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Cattivi amici
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E-book387 pagine5 ore

Cattivi amici

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Info su questo ebook

Ai primi posti delle classifiche inglesi e italiane
Un grande thriller

Noah Sadler e Abdi Mahad sono due amici inseparabili. Per questo motivo, quando il corpo di Noah viene trovato in un canale di Bristol, il silenzio di Abdi è inspiegabile. Perché non parla? Il detective Jim Clemo è appena tornato dopo un congedo forzato che l’ha allontanato dal suo ultimo caso e la morte di Noah sembra l’incidente perfetto con cui tenerlo occupato. Ma ben presto quello che sembrava un gioco tra ragazzi finito molto male si trasforma in un caso che accende il dibattito pubblico: Noah è inglese, Abdi un rifugiato somalo. La tensione sociale, la paura e la rabbia cieca degenerano velocemente a Bristol, mentre le due famiglie combattono per ottenere le risposte che cercano. Non sanno quanto sarà lunga la strada per capire che cosa è successo davvero, né sono preparate all’orrore che dovranno affrontare. Perché la verità spesso può fare molto male…

1 milione di copie vendute nel mondo
Tradotta in oltre 20 lingue

«La Macmillan è un nome nuovo, ma sembra già, per il controllo totale sulla trama, una veterana del brivido.»
la Repubblica

«Gilly Macmillan arricchisce la narrazione con email, articoli di giornale, persino le trascrizioni delle sedute di Clemo con lo psicoterapeuta. Ma il colpo di genio sono i post del blog che diventano virali.»
New York Times Book Review

«Gilly Macmillan riesce a esplorare nel profondo le relazioni umane e i legami tra le famiglie senza mai smorzare la tensione di questo thriller mozzafiato.»
Real Simple magazine
Gilly Macmillan
È cresciuta a Swindon e ha trascorso l’adolescenza nel Nord della California. Ha lavorato al «Burlington Magazine» e alla Hayward Gallery prima di mettere su famiglia. Da allora vive a Bristol con il marito e i tre figli. Il suo romanzo d’esordio, 9 giorni, è stato un successo internazionale, tradotto in 20 lingue. La Newton Compton ha pubblicato anche La ragazza perfetta, Cattivi amici e Una cattiva baby-sitter.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2017
ISBN9788822714916
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    Anteprima del libro

    Cattivi amici - Gilly Macmillan

    Giorno 1

    È un bel momento quando mi rimetto il distintivo dopo tanti mesi. Quello di ispettore è un grado per cui ho faticato parecchio.

    Nel mio viaggetto quotidiano alla Kenneth Steele House, la sede del dipartimento di Investigazioni Criminali di Bristol, l’aria è frizzante e fredda e il traffico più leggero del solito. Vado via bene sulla nuova bici che ho comprato quando avevo tempo da ammazzare, tra le sedute terapeutiche e noiosi obblighi da istruttore.

    La pedalata mi dà sensazioni dolcissime.

    Qua e là vedo i residui di una manifestazione che ha avuto luogo la settimana scorsa nel centro cittadino, un mucchio di coni segnaletici gialli come birilli in parte abbattuti aspetta d’essere portato via a pochi passi dall’argine; le assi su alcune delle finestre sfondate fanno da contrappunto ai vetri riflettenti delle altre.

    Il corteo è cominciato come un problema di scarsa entità, una seccante, piccola manifestazione antimmigrazione di un gruppo neonazista, con l’unica attenuante dell’aver previsto una partecipazione veramente esigua. I manifestanti si sarebbero probabilmente dispersi dopo un paio d’ore se il corteo fosse stato gestito bene, come sarebbe stato doveroso, e invece la situazione era scappata di mano. Disordini e saccheggi di una certa gravità si sono trasformati in un imbarazzo su larga scala per la polizia. La brutta figura ha lasciato un retrogusto sgradevole in bocca a molti cittadini.

    Io però non ci penso più di tanto mentre mi reco al lavoro. Quando varco la soglia di quelle porte e rientro in ufficio sono tutto preso a tenere la testa più alta che posso.

    L’ispettore capo Corinne Fraser non è per niente cambiata dall’ultima volta che l’ho vista mesi fa: occhi grigi, capelli crespi color ardesia domati solo parzialmente dal taglio a caschetto e uno sguardo più penetrante di una TAC al cervello. Si alza dalla sua scrivania e mi accoglie con una calorosa stretta bimane, ma mi augura buona fortuna in un tono con cui mi comunica che avrò da lavorare sodo per riconquistare la sua fiducia. È un bentornato, ma di quelli che ti mettono a disagio. È Fraser vintage.

    L’accoglienza degli altri colleghi è accettabile. Per lo più è un piacere-di-rivederti dal sapore abbastanza genuino, anche se uno o due non ce la fanno a guardarmi negli occhi tanto a lungo quanto dovrebbero. Non c’è da vergognarsi, mi ha detto una volta la dottoressa Manelli, per quello che mi è successo, per il fatto di aver sclerato pubblicamente, ma immagino che alcuni dei miei colleghi la provino per conto terzi. Cerco di non metterla sul personale. È un problema loro, mi dico. Il mio compito è dimostrare quanto sono bravo nel mio lavoro.

    È durante le preghiere mattutine, il suo briefing quotidiano, che Fraser mi assegna il caso del Feeder Canal. Ho la sensazione che sia contenta di avere un povero diavolo a cui appiopparlo. Il suo livello di priorità è specificato dal fatto che è l’ultimo della lista prima di una richiesta dell’amministrazione perché facciamo uno sforzo per riutilizzare i bicchierini di plastica al distributore dell’acqua.

    Fraser chiede a una faccia familiare di illustrarmi i particolari del caso.

    Il detective Justin Woodley mi spedisce un mezzo sorriso e si schiarisce la gola prima di leggere dal suo taccuino. Io non ho avuto molto a che fare con lui da quando mi ha guardato vomitare nel giardino di un importante testimone nel caso Ben Finch. Era stata una reazione umiliante a una brutta notizia.

    Acqua passata sotto il ponte, mi dico. Tieni duro. Gli rispondo con un cenno del capo.

    «Ieri notte un ragazzo di quindici anni è caduto nel canale poco distante da qui, dove c’è il deposito di rottami. L’hanno ripescato e portato al Children’s Hospital. Attualmente è messo molto male, in terapia intensiva e in condizioni critiche. Con lui c’era un altro ragazzo che abbiamo trovato sul ciglio del canale. Nessuna ferita, ma in stato confusionale. Lo stanno esaminando alla Royal Infirmary».

    «E vogliono qualcuno del nostro dipartimento perché…?».

    «C’è una testimone. Dice di aver avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di strano tra i due ragazzi prima della caduta nel canale. È stata lei a dare l’allarme. È ancora disponibile».

    «Cosa dice quello che sta bene?»

    «Ancora non ha parlato con nessuno».

    «Come mai?»

    «A quanto pare non parla. Se non può parlare o non vuole, ancora non si è capito».

    Woodley richiude il taccuino.

    «Credo che la vittima sia un ragazzo bianco e che l’altro ragazzo sia della comunità somala, perciò la discrezione è fondamentale», precisa Fraser.

    «Naturalmente».

    «Sono sicura che non ti sorprenda di sapere che i fondi a disposizione sono ai minimi termini, posto che ce ne siano», continua Fraser, «perciò non spingerò più di tanto questa inchiesta a meno che ci sia qualche ottima ragione per farlo. Se possiamo metterla a dormire facilmente, facciamolo e lasciamo che se ne occupino gli agenti in divisa. Jim, su questo caso tu e Woodley lavorerete insieme».

    Qualche rapido incrocio di sguardi mi dice che non sono l’unico a provare un certo nervosismo al riguardo.

    Vado con Woodley a dare un’occhiata al posto.

    È a meno di mezzo miglio dalla Kenneth Steele House, in Feeder Road, e non è la destinazione più panoramica di Bristol. Passiamo sotto un cavalcavia di cemento, macchiato e coperto di graffiti, che trasporta su quattro corsie il traffico da un angolo all’altro della città. È opprimente. Anche in una bella giornata il soffitto è tetro e l’ombra che proietta è densa.

    Dall’altra parte del cavalcavia, sulla strada lungo il canale ci sono soprattutto capannoni, magazzini e officine meccaniche, che per la maggior parte sono provviste di protezioni ad alta visibilità in forma di paletti appuntiti o filo spinato.

    «Tu senti puzza di fregatura?», mi chiede Woodley.

    «Chissà. Dipende da cosa ha visto la teste. Potrebbe essere qualcosa o niente».

    «È saltato o l’hanno spinto?». La fa sembrare come una provocazione. Mi sono dimenticato che Woodley ha un notevole senso dell’umorismo. Mi scappa da sorridere.

    «Qualcosa del genere».

    Woodley fa un verso a bocca chiusa. «Piena confessione: ho fatto un casino di quelli grossi su un caso. Ho perso delle prove».

    Mi ci vuole un momento per assimilarlo. Si vede che non sono l’unico a portarsi in giro un peso sulle spalle.

    «Che caso era?». È importante.

    «Abuso su minore».

    «C’è stata una conseguenza negativa?»

    «Sì. Al padre è stato consentito di tornare in famiglia. Era colpevole come il peccato. Colpa mia».

    È il peggior caso possibile su cui commettere un errore.

    «Capita ai migliori di noi», sentenzio anche se non sono sicuro che lo conforti minimamente. Non so che cosa dire. Non sono nella posizione di poterlo giudicare, ma adesso capisco perché Fraser ci ha messi a lavorare insieme. Siamo gli ultimi due a venire scelti per fare squadra. Su questo caso affonderemo o nuoteremo insieme.

    «Per quel che vale», dice dopo che ci siamo inoltrati per un po’ lungo il canale, «sul caso Ben Finch secondo me hai lavorato più che bene. Sono in molti a pensarla così. Hai seguito quello di cui eri convinto».

    Lo guardo. Naso come un trampolino da salto con gli sci, un piccolo ciuffo di capelli rarefatti sulla testa e quegli occhi svegli, che cercano una reazione nei miei. Ha ancora voglia di protagonismo, credo. È un bene per entrambi.

    «Grazie. Io…», ma non so cos’altro aggiungere, mi sembra troppo presto per questa discussione con un collega. Non sono pronto. Woodley non insiste.

    Più avanti ci spostiamo sull’argine per esaminare la scena dell’incidente. L’acqua ha un aspetto viscoso e poco invitante. I bordi sono inzaccherati da fango marrone chiaro e sembra che la vegetazione lungo i margini sia stata depressa in via definitiva dal prolungarsi dell’inverno. Qualche centinaio di metri a est c’è un pescatore imbacuccato in indumenti da pioggia.

    Di fianco a noi ci sono un capannone abbandonato e un piccolo ponte pedonale vittoriano sul canale. È invaso da erbacce e rifiuti. Sotto uno strato di vernice nera che si squama come un caso grave di psoriasi, la struttura è troppo arrugginita per far pensare che possa durare altri cento anni.

    Sull’altra sponda vediamo il deposito di rottami dove ha avuto luogo l’incidente.

    Non riesco a figurarmi che cosa possano esserci andati a fare due adolescenti. C’è atmosfera di abbandono e desolazione. Ci saranno venuti a cazzeggiare, a sfidarsi l’un l’altro a scavalcare il recinto o in cerca di un posto dove bere o farsi una canna di nascosto.

    «Io dico che questo è un gianchetto», borbotto. Guardo l’acqua torbida. Non c’è niente da vedere eccetto le gambe di un carrello della spesa finito a pancia all’aria sull’argine. «Minutaglia da frittura. Ma sempre meglio che dirigere il traffico».

    Con il senno di poi confesso d’aver dato a Woodley una prospettiva sbagliata, perché nessuno dei due aveva riconosciuto questo caso per quello che era in realtà: minaccioso, forte e insinuante, di quelli che forse non fanno onde all’inizio, ma sanno rivoltarsi di scatto e sorprenderti con un morso più tagliente di un rasoio. Questo caso era in realtà uno squalo.

    Ovvio che io non l’abbia riconosciuto. Non lo ha fatto nessun altro, dunque perché avremmo dovuto riuscirci noi?

    Se lo avesse saputo, Fraser non ce lo avrebbe mai assegnato.

    Quando la famiglia Mahad arriva al Pronto Soccorso della Bristol Royal Infirmary, l’oscurità si va dissolvendo sopra la città, indugiando solo in qualche sacca.

    I parenti hanno pochissime informazioni, niente più di uno scarno resoconto di quello che è successo ad Abdi.

    I poliziotti che accompagnano i Mahad salutano due colleghi davanti all’entrata posteriore del Pronto Soccorso. Stanno parlando con un uomo appoggiato al muro, con del sangue coagulato nei capelli. Fuma avidamente una sigaretta. Sta parlando di salvezza. Metà della sua faccia è al buio, ma la luce diffusa da una lampadina attraverso la sua gabbietta di ferro ne illumina abbastanza perché Sofia noti che le sue pupille sono due spilli. Quando l’uomo vede Maryam, la sua agitazione aumenta.

    «È di questo che sto parlando», dice. «Portano quel tipo di vestito che ci puoi nascondere sotto le bombe». Si lancia verso i Mahad. «Tornatevene nel vostro Paese del cazzo! Siete dell’ISIS, fottuti terroristi!».

    I poliziotti reagiscono con prontezza, lo trattengono, ma non prima che un fiotto di sputo cada ai piedi di Sofia.

    Nur si mette tra la sua famiglia e lui e sospinge le donne nell’ospedale. La sua espressione è perfettamente composta, ma ha il respiro corto. Sa che quelle sono le parole di un ignorante e quasi certamente uno squilibrato, ma feriscono lo stesso.

    La sala d’aspetto è piena di file di seggiole disposte come all’aeroporto in maniera che gli infortunati e i malati possano passare il tempo guardandosi l’un l’altro. I poliziotti aiutano la famiglia a evitare la fila all’accettazione. Un’infermiera li accompagna per uno stretto corridoio dove ci sono le corsie con i letti, ciascuno con una tenda che assicura solo un minimo di intimità.

    Davanti a un letto c’è un poliziotto che si sta facendo di caffè. Si sposta in modo che i Mahad possano infilarsi dietro la tenda.

    C’è Abdi nel letto. Guarda i suoi parenti, ma sembra che non li veda.

    Genitori e sorella cercano sul suo volto qualche spiegazione di quello che gli è capitato e non trovano niente di rassicurante. In lui resta poco del ragazzo che amano.

    Non c’è animazione sul suo viso, nessuna scintilla di vita negli occhi, nessun guizzo dei muscoli intorno alla bocca a indicare che sta per sorridere o prenderli dolcemente in giro. È finito in un posto vuoto e muto.

    Alla sua vista, Maryam sente dentro di sé il nero sfarfallio della paura. Non osa guardare Nur per tema di vedere riflessa nella sua espressione la sua sensazione di crescente terrore.

    «Oh, Abdi», mormora.

    Sofia guarda la madre chinarsi a posare la guancia su quella del figlio. Vede che Maryam cerca di abbracciarlo per bene, ma Abdi non fa niente per aiutarla. La madre si ritrae e gli prende invece la mano. Sofia pensa che ci sia una strana energia che scorre tra loro due.

    Lo spazio intorno al letto è minimo, ma Sofia e Nur sfilano l’uno intorno all’altro per cercare a loro volta di abbracciare Abdi. Lui non reagisce a nessuno dei due. Lo trovano entrambi un po’ irrigidito, ma è come se non fosse veramente lì. Tornano indietro e sostano sulle spine nei pressi del letto, cercando di non fissare il ragazzo, senza sapere cosa fare o dove mettersi.

    Sofia cerca uno spunto dalla madre, perché spesso è Maryam a determinare il clima emotivo della famiglia. Sofia non sa se sua madre sottoporrà Abdi a un interrogatorio, lo sgriderà o gli rimboccherà le coperte e gli accarezzerà la fronte. Si aspetta che Maryam faccia una di queste cose, se non tutte. Pensa all’affetto di sua madre come a una pioggerella delicata. Inzuppa con dolcezza e quando è tiepida dà la sensazione più bella al mondo. Quando è fredda molto meno. In tutti i casi l’amore di Maryam è per Sofia altrettanto intenso e incessante.

    Maryam fissa il figlio per un tempo incalcolabile. Guarda Nur, che, interpretando la sua muta richiesta, prende il suo posto al capezzale di Abdi.

    «Abdi, siamo qui per te. Qualunque cosa sia successa, puoi raccontarcelo».

    Passa delicatamente il dorso delle dita sulla tempia del figlio.

    Abdi sussulta lievemente e muove la testa sul guanciale.

    Sofia sente il formicolio delle lacrime. Pensa che preferirebbe forse vedere Abdi fisicamente ferito piuttosto che in quello stato.

    «È tutto a posto», gli dice Nur. «Andrà tutto bene. Nessuno si arrabbierà».

    Abdi chiude gli occhi.

    Nur tiene duro. «Abdi, mi dici cos’è successo?».

    Niente. Sofia non ce la fa ad assistere.

    Di fianco a loro un dottore sta interrogando un paziente e Sofia entra ed esce dalla conversazione.

    «Che cosa ha fatto?», chiede il medico. Ottiene una risposta confusa che Sofia non riesce a sentire bene attraverso il divisorio.

    «Abdi». Nur non desiste. La totale passività di Abdi lo fa soffrire troppo. Scuote leggermente la spalla del ragazzo e Abdi si gira sul fianco, gli volge la schiena.

    «Perché?». Dal letto accanto la voce del dottore arriva più sostenuta.

    Nur guarda Maryam e lei alza le spalle. Nemmeno lei sa come far breccia in Abdi. Si copre la bocca con la mano.

    «Perché lo ha fatto?», chiede di nuovo il dottore. «Mi dica perché lo ha fatto».

    Dev’essere un tentato suicidio, pensa Sofia. Ascoltare è insopportabile. Per forza Abdi è in quello stato. Non dovrebbe essere lì.

    Mentre Nur fa un altro tentativo per indurre Abdi a parlare, Sofia sposta la tenda sorprendendo l’agente che c’è fuori.

    «Perché mio fratello è qui?», domanda e mentre pensa solo a riportare a casa Abdi si dimentica la sua timidezza. «Questo è il posto sbagliato. Dovrebbe essere al Children’s Hospital. Ha solo quindici anni».

    «Il solo documento di identità che gli abbiamo trovato addosso è una tessera della biblioteca, perciò se non ci parla, noi non possiamo sapere quanti anni ha», risponde il poliziotto. C’è un tubo al neon sopra di lui che saltella. «Abbiamo dovuto tirare a indovinare e abbiamo calcolato che dovesse avere sedici anni o più, visto che è un bel ragazzone».

    A Sofia poco importa delle sue spiegazioni. Vuole azione.

    «Be’, invece ne ha quindici e vorremmo portarlo a casa». È convinta che Abdi sia in stato di choc, che a loro parlerà e che se solo lo portano via da lì, diventerà una versione più riconoscibile di se stesso. Aspetta che il dottore finisca con il paziente accanto e pretende notizie aggiornate su Abdi.

    «Fisicamente lo abbiamo trovato a posto», dice il medico sfilandosi dalle mani e buttando in un cestino un paio di guanti sporchi di sangue. «Ma pensiamo che possa soffrire di confusione post traumatica. Potete portarlo a casa, ma dovete tenerlo al caldo e a riposo, sorvegliandolo come si deve».

    «Ha detto niente da quando è qui?».

    Pensa a come si è comportato Abdi quando è andato a trovarla proprio in quell’ospedale alla fine di una delle sue giornate di tirocinio. Non c’era nessuno nel reparto che non avesse salutato con effusione, non una mano che non avesse stretto e non una domanda che avesse tralasciato con il primario che si era intrattenuto a chiacchierare con loro.

    «Non mi pare. È possibile che sia vittima di una specie di trauma emotivo per qualcosa a cui ha assistito». Il medico sembra intenerirsi e le concede qualcosa. «Riposare a casa sarà certamente meglio per lui che restare qui».

    Sofia sostituisce Nur al capezzale di Abdi mentre i genitori vanno a sistemare la burocrazia per il rilascio.

    «Riposa, Abdi», gli sussurra. Gli posa una mano titubante sulla spalla e lui le permette di tenerla lì per un momento prima di liberarsene.

    «Va bene», dice lei. «Ti lascio in pace. Presto ce ne andiamo a casa».

    Si richiude le mani in grembo e ricorda che quando Abdi era un bebè aveva preso a seguirla dappertutto appena era stato in grado di muoversi e cercava di copiare tutto quello che faceva lei. Se lei aveva studiato il suo faccino nei minuti subito dopo la sua nascita, lui aveva studiato quello di lei un milione di volte negli anni successivi. Ricorda il suo sorriso tutto gengive, il suo sorriso con il primo dentino, il suo sorriso sdentato, e il sorriso che era venuto dopo, quando i suoi nuovi denti da adulto sembravano troppo grandi per la sua faccia. Ha l’impressione che loro due siano stati cuciti insieme alla nascita del fratellino e che così rimarranno per sempre.

    Riuscirà a parlare quando sarà a casa, dice a se stessa, e lo dice a voce alta ai genitori quando tornano da lei.

    I poliziotti li accompagnano fuori e offrono loro un passaggio.

    Mentre vanno al parcheggio, Sofia vede il Children’s Hospital lì accanto. Le hanno detto che è là che hanno ricoverato Noah. È logico. Impossibile scambiarlo per un ragazzo di sedici anni.

    Le condizioni di Noah sono critiche. La polizia lo ha spiegato ad Abdi, apparentemente nel tentativo di persuaderlo a parlare. Sofia si domanda fino a che punto sia stata una mossa saggia.

    Si domanda anche che cosa abbia visto Abdi e che cosa abbiano fatto lui e Noah.

    Quando deglutisce, l’unico sapore che sente è quello della paura.

    «Noah», dice la mamma. «Puoi aprire gli occhi, tesoro?».

    No che non posso.

    Mi chiede di stringerle la mano, ma non posso fare nemmeno quello. Non posso muovere niente.

    «Allora?», chiede papà.

    «No».

    Credo di sentire le dita della mamma che aumentano la pressione sulle mie. «Noah!», dice poi un po’ più forte di prima. «Mi senti? Puoi stringermi la mano, Noah, anche solo un pochino?».

    La mia prima reazione è di pensare che potrò farlo dopo, ne sono sicuro. Ma poi non ne sono così sicuro, perché in questo momento è tutto un po’ grigiastro. Non so bene cosa stia succedendo. C’è una sola cosa chiara nella mia mente, un ricordo molto recente. È il fatto indimenticabile e irreversibile di aver avuto quello scambio di parole, quello in cui ti dicono che la bici ha perso le ruote e che non c’è modo di rimettergliele.

    «Quanto tempo abbiamo?», ha chiesto la mamma a Sasha il giorno che abbiamo ricevuto la notizia. Eravamo in quella stanza all’oncologia pediatrica che dovrebbe servire ai genitori da rifugio quando le cose si fanno difficili. Ma la usano solo le famiglie che sono nuove del posto, perché tutti gli altri sanno che è la stanza delle brutte notizie. Si impara a evitarla come la peste.

    Sasha è la mia oncologa. Il nome per intero è dottoressa Sasha Mitchell, con un sacco di lettere dopo, ma sono otto anni che mi ha in cura, così siamo saldamente ancorati a un rapporto più confidenziale.

    «Non so prevederlo con nessuna accuratezza», ha detto alla mamma. «Mi spiace». Teneva stretta la mano della mamma e io ero contento perché la mamma sembrava sul punto di vaporizzarsi se qualcuno non l’avesse tenuta fisicamente. «Ma se non intervengono fenomeni inaspettati, spererei in un paio di mesi. Possiamo discutere su come alleviare i sintomi di Noah in maniera che questo periodo sia il più gradevole possibile, ma temo che di più non si possa fare».

    Silenzio.

    «Sono davvero dispiaciuta», ha ripetuto Sasha. Io non volevo che mi guardasse.

    Quella mattina papà non era con noi. Era in aereo di ritorno a Bristol da non so dove.

    Con noi c’era Sheila, la mia infermiera preferita, compresa nella cerchia delle brutte notizie. Anche lei mi cura da anni, proprio come Sasha.

    Sulle ginocchia ha la mia documentazione clinica, un pacco di carte così grosso che nessuno lo ha ancora trasferito nel sistema elettronico. Gli appunti sono raccolti in diverse cartellette, tutte che sembrano sul punto di scoppiare da tanti fogli contengono, spiegazzate e macchiate di caffè, tenute insieme da laccetti fermacarte. Mi seguono in giro per l’ospedale dovunque vada per una terapia. I carrelli sembrano doversi sfondare sotto il loro peso e le infermiere devono portarle usando entrambe le braccia. Documentano tutto quello che mi è successo. Le famiglie che non sono qui a lungo come me le guardano con apprensione. Una delle copertine ha assorbito una lacrima di Sheila. Mi chiedevo che cosa ne avrebbe fatto l’ospedale quando non ci sarei stato più. Le avrebbe distrutte, immagino.

    Nella stanza delle brutte notizie mi sono messo a piagnucolare, per forza. Tutti e tre mi sono corsi intorno, mi sono trovato con le loro braccia incrociate sulla schiena, e la mamma si è messa a dire: «Noah, amore, Noah».

    «Ma ci sono tante cose che devo fare», ho detto.

    Tornando nella mia camera con la mamma e Sheila e l’asta della flebo a cui ero attaccato, ho notato che le altre infermiere abbassavano lo sguardo. Sapevano. Io volevo che mi guardassero. Ho usato un gomito per far cascare un vassoio che una di loro aveva lasciato in una posizione precaria. Siringhe e fiale sono saltellate sul linoleum. Il colore del quarto piano al Children’s Hospital di Bristol è il blu, se vi interessa. Pavimento blu, pareti blu. Le fiale sono rotolate a una distanza soddisfacente. Per me era come se tutto stesse avvenendo al rallentatore.

    La voce della mamma ha interrotto i miei pensieri. Parla lentamente, come se fossi mezzo scemo o sordo.

    «Caro, hai avuto un incidente. Sei caduto nel canale e hai battuto la testa mentre eri sott’acqua. I medici ti hanno messo in coma indotto perché pensano che sia il modo migliore per aiutarti. Sei in terapia intensiva».

    «Ricordi di essere stato al canale ieri notte?», chiede papà.

    Il canale: acqua nera, la superficie è una membrana densa e scivolosa finché non la colpisco e il freddo mi serra il petto.

    «Con Abdi?», aggiunge.

    «Non farlo», dice la mamma.

    «Potrebbe ricordare».

    «Non è neppure cosciente».

    «Allora perché gli stai parlando e gli chiedi di stringerti la mano?»

    «Perché credo che sia un bene se gli parliamo, ma non credo che si debba fargli domande stressanti. Noi non sappiamo cos’è successo».

    «È stato un incidente. Cos’altro se no?»

    «Non ne voglio parlare ora. Dico solo che potrebbe stressarlo».

    Ha abbassato la voce, ma io riconosco lo stesso il tono che usa per informarlo che lo sa lei cosa è meglio fare. È vero. Papà non è mai a casa abbastanza a lungo da poter capire tutto della mia terapia.

    Per un po’ i miei genitori restano in silenzio, poi la mamma dice che deve andare in bagno. Papà aspetta finché non sente più il rumore dei suoi passi e poi mi parla di nuovo.

    «Tu sei forte, figliolo, ne veniamo fuori, vedrai. Abbiamo fatto dei programmi, Noah, e li metteremo in pratica. Non finirà così».

    Sta parlando della mia lista dei proponimenti. Abbiamo stilato la lista quando è arrivato all’ospedale dopo che ho avuto la notizia. Si è sdraiato sul mio letto con me per tutta la notte con il suo odore di aeroporti e posti strani e insieme abbiamo scritto a mano la lista con un mozzicone di matita che porta sempre con sé nel taschino della camicia. Insieme abbiamo ridotto l’elenco a tredici punti. Tredici non è un numero fortunato, lo so, ma vista la situazione credo che si capisca perché non sia una cosa che mi preoccupa più di tanto.

    Lista dei proponimenti di Noah - Punto 1: Non dire a nessun altro che sto morendo. Neppure ad Abdi.

    «Sei sicuro di questo?», mi ha chiesto papà.

    «Sicurissimo». Volevo passare le mie ultime poche settimane facendo le cose a modo mio e non le fai se gli altri sono lì a piangere o a comportarsi in modo strano.

    Papà aveva il mento ruvido di barba quella notte. Io ho sempre desiderato sentire la barba sulla faccia un giorno, ma ormai non potrà più succedere.

    Il cancro è un ladro maledetto di quelli tosti, abbiamo convenuto quella notte parlandone. Dal giorno della mia diagnosi si è portato via molte cose, cose che volevo fare, amici che volevo avere, esperienze che non volevo perdermi, roba normale, e adesso che ha deciso di firmare con il suo inchiostro la mia condanna a morte, stava per portarsi via anche il mio futuro.

    Mi accorgo di un peso sulla mano e credo che qualcuno me la stia tenendo. Dev’essere papà, perché mi sta parlando di nuovo o almeno ci prova. Oggi non percepisco la loro temperatura, ma so che le sue mani sono sempre più calde di quelle di mia madre.

    «Vorrei che ti avessimo insegnato a nuotare bene», dice. Gli si spezza la voce.

    Prima della diagnosi ho seguito qualche lezione di nuoto, ma quando comincia la terapia t’infilano un tubo permanente nel petto. Lo chiamano catetere centrale. Serve perché possano spararti in circolo farmaci tossici e prelevarti del sangue tutte le volte che vogliono senza forarti in continuazione con gli aghi.

    Ecco una cosa forte che ha fatto Sasha quando mi sono spaventato per una sostanza che mi dovevano iniettare, perché avevo sentito dire a un’infermiera che ti brucia la pelle. Mi ha mostrato una foto sul suo telefono di un fiorellino viola.

    «Per prima cosa», mi ha detto, «questo farmaco non può bruciarti la pelle perché tu hai un sondino che ti entra nel corpo ed è lì che noi te lo iniettiamo. In secondo luogo guarda bene questo fiore. Si chiama pervinca ed è da qui che si estrae il tuo farmaco di chemio. Quando torni a casa, dai un’occhiata in giardino e vedi se ne trovi qualcuno. Se ce ne sono, devi congratularti perché può sembrare un fiorellino da niente, ma farà un gran bel lavoro nel combattere le cellule cancerogene. In questo momento ti è amico».

    Poche-balle Sasha. È così che la chiama mio padre e ha ragione. Mi piaceva il suo modo di dire le cose fuori dai denti anche quando ero piccolo.

    Comunque, buona o non buona che fosse, quel tubicino era anche una gran rottura. Non mi era permesso bagnarlo. Le lezioni di nuoto sono finite prima che imparassi a fare una sola vasca trasversale con sicurezza sufficiente. Patetico.

    Mio padre si ripete con quella cadenza da autoflagellazione che fa impazzire mia madre: «Avremmo dovuto assicurarci che sapessi nuotare meglio».

    Quando comincia con quell’avremmo dovuto, vuol dire che sta per perdere colpi alla grande ed è così che va a finire.

    Una macchina comincia a bippare.

    «Oh, merda. Ti ho incasinato», dice papà. Lo fa in continuazione. Mia madre sa come scivolare con la dovuta attenzione intorno al mio letto come un gatto, lui invece è ingombrante e goffo, strappa tubi e urta macchinari.

    Sento il fruscio metallico degli anelli della tenda che viene scostata.

    «Scusi», dice papà, «credo che sia stata colpa mia».

    Dev’esserci un’infermiera. Sono molto tempestive a intervenire quando parte un allarme. Sono impressionato, anche se mi sembra comprensibile.

    «Non sono sicuro che sia stato lei», risponde l’infermiera. «Ora chiamo l’aiuto».

    Nella mia testa la pressione cresce e si intensifica.

    «Cosa succede?», chiede papà.

    «Ci dia un po’ di spazio, signore, per piacere». Una voce nuova.

    «Noah!», grida papà. «Noah!».

    «Indietro, prego!».

    «Carica. Fuori!».

    Una martellata al petto.

    Nella mia mente l’acqua si chiude sopra di me e mi trascina via. Ho fuoco nei polmoni. Sopra la superficie dell’acqua vedo Abdi. È sfocato. Non è più concreto di una sfuggente serie di ombre sovrapposte. È qualcosa e niente.

    Mentre io affondo, lui guarda.

    Io e il detective Woodley troviamo la testimone in uno dei prefabbricati del deposito di rottami. Con lei c’è un agente in uniforme che si è messo un po’ più comodo di quanto dovrebbe. Quando entriamo scatta velocemente in piedi con l’aria di un bambino sorpreso con la mano nella scatola dei biscotti.

    C’è una

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