’, no, forse l’unica è Mirne, ma non so se posso considerarla proprio un’amica, piuttosto… una sorta di compagna di viaggio. Anche se alla fine il viaggio lo faccio da sola. Sempre.

    Faccio quello che voglio, nei tempi e nei modi che decido io, non voglio rendere conto a nessuno.

    E soprattutto vado dove decido io. Anche per questo non ho bisogno di amici. Ecco.

    Mi stendo sulla sdraio, non sento freddo.

    Dai, non fa freddo. Non più.

    Quante volte ho visto sorgere il sole? Ho perso il conto, anche di quante volte l’ho visto tramontare. Nemmeno le pietre di questo terrazzo potrebbero dirlo.

    Non potrei scegliere un altro posto per godermi queste scene… Guardare quella stella così vitale per il pianeta mentre emerge dolcemente dall’acqua e illumina l’orizzonte… per poi scomparire dietro le linee e i profili degli edifici… Sì… Ho scelto Venezia anche per questo spettacolo: migliaia di repliche che non mi annoiano mai. Per la maggior parte delle persone, probabilmente un posto vale l’altro.

    Ma non è così.

    Soprattutto per me, che tra luoghi, cose e persone, posso dire di aver visto tutto. So che vi sembrerà un atteggiamento presuntuoso, ma è la verità. Questa è l’unica città dove riesco ancora a provare quello che le persone chiamano emozione.

    È questa l’unica cosa che mi trasmette ancora un senso di vitalità… O che forse… dà un senso alla mia vita.

    Ammesso che si possa definire vita.

    §§§

    Agneta ha un fascino particolare, non si può definire bella in senso stretto.

    Lo sguardo è magnetico: l’azzurro chiarissimo degli occhi dal taglio leggermente orientale, cattura subito l’attenzione. Il fisico ha tratti androgini, ma le movenze eleganti e sinuose lo rendono molto sensuale.

    Anche i capelli sono particolari, piuttosto corti e chiarissimi, al punto da sembrare bianchi.

    È stesa sulla sedia a sdraio a godersi il primo accenno di sole, anche se gli strascichi dell’inverno continuano a farsi sentire, specie di primo mattino. Ma come dice lei stessa, non soffre il freddo. Indossa infatti un costume olimpionico con decorazioni dai colori accesi: un misto di viola, turchese e giallo oro, un richiamo agli accostamenti di moda a fine anni Ottanta.

    I colori vivaci creano un contrasto netto con la pelle chiarissima, morbida, levigata come quella delle donne asiatiche.

    Ma il candore lascia trasparire una sfumatura grigiastra, che la fa sembrare malata. Sì… malata.

    Protegge gli occhi chiarissimi dietro un paio di grandi occhiali da sole con lenti molto scure e la spessa montatura di tartaruga. È stesa sulla sdraio in costume da bagno, indossa un paio di stivali da pioggia rossi, alti fino al ginocchio, consumati e pieni di graffi e sbucciature.

    Una sciarpa nera le avvolge le spalle come una stola elegante, scende lungo i fianchi fino a scomparire dietro la schiena; al collo, invece, porta un filo di platino con tre pendenti in vetro opalino a forma di giglio.

    Agneta sembra serena, si accoccola sul fianco sinistro.

    Pare assopirsi, cullata dalla brezza intermittente. O forse è solo l’effetto di quella flebo dietro di lei, appesa a un treppiede, il cui tubicino entra all’interno del gomito. La vena scura, quasi blu, risalta sotto la pelle chiara.

    Ma il sorriso accennato indica che Agneta si sta godendo l’anticipo di primavera. Si rigira sul fianco destro facendo attenzione all’ago, e si raggomitola nella posizione che assumono i bambini nel grembo materno.

    Lo scorrere del tempo per lei non conta. Le lancette degli orologi continuano a muoversi, ma per lei tutto sembra rallentato, vive in un’altra dimensione.

    La vita di Marta è completamente diversa.

    Lei è un’ematologa in carriera, una quarantenne molto attiva, una donna solare, almeno all’apparenza.

    È anche espansiva ma con discrezione, empatica, una persona che ispira fiducia.

    I capelli hanno una sfumatura rosso amaranto naturale, sono lunghi, fluenti e fanno risaltare gli occhi azzurro-verde, conferendole molta personalità. I lineamenti del viso, decisi ma non privi di grazia, l’espressione attenta, con una sorta di sorriso accennato, la rendono affascinante. È difficile non notarla quando la si incrocia.

    Sì, è il tipo di medico cui la maggior parte dei pazienti maschi si affiderebbe volentieri, indipendentemente dalle doti professionali.

    Indossa una collanina con pendente in vetro opalino dalla forma di giglio, un gioiello antico e un po’ consumato che non toglie mai e che molto probabilmente ha ereditato.

    I colleghi del reparto di ematologia dove lavora la considerano un ottimo medico e la compagna ideale per la pausa caffè.

    Capitolo 1

    Al reparto di ematologia era un giorno come tanti. All’interno dell’ambulatorio, allineati sui lettini, c’erano cinque volontari: era il primo giovedì del mese e si raccoglievano le donazioni di sangue.

    Marta era scrupolosa, passava spesso tra i lettini per assicurarsi che fosse tutto a posto. Chiedeva a tutti con gentilezza come stesse andando.

    Fra i donatori c’era una ragazza, i cui lineamenti acerbi rivelavano chiaramente la sua età, mentre le curve del corpo appena accennate indicavano che lo sviluppo non era ancora finito. Le tracce recenti dell’acne confermavano che si trattava di un’adolescente. Era piuttosto carina, ma gli occhi erano tristi, sembrava cercare conforto negli sguardi che incrociava.

    Marta se ne accorse e si avvicinò in silenzio, sedendosi di fianco a lei. Le appoggiò una mano sul braccio e le chiese se tutto andasse bene. La ragazza si voltò lentamente e accennò un sorriso di assenso, senza troppa convinzione.

    «Grazie…»

    Allora Marta con un sorriso complice le chiese se fosse la prima volta che donava il sangue. La ragazza annuì timidamente.

    «Su, non essere tesa, rilassati… Hai mangiato qualcosa stamattina?»

    «Sì, ma non è per questo…» aggiunse titubante la ragazza.

    «E allora, che succede?» ribatté la dottoressa.

    «No, mi scusi, non voglio farle perdere tempo…» disse la ragazza sottovoce.

    Marta la cercò con lo sguardo, fece spallucce e le indicò l’ago, sorridendo.

    «Non mi pare ci sia molto altro da fare qui, se non aspettare che questo finisca il suo lavoro… E ti confesso che è un po’ noioso…» le disse con tono rassicurante e un po’ ironico.

    La ragazza rimaneva in silenzio, si mordeva il labbro, non per quello che stava succedendo o per le parole della dottoressa, ma perché avrebbe voluto affrontare un argomento che le pesava, ma non sapeva come fare.

    «Sei autorizzata a stare zitta solo ed esclusivamente se quello che vorresti dirmi è noioso come stare su questo lettino!» le disse Marta con tono scherzoso, per incoraggiarla.

    «No, vede… È che… Il fatto è che ho lasciato il mio ragazzo… Dopo un anno, quattro mesi e ventisette giorni…» le disse la ragazza, ritornando al tono sconsolato.

    Istintivamente, Marta scoppiò a ridere portandosi la mano alla bocca. Si rese conto che la sua reazione avrebbe potuto essere fraintesa e si scusò immediatamente con la ragazza.

    «Scusami! Scusa, ti prego, non volevo offenderti o prenderti in giro, è che anch’io alla tua età tenevo il conto… Proprio come fai tu. Questa coincidenza mi ha fatto tornare in mente com’ero… Scusa ancora.»

    Lo disse prendendole la mano affettuosamente.

    Poi le chiese il motivo per cui la loro storia era finita.

    «Mi tradiva. Con la mia migliore amica, erano mesi che lo faceva. La vita è proprio una merda! Niente dura in eterno… per me quei due sono morti… morti per sempre.» La ragazza aveva abbandonato il tono avvilito, parlava sottovoce ma non riusciva a nascondere la rabbia. La ferita era ancora aperta.

    Marta le sorrise affettuosamente e le carezzò la guancia, arrossata dall’acne e dall’emozione.

    Una voce proveniente dal corridoio richiamò Marta ai suoi doveri, e un’infermiera entrò di corsa in ambulatorio senza nemmeno bussare.

    «Dottoressa, il pronto soccorso… hanno bisogno di lei. Venga, per favore, presto…»

    Capitolo 2

    Palazzo Banèr era famoso.

    Una leggenda singolare che i veneziani conoscono bene, e che spiega le ragioni della forma e delle inusuali proporzioni asimmetriche della facciata principale, che dà sul Canal Grande. Nelle leggende la realtà si mescola alla fantasia e all’inevitabile abitudine ad attribuire alle sciagure, specie a quelle altrui, un valore didattico.

    Lo sforzo si rivela comunque drammaticamente inutile: ciò che quotidianamente continua ad accadere conferma puntualmente che in realtà nessuno è disposto a imparare davvero.

    Prima di diventare proprietà Banèr, sembra che il palazzo fosse passato in eredità ai fratelli Flangini, due persone diverse, diametralmente opposte come attitudini, carattere e come stile di vita.

    Il minore dei due avrebbe voluto cedere la sua quota al maggiore. Aveva un unico desiderio: partire per un viaggio avventuroso intorno al mondo. Con il ricavato della cessione avrebbe potuto farlo tranquillamente. Dal canto suo, il fratello maggiore speculava sul fatto che, se l’altro fosse partito, di fatto l’intero palazzo sarebbe comunque rimasto a lui: mica avrebbe potuto smontarlo e portarlo con sé come fosse un baule. Forte di questa convinzione, rifiutò qualsiasi proposta. A quel punto il minore, per ripicca e contro ogni logica, decise di demolire la metà del palazzo che gli spettava mattone dopo mattone, tagliandolo di netto per tutta la lunghezza. Perfino le colonne della facciata che delimitavano il confine di proprietà subirono questa salomonica mutilazione.

    Incredibilmente, stando alla narrazione, riuscì a stivare tutto il materiale in tre grosse navi e lasciò Venezia, facendo perdere definitivamente ogni traccia di sé e della sua parte del palazzo.

    Ancora oggi Palazzo Banèr, o più correttamente la metà che ne resta, al suo interno racchiude comunque tutte le splendide caratteristiche architettoniche dell’epoca, a partire dagli stupendi pavimenti in seminato alla veneziana con colorazioni esclusive, differenti in ogni piano. Gli enormi lampadari antichi in vetro di Murano si specchiano sui pavimenti lucidati a cera, arricchendo le stanze con luminosità cangianti. La luce solare entra dalle grandi finestre affacciate sul Canal Grande e illumina oggetti e mobili di valore che arredano ogni angolo: il palazzo sembra una sorta di museo eterogeneo, espone le testimonianze e le vestigia di epoche, culture e tradizioni diverse. Suppellettili, sculture, dipinti, arazzi, armi, mobili, si alternano a oggetti vintage e modernariato, sempre senza sconfinare nel cattivo gusto.

    Stanze con gli arredi e gli oggetti disposti con un ordine quasi maniacale si succedono a zone in cui regna un caos anarchico, come potrebbe essere una cantina o una soffitta.

    Da sempre Agneta era sistematicamente e inguaribilmente disordinata: dove passava, creava e lasciava disordine con una naturalezza disarmante. Era la sua indole.

    Per fortuna c’era Mirne, la governante che si prendeva cura di lei e della casa. Manifestava la sua disapprovazione scuotendo la testa con lunghi sospiri sconsolati, e lanciava sguardi che esprimevano rassegnazione e disappunto, mentre tentava di porre rimedio al caos riordinando con testardaggine uguale e contraria a quella di Agneta.

    Mirne raccoglieva quotidianamente abiti sparsi ovunque per terra, specie intorno al divano che Agneta prediligeva. La sua era una routine quotidiana come il sorgere del sole: riordinare, pulire, arieggiare i saloni aprendo le finestre per far entrare luce e brezza marina. Anche Agneta era abitudinaria, si stendeva sempre sullo stesso divano, un vecchio Chester bordeaux, consumato qua e là, con parecchi bottoni del capitonné che mancavano all’appello e che Mirne aveva raccolto e conservava in una ciotolina, nella vana speranza di un restauro futuro. Quel divano era come il paio di jeans preferito, che per quanto consumato era vissuto, si era adattato alle forme del suo corpo, aveva persino il suo odore, per questo risultava il più comodo del mondo. Per dormire Agneta indossava una mascherina, di quelle che riparano gli occhi dalla luce, che era bordeaux come il divano e spiccava sul candore della pelle e dei capelli.

    Prima di addormentarsi tormentava il giglio nero di vetro della sua collana tenendolo tra le dita e facendolo scivolare fra di esse come farebbe un prestigiatore con le biglie di cristallo, o con le monete di scena.

    La stanza era disseminata di bottiglie di Select: alcune semivuote, altre quasi piene o ancora sigillate. Il rosso del liquore si sposava con il colore del divano e donava alla stanza un tono vivace e quasi divertente. La meno divertita, invece, era Mirne, che come ogni volta, non sapeva da dove cominciare per riordinare quella che avrebbe dovuto essere la bellissima stanza da soggiorno di quel palazzo veneziano.

    «Lo sa, signorina Agneta, che il posto naturale per gli abiti è l’armadio. A-R-M-A-D-I-O! Non gliel’hanno mai spiegato?» chiese Mirne in tono sarcastico.

    Agneta non si fece pregare e rispose con ironia: «Mirne, sto provando un nuovo esperimento… scientifico! Ormai dovresti conoscermi…».

    «Una di quelle cose che come al solito non funzioneranno?» chiese la domestica.

    «Chissà? Magari è proprio questa la volta che funzionerà…» soggiunse Agneta in tono possibilista.

    «Sarebbe una piacevole novità… Di quelle che cambiano la vita!» replicò Mirne.

    «Be’, al tuo posto non ne sarei entusiasta… Se davvero gli abiti cominciassero ad alzarsi da soli per andare nei loro alloggi e poi posizionarsi da soli sulle grucce… Sì… Ecco, allora dovrei licenziarti.»

    Mirne improvvisamente si fermò, e voltandosi di scatto lanciò uno sguardo tagliente verso Agneta. Non era uno sguardo cattivo, era una situazione abituale fra loro, una specie di gioco dove entrambe cercavano di avere l’ultima battuta.

    «ARMADI. Gli alloggi degli abiti si chiamano armadi, è risaputo signorina, è di dominio pubblico.»

    Squillò il telefono.

    Mirne alzò il capo e si girò prima verso il telefono, che continuava a squillare, poi verso Agneta. Era un vecchio telefono a muro in bachelite nera. Sotto c’era un tavolino intarsiato in radica, finemente decorato in foglia d’oro, con sopra

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