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Quello che avrei voluto dirti
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E-book255 pagine3 ore

Quello che avrei voluto dirti

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Info su questo ebook

L’amore tra Elisa, giovane pianista in attesa di successo e Stefano, affascinante pediatra alle prime armi scoppia all’improvviso, durante un acquazzone estivo. Come un temporale, travolge ed elettrizza ogni cosa. Una delicata ed irresistibile storia d’amore fino a quando qualcosa sconvolge la magia del loro rapporto. 
Elisa scopre di essere davanti ad un bivio tra la propria carriera e l’amore per quell’uomo che non riesce più a farla sentire desiderata. Decide di scrivere una lunga lettera d’addio, una struggente ammissione di colpa per un errore cui non può porre rimedio.
Quasi per caso, compare un terzo protagonista: un libro che la ragazza legge senza eccessivo interesse. Il dettaglio, apparentemente marginale, si rivela in realtà una profetica anticipazione degli avvenimenti. Elisa riconosce nelle pagine del racconto una serie di circostanze troppo simili a ciò che sta vivendo per non sorprendersi delle coincidenze. 
In quella lettura, troverà un insperato conforto alla sua angoscia. Eppure, un imprevedibile epilogo le impedirà di leggerne il finale.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2016
ISBN9788822879981
Quello che avrei voluto dirti

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    Anteprima del libro

    Quello che avrei voluto dirti - Daniela Cardo

    PROLOGO

    Le voci di un talk show televisivo mi giungono attraverso la porta socchiusa. Nella penombra continuo a rigirare nervosamente la penna senza trovare il coraggio per abbozzare la lettera che ho in mente; so esattamente quello che ti vorrei dire ma non riesco a scrivere neppure una delle parole che affollano i miei pensieri.

    Non ho dubbi, devo spiegarti che fra noi è finita, che tutta la poesia si è perduta nella quotidianità, nella monotonia dell’abitudine, quasi che vivere assieme ci impedisca di desiderarci.

    Se potessi semplicemente scriverti che non ti amo, sarebbe molto più facile, ma mentirei.

    È proprio perché questo sentimento non si vuole spegnere, che non so rassegnarmi a un limbo di emozioni, dove il buongiorno che rivolgi a me si confonde con quello che regali al tuo gatto. Lui ricambia con un miagolio, mentre io resto a sperare che tu ti accorga della mia delusione per quel saluto che sa di noia.

    Non sono ancora trascorsi due anni da quando ti ho incontrato, quasi per caso, per colpa di un temporale d’agosto. Al tavolo di un bar, con i miei vestiti inzuppati di pioggia, non ricordo quanto tempo siamo rimasti a parlare sperando che il sole non tornasse troppo in fretta.

    DUE ANNI PRIMA - UN TEMPORALE D’AGOSTO

    Il pomeriggio era già sul finire, quando un’amica mi chiamò al telefono con una proposta sufficientemente interessante:

    - Ci troviamo al solito posto, beviamo qualcosa, poi vediamo che aria tira, non vorrai passare la serata a far niente, spero. In fondo siamo in vacanza, vale la pena di festeggiare, non credi? –aveva sempre argomentazioni sufficienti, Franca.

    - Hai ragione, non mi va di rimanere qui da sola, dammi mezz’ora. Il tempo di arrivare.

    Lasciai volentieri sul divano il libro che avevo appena iniziato a leggere per infilarmi i jeans e un paio di sandali nuovi. Le chiavi di casa, un foulard e il cellulare gettati alla rinfusa nella borsa in cui frugavo cercando un chewingum mentre scendevo le scale. C’era di che immaginare una serata eccitante o, quanto meno, un po’ più stimolante della prospettiva di restare fino a notte fonda a leggere quel libro di cui non ricordavo il titolo.

    Il cielo era piuttosto cupo. Oltre i palazzi allineati lungo la via, nuvole grigie minacciavano un temporale che, puntualmente, le previsioni meteorologiche non avevano annunciato.

    Adoro i temporali estivi, mettono di buon umore, affrettai il passo e mi infilai velocemente nell’auto che avevo parcheggiato poco più in là, mentre le prime gocce, grosse come noci, si schiantavano sull’asfalto evaporando più in fretta di quanto non avrebbero potuto fare se fossero cadute sul deserto del Sahara.

    La giornata era stata di quelle che tolgono il fiato, il termometro era arrivato a segnare i 36 gradi, anche se io non me n’ero accorta, restando tutto il pomeriggio a godermi l’aria condizionata sul divano, sonnecchiando e leggendo ... come cavolo si chiamava poi quel libro?

    Avevo percorso solo qualche chilometro, quando lampi, tuoni e ogni altro possibile fenomeno atmosferico si scatenarono in una di quelle impressionanti testimonianze di superiorità che la natura di tanto in tanto si sente in diritto di infliggerci. Le auto davanti a me si erano fermate, io non avrei potuto fare niente di diverso. Restammo immobili per alcuni minuti sperando in una tregua. Qualche temerario riprese a percorrere una strada ormai indistinguibile dalla valanga di pioggia che continuava a precipitarci addosso. Provai a svoltare a destra, orientandomi a malapena con le luci delle vetrine che intravedevo attraverso il muro d’acqua. Fortunatamente raggiunsi un parcheggio e decisi che non mi sarei mossa di lì finché non fosse cessato quel nubifragio. Mi piacciono i temporali, ma quello era troppo anche per me.

    - Dai rispondi!

    Stavo richiamando Franca, per avvisarla che non l’avrei raggiunta, sarei tornata a casa a leggere quel maledetto libro.

    - Sarà per domani sera – capitolai sconsolata.

    - Ok, a domani allora!

    Lasciai cadere il cellulare nella borsa, o così mi parve, rimasi ad aspettare che la pioggia accennasse a diminuire.

    Sì, avevo fatto bene a cambiare i miei programmi, in fondo il libro non era poi così deprimente. Se solo avessi ricordato come s’intitolava.

    Una tregua, finalmente, suggerì che avrei potuto riprendere la via verso casa. Ma quando le cose vogliono andare per il verso contrario a quello che ti saresti aspettato, ci riescono benissimo.

    Di rimettersi in moto l’auto non ne voleva sapere, provai un numero infinito di volte, ma quello che inizialmente mi era parso solo un tentativo malriuscito alla fine si rivelò un inequivocabile fallimento. Era probabile non avessi spento i fari e la batteria si era inesorabilmente scaricata. Avrei dovuto dare credito al monito del meccanico:

    - Ti lascerà a piedi uno di questi giorni.

    Già, e proprio sotto un acquazzone, il 9 di agosto, alle sette di sera, di un sabato di...

    Non sono una che si lascia spaventare per così poco, mi guardai attorno e scorsi, sul lato opposto del parcheggio, l’insegna di un bar. Non mi restava che fare una corsa fin lì e chiedere l’aiuto di qualcuno. In fondo bastava collegare i cavi elettrici che prudentemente portavo sempre nel bagagliaio, alla batteria di un’altra auto e sarei potuta ritornare a casa.

    Avevo già attraversato almeno la metà del piazzale in direzione di ciò che avevo identificato come la mia ancora di salvezza, quando la pioggia riprese, se mai fosse stato possibile, ancora più violenta di prima, sicuramente doveva essere più fredda. Sembrava che qualcuno stesse scaraventandomi addosso cubetti di ghiaccio, non era solo una sensazione, era proprio grandine e a ogni secondo che passava cadeva sempre più grossa e fitta. Martellava sulle braccia nude, provai a ripararmi almeno la testa con la borsa, tentai di correre, ma non era facile con otto centimetri di tacco. Ma perché poi non avevo messo le mie vecchie scarpe da ginnastica?

    Parve un tempo infinito, ma in qualche modo riuscii a raggiungere il bar. La tua mano stava tenendo spalancata la porta per lasciarmi entrare più in fretta possibile.

    - Complimenti! - esclamasti con un sorriso.

    Ti lanciai un’occhiata che avrebbe voluto esprimere tutta la rabbia possibile per quella parola che sapeva di presa in giro, mi limitai a risponderti:

    - Grazie! -anche se non sapevo di cosa.

    I tuoi occhi neri mi guardavano come io fossi stata una visione. Ero solo una ragazza bagnata dalla testa ai piedi. Tremavo come una foglia e non solo per il freddo. Ipnotizzata dal tuo sguardo, ti sorrisi senza sapere perché.

    Rimanesti a osservare, per un tempo imbarazzante, il mio viso probabilmente di un pallore preoccupante. I capelli incollati sulle spalle scendevano fino al seno fin troppo generoso che la camicia fradicia non riusciva a nascondere.

    La tua aria di bravo ragazzo non era abbastanza rassicurante e provai a liberarmi dal tuo sguardo.

    - Che è successo? Posso aiutarti? - chiedesti immaginando di avermi messo in imbarazzo.

    - L’auto non ne vuole sapere di ripartire. È la batteria. Il meccanico l’aveva detto che dovevo cambiarla, ma io credevo volesse solo approfittare del fatto che una ragazza, di motori, non ne capisce niente.

    - Se è per questo nemmeno io ne so un granché, ma se fosse la batteria ci vorrebbero dei cavi...

    - Quelli li ho! - esclamai compiacendomi della mia accortezza.

    - Bene! Devo dedurre che sei una ragazza previdente?

    - No, non esattamente... – ammisi, facendo appello al mio senso di autocritica.

    - Forse è meglio che tu beva qualcosa di caldo mentre aspettiamo che smetta di piovere, o ti prenderai un raffreddore.

    Avevi pronunciato quella frase assumendo un tono più sobrio.

    - Sei un medico per caso? – azzardai. - Di certo non un meccanico.

    - Uno specializzando.

    - Che vuol dire?

    La mia domanda fornì il pretesto per un accenno di conversazione, esattamente quello che avresti voluto.

    - Da un paio d’anni ho una laurea in medicina, ma nessuno è così incosciente da affidarsi già alle mie cure e ci vorrà ancora tempo prima che io possa convincermi di essere davvero un dottore. Comunque ne so abbastanza per dirti che avresti bisogno di abiti asciutti e di una buona tazza di latte caldo.

    - Credo che per ora dovrò accontentarmi del latte.

    Dio com’eri gentile. Mi obbligasti a sedere nel posto più vicino all’unica fonte di calore presente nel locale: la macchina del caffè. Rimasi a guardarti mentre contrattavi qualcosa con il barista. Tornasti tenendo fra le mani un asciugamano ben piegato che un cameriere ti aveva appena consegnato.

    - Prova almeno ad asciugarti i capelli – suggeristi porgendomelo.

    Lo avvolsi legandolo sulla nuca.

    - Devo avere un aspetto terribile – e la cosa mi preoccupava.

    - No davvero! Sei... bellissima.

    A quelle parole avrei voluto replicare che anche tu non eri niente male, i miei occhi lo fecero per me. Abbassasti lo sguardo come fanno i bambini quando si sentono imbarazzati per un complimento inaspettato. Sì, eri proprio un bravo ragazzo.

    - Scusami non mi sono nemmeno presentato. Stefano.

    La tazza di latte fu servita poco dopo e tu mi costringesti a berla tutta d’un fiato. Ti comportavi come uno di quei medici impietosi che obbligano i loro pazienti ad assumere farmaci senza preoccuparsi dei possibili effetti collaterali. Non potevo immaginare quale sarebbe stata la reazione a quella medicina, né quanto in fretta la cura avrebbe prodotto i suoi benefici.

    Mi raccontasti di te, del tuo lavoro al pronto soccorso, delle tue notti ad aspettare che qualche incidente stradale ti spedisse l’ennesimo ferito, contuso, fratturato o che una vecchietta, troppo triste per trascorrere un’altra notte da sola, s’inventasse un nuovo insopportabile dolore o una pericolosa tachicardia. E io ridevo del tuo modo irriverente di parlare di quelle persone che avrebbero meritato più rispetto o più compassione.

    Ormai si era fatto quasi buio, era arrivata la sera, ma non ce n’eravamo accorti.

    - Dimmi di te.

    Finalmente osasti chiedermi. Fino ad allora ti avevo solo concesso di sapere che il mio nome fosse Elisa.

    - Non c’è molto da dire. Ho 21 anni, un diploma di conservatorio, vivo da sola, in un piccolo appartamento in affitto che paga mio padre. In attesa che qualcuno si accorga del mio straordinario talento, do lezioni private di pianoforte a bambini che hanno la sfortuna di avere madri convinte che i loro figli siano piccoli geni, futuri Bernstein, Mozart o che magari si accontenterebbero di un nuovo Giovanni Allevi – sembravi molto interessato alla mia dissacrante spiegazione. Ripresi a infierire. - Troppo giovani per poter essere ammessi al conservatorio, si lasciano convincere a subire le mie noiosissime lezioni di solfeggio e a provare le loro prime scale su una tastiera di pianoforte troppo grande per quelle piccole dita.

    - Scommetto che il tuo ragazzo non si annoia a quelle lezioni di musica.

    La domanda non era casuale, io finsi di fraintendere.

    - Di quale stai parlando? Sono decine i ragazzini che frequentano casa mia.

    - No, io intendevo... il tuo fidanzato.

    - Cosa ti fa credere ne abbia uno?

    - Oh, scusa. Se non ne vuoi parlare. Hai perfettamente ragione, non sono fatti miei.

    Nel pronunciare queste parole sollevasti le mani in segno di resa. Probabilmente avevi pensato di essere stato indiscreto. Meritavi una risposta che ti rassicurasse:

    - Per questo neppure miei. Non ho nessun ragazzo, fidanzato, compagno; te l’ho detto vivo da sola e il ragazzo più vecchio che viene a farmi compagnia ha sette anni. E francamente non è nemmeno il mio tipo.

    Lessi qualcosa nel tuo sguardo. Sollievo, soddisfazione, speranza? Provasti a giocare le tue carte.

    - Magari non ci crederai ma la specializzazione per cui sto lavorando, quando non mi rifilano il turno al pronto soccorso, è pediatria, anch’io ho a che fare con i bambini. Quelli di cui mi prendo cura io si divertono molto meno dei tuoi, ma anche le loro mamme hanno motivo di credere di aver messo al mondo dei piccoli campioni.

    Ti piaceva scherzare, non ti tiravi indietro. Capii immediatamente che i giochi di parole, le mezze allusioni, i doppi sensi erano il tuo secondo punto di forza. Il primo rimanevano i tuoi occhi neri. Mi lasciai affascinare dal quel sorriso e dalle tue mani che giocherellavano con un tovagliolino di carta, mentre continuavamo a parlare, non ricordo di cosa.

    Uno squillo mi distrasse, pensai fosse il mio cellulare, il suono era esattamente quello, allungai una mano e cominciai a frugare tra caramelle, chiavi, foulard, portamonete e foglietti di carta, senza riuscire a trovare ciò che stavo cercando.

    - Non può essere, lo avevo messo qui, nella borsa, dopo aver chiamato Franca. Forse è caduto mentre correvo sotto la pioggia.

    Chissà perché niente riesce a scatenare più panico di quanto non possa farlo il credere di aver perduto il proprio cellulare, ripresi a rovistare con più cura.

    - Perché non mi dai il tuo numero, provo a chiamarlo, così sapremo se è in quella che tu chiami borsa. Io immaginavo fosse il tuo bagaglio a mano per un lungo viaggio.

    - Si, prova, ti prego. Il numero è 347 667548

    Non si udì alcun suono e la mia angoscia aumentava a ogni squillo che il tuo cellulare lanciava.

    - Calma, io non credo possa essere uscito da lì? Magari lo hai lasciato in macchina.

    Sapevi trovare sempre una spiegazione per tutto, tu. Magari non ci sei riuscito proprio per ogni cosa, ma ci hai provato. Sempre.

    Ti sorrisi scuotendo piano la testa, avevo appena tolto il turbante e quel movimento lasciò ricadere sulle spalle i capelli ancora bagnati e un po’ increspati.

    Mi accorsi che stavi indugiando più del necessario sulla mia catenina d’oro che scendeva fino al seno disegnando un triangolo. Distogliesti lo sguardo, ma sembravi in difficoltà.

    Non pioveva più. I miei capelli erano ancora bagnati, ma si poteva intravederne il colore biondo e la camicia iniziava pudicamente a nascondere quel che non riuscivi a smettere di guardare, di tanto in tanto.

    Decidemmo di provare le nostre capacità di meccanici e soprattutto di cercare il cellulare. Avrebbe anche potuto essere nella macchina come avevi ipotizzato tu.

    Mentre attraversavamo il parcheggio continuasti a chiamare il numero per controllare che il mio telefono non fosse da qualche parte lì sull’asfalto, scherzando sulla possibilità che già stesse navigando inghiottito da quella valanga d’acqua che stava inesorabilmente scorrendo verso il mare.

    Con gran sollievo, attraverso il finestrino dell’auto, scorsi una piccola luce, era dove lo avevo lanciato, convinta di aver centrato la borsa, dopo la telefonata a Franca.

    - Dovremmo festeggiare, magari una bottiglia di Champagne? – proponesti ironico.

    - Dai, non scherzare, vorrei vedere te! C’è tutto in quel cellulare, numeri, indirizzi, appuntamenti...

    - Vita intensa la tua! – deducesti, insolente.

    - È una domanda?

    Eri così vicino che per un attimo pensai volessi baciarmi. Non l’hai fatto. Smettemmo di sorridere e restammo a guardarci negli occhi, ma non provasti neppure ad approfittare di quel momento. Mi piaceva l’odore della tua pelle, non l’avevo notato prima. Mescolato all’aroma del caffè non ero riuscita ad avvertirlo o forse non mi eri stato così vicino.

    - Sali in macchina, vado a prendere la mia, è quella laggiù.

    Indicasti una Renault bianca, parcheggiata all’altro lato del piazzale.

    Mi lasciasti lì ad aspettare. Presi i cavi dal bagagliaio e sollevai il cofano.

    Avevi immaginato fosse facile, ma evidentemente eri più bravo come medico che come meccanico, io non sapevo neppure da dove cominciare e dopo venti minuti ci arrendemmo. Mentre io imprecavo come non si addice a una giovane musicista, tu cercavi di sdrammatizzare.

    Alcune gocce di pioggia ripresero a cadere per una di quelle code che i temporali estivi spesso regalano.

    - Dai sali sulla mia auto, ti accompagno a casa prima che ricominci a piovere davvero.

    Come meccanico non avevi riscosso troppo successo e nel tentativo di riscattarti decidesti di proporti in veste di taxista, in quel sabato sera di un agosto capriccioso.

    - Mi spiace, non volevo disturbarti, ti ho già fatto sprecare la serata – provai a rifiutare, ma solo per costringerti a insistere.

    - Che dici! È stata una serata molto piacevole. Almeno per me, magari per te un po’ meno.

    - No! Sei stato gentile e ti sei dato un gran da fare per me. Non ti ho ancora ringraziato.

    - Aspetta a farlo, finché non sarai a casa, potremmo avere qualche altra disavventura.

    - E che altro potrebbe capitarmi? – chiesi preoccupandomi di altri possibili sviluppi infausti.

    - Niente! Scherzavo! Ci sono io a proteggerti ragazzina, non ti succederà assolutamente nulla, te lo prometto.

    Sentenziasti con il tono di voce di un supereroe da cartone animato, ti si addiceva alla perfezione. Ti guardavo senza più parlare mentre guidavi lentamente verso casa. Le vie di Torino erano perfettamente libere a quell’ora, ma non saprei dire quale fosse, il tempo si era fermato nell’istante in cui avevi spalancato per me la porta di quel bar e forse anche il tuo cuore.

    - Siamo arrivati, ecco io abito qui.

    Un anonimo palazzo in corso Francia, era la mia roccaforte, tu lo inquadrasti vagamente preoccupato.

    - Sei sicura di non avere più bisogno di me?

    - No, grazie, certamente avrai qualcuno che ti aspetta a casa...

    Non avevi detto molto della tua vita privata, temevo ci fosse qualcosa di cui non volessi parlare.

    - Si, infatti, ma dovrà aspettare fino a domani mattina, fra mezz’ora prendo servizio in pronto soccorso e non tornerò a casa prima delle cinque.

    Sentii una specie di brivido, chi ti avrebbe aspettato fino a domani? Una madre o una ragazza? Non osavo chiedertelo e sembrava tu ci prendessi gusto a lasciarmi sulle spine.

    - Sai è un tipo piuttosto esigente, è molto gelosa e ha certe unghie che lasciano il segno. è possessiva come tutte le rosse.

    - Capisco, allora... immagino che adesso non dovresti essere qui – tagliai corto provando ad aprire lo sportello dell’auto.

    Non riuscivo a spiegarmi perché ti stessi prendendo gioco di me a quel modo, che motivo avevi di descrivermi la tua ragazza con tanta dovizia di particolari. Quanto alle unghie poi...

    - Vuoi vedere una sua foto? È molto bella sai! – avevi intenzione di approfondire l’argomento.

    - No, non credo sia il caso, è meglio che tu vada. Comunque grazie di tutto – ero già quasi fuori dall’auto, mi trattenesti.

    - Aspetta! Si chiama Mimì.

    Sul display del tuo cellulare c’era la foto di uno splendido animale con il pelo di color cipria e gli occhi verdi, come i miei.

    - Ma, ma è un gatto! – balbettai confusa.

    - Che dici? Questo non è un gatto, questa è Mimì!

    Come avevo fatto a non capire? Ridemmo divertiti, ma era troppo tardi per restare ancora a scherzare. Il turno all’ospedale ti stava reclamando, io potevo solo sperare di aver lasciato un segno da qualche parte, nel tuo cuore, ma

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