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Avanzi d'Occidente
Avanzi d'Occidente
Avanzi d'Occidente
E-book686 pagine10 ore

Avanzi d'Occidente

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Info su questo ebook

     A cavallo degli anni ‘80 e ‘90, avulsi da un sistema che stritolava l’individuo e la sua creatività, gli ‘Avanzi d’Occidente’ cominciarono a cercare stili di vita alternativi nei posti più esotici del mondo. Molti di loro finirono in Tailandia, che in quel periodo mirava, attraverso le sue bellezze naturali e l'intrattenimento notturno, a diventare una delle mete turistiche più ambite.
     Siamo nel 1991 e Danny, appena atterrato a Bangkok, si affida proprio a questi avanzi d’occidente per rintracciare Canna, l’amico scomparso da mesi. Il giovane rimarrà subito affascinato da quella terra complessa, ricca di poesia e contraddizioni. Ma la sua magia è la sola faccia della medaglia che il viaggiatore distratto vuole vedere. Nessuno si chiede cosa ci sia dietro i sorrisi delle ragazze dei Go Go bar e tantomeno fa caso agli onnipresenti ‘bambini della notte’, costretti a girare fino all’alba per locali e discoteche.
     E sarà proprio da quel mare fatto di ignoranza e superficialità che piano piano emergeranno agli occhi del protagonista le loro storie, fatte di abusi e sfruttamenti. Scoprirà con orrore che la pirateria, la pedofilia e il traffico di schiavi sono realtà ancora tristemente attuali. Infine, quando il pulsare del ‘misterioso Oriente’ gli avrà svelato in tutta la sua essenza anche quel suo volto tragico, Danny comprenderà con sempre maggior consapevolezza dubbi, speranze, illusioni e ‘bisogni’ non solo suoi, ma anche di quella che verrà consegnata alla storia del secolo scorso come la ‘generazione dei mitomani’.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2018
ISBN9781976787478
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    Anteprima del libro

    Avanzi d'Occidente - Gianni Abate

    Avanzi

    d’Occidente

    Un romanzo di:

    Gianni Abate

    A cavallo degli anni ‘80 e ‘90, avulsi da un sistema che stritolava l’individuo e la sua creatività, gli ‘Avanzi d’Occidente’ cominciarono a cercare stili di vita alternativi nei posti più esotici del mondo. Molti di loro finirono in Tailandia, che in quel periodo mirava, attraverso le sue bellezze naturali e l'intrattenimento notturno, a diventare una delle mete turistiche più ambite.

    Siamo nel 1991 e Danny, appena atterrato a Bangkok, si affida proprio a questi avanzi d’occidente per rintracciare Canna, l’amico scomparso da mesi. Il giovane rimarrà subito affascinato da quella terra complessa, ricca di poesia e contraddizioni. Ma la sua magia è la sola faccia della medaglia che il viaggiatore distratto vuole vedere. Nessuno si chiede cosa ci sia dietro i sorrisi delle ragazze dei Go Go bar e tantomeno fa caso agli onnipresenti ‘bambini della notte’, costretti a girare fino all’alba per locali e discoteche.

    E sarà proprio da quel mare fatto di ignoranza e superficialità che piano piano emergeranno agli occhi del protagonista le loro storie, fatte di abusi e sfruttamenti. Scoprirà con orrore che la pirateria, la pedofilia e il traffico di schiavi sono realtà ancora tristemente attuali. Infine, quando il pulsare del ‘misterioso Oriente’ gli avrà svelato in tutta la sua essenza anche quel suo volto tragico, Danny comprenderà con sempre maggior consapevolezza dubbi, speranze, illusioni e ‘bisogni’ non solo suoi, ma anche di quella che verrà consegnata alla storia del secolo scorso come la ‘generazione dei mitomani’.

    .

    Temporale nella foresta vergine H. Hesse

    (Poesie del Pellegrinaggio)

    La notte è da lampi rischiarata

    e freme nella bianca luce

    E fluttua selvaggia, squassata e accecante

    sopra la foresta, il fiume e il mio viso smorto.

    Appoggiato al fresco tronco di bambù guardo immobile

    la pallida terra che dalle piogge sferzata

    si strugge nel desiderio di quiete,

    e dalla remota gioventù

    mi giunge corrusco attraverso le tenebri grevi di pioggia

    un grido di gioia:

    non tutto è vacuo, non tutto è insulso e oscuro,

    i temporali si accendono ancora di bagliori

    e nel susseguirsi monotono dei giorni

    divampano misteri e prodigi.

    Con respiro profondo ascolto il tuono,

    avverto umida la tempesta fra i capelli

    e per qualche istante son vigile come una tigre

    e felice, come nell’infanzia

    e come dall’infanzia non fui mai.

    Last edited: 24 Gennaio 2021

    Copyright © 2020 Gianni Abate

    All rights reserved.

    ISBN: 9781976787478

    Note dell’autore:

    Nel 1991 i dialoghi in inglese tra non madrelingua era facile che venissero svolti in maniera arrancante; nel romanzo li ho tradotti liberamente, forzando il livello di comprensione che si poteva avere di tanti vocaboli; il motivo è semplice: arricchire e rendere più fluida la narrazione. Solo di tanto in tanto, e soprattutto con la gente del posto, li ho riportati il più fedelmente possibile, giusto per far sentire al lettore il suono di quelle chiacchierate.

    Avanzi d’Occidente prende spunto da fatti realmente accaduti.

    Prologo

    Il crepuscolo colorava il cielo di scarlatto e l’oceano sottostante era come un manto dentellato da lame lucenti. Il jet ski sobbalzava sulla sua superficie come fosse un ciottolo lanciato da una mano infantile. A bordo una coppia di turisti: il ragazzo alla guida aveva i tratti del viso stravolti dall’eccitazione del momento, i capelli castani scompigliati dal vento, la bocca spalancata in una folle risata e gli occhi spiritati fissi davanti a sé, mentre con la moto si preparava all’impatto contro l’ennesima onda. Allora la ragazza, per non cadere, si legava a lui con estrema forza, emettendo vivaci squittii di protesta. I loro versi, cavalcando la brezza marina, arrivavano a riva confondendosi con il vocio di alcuni giovani thai che giocavano a pallavolo. A breve, un’altra comitiva si sarebbe unita per iniziare una partita a calcio. Per la gente del posto era una consuetudine giornaliera appena terminato di lavorare riunirsi in quella striscia di lungomare. Pieni di euforia, sorridevano grati per quel paradiso che la natura gli aveva donato, quasi come a volersi prendere gioco dei ricchi vacanzieri che per essere a Phuket avevano dovuto attraversare interi continenti spendendo cifre enormi.

    A quel baccano si unì il ruggito di un motoscafo che puntò il mare aperto. Il natante si trascinava una fune alla cui estremità era assicurata una turista. Si sentì uno schiocco potente quando il vento gonfiò la vela del suo paracadute, il corpo della ragazza cominciò a prendere quota e il suo urlo di selvaggio godimento dominò per un istante tutti i rumori d’attorno.

    L’uomo le scattò una foto immortalandola tra cielo e mare: un’anonima musa avvolta negli sfavillanti colori del tramonto. Lui si trovava nei pressi del muricciolo di cemento che divideva la strada dalla spiaggia, indossava pantaloni scuri e una canottiera nera attillata, intorno agli avambracci risaltavano dei tatuaggi tribali fatti al termine di una notte di bevute. Riprese a tracannare la singha, una birra locale di cui era presto diventato un fedele consumatore, posizionandosi davanti allo specchietto della Harley che aveva noleggiato. Nell’immagine riflessa, controllò il taglio a cresta di gallo che si era fatto fare il giorno prima. Si passò la mano su quelle parti di testa rasate a zero, ripetendosi il nomignolo con cui sia le commesse del beauty saloon sia la sua ragazza l’avevano chiamato: Gai, mormorò sorridendo al ricordo della sua stizzita reazione per quello che gli era sembrato un insulto alla sua virilità. Divertite, le commesse gli avevano spiegato che quella era una parola thai equivalente all’inglese Chicken.

    Bevve un altro sorso di birra, poi si lasciò cullare dal rumore delle onde che accarezzavano la battigia, affrontate da una manciata di bagnanti ancora restii ad abbandonare le acque. Qua e là qualche turista elemosinava gli ultimi raggi solari e in lontananza, al limitare della costa, una coppia di fidanzatini camminava mano nella mano in prossimità di un villaggio di pescatori. Apprezzava quei momenti di pace e tranquillità proprio lì, a poche centinaia di metri da uno dei quartieri più caotici e pieni di vita del mondo.

    Un’altra serata a Patong stava per cominciare… e per lui sarebbe stata come al solito incomprensibile e pericolosa. Questo gli procurava un misto di eccitazione e paura, perché già sapeva che ne sarebbe stato risucchiato fino a rischiare di rimanerne inghiottito. Aveva la netta sensazione che in quell’esplosione di suoni e colori, mitragliato da cosce di giovinette generose, annaffiato da fiumi d’alcool e intossicato da fumi di sostanze proibite, per uno come lui fosse fin troppo semplice perdersi nell’immoralità, nel vizio, nella trasgressione e nella violenza. Tutta merda a cui sono abituato, pensò con amarezza. Chicken percepiva in quella località, durante la notte, una corrente sotterranea di rabbia inespressa pronta a scoppiare alla minima scintilla. Già due sere prima si era fatto coinvolgere in una rissa al Crocodile, un bar nei pressi della Bangla Road, il cuore pulsante della Patong by night, contro un gruppo di tedeschi anche loro piuttosto ubriachi. Rammentava a malapena i motivi del litigio, se non di essere accorso in difesa di un tizio – uno dei tanti italiani con cui aveva condiviso le gozzoviglie serali – che aveva provato a fare il playboy con una delle ragazze dei crucchi - una tipetta tutta sorrisi e ammiccamenti la cui sfacciataggine nulla aveva da invidiare alle ben più esperte ragazze del luogo. Così, quel continuo agitar di natiche della fräulein aveva ingolosito l’italico appetito del suo amico il quale, pervaso da un delirio di onnipotenza dovuto alle facili conquiste delle ragazze thai, le si era accostato mentre lei ballava in strada, cominciando a strofinarcisi contro come un barboncino in calore. Poi, complice l’alcool e la mancanza di sportività da parte del fidanzato di lei, i due schieramenti avevano iniziato a insultarsi a suon di allusioni più o meno storiche, in cui parole come traditori, emigranti e Spagna ‘82 erano riecheggiate nella via. A un certo punto, in quella baraonda, una voce rimasta anonima aveva gridato Cefalonia, ma nessuno dei presenti, tantomeno Chicken, aveva saputo come interpretarla a vantaggio della propria fazione; per cui il riferimento era caduto nel vuoto, soppresso da una più opportuna rozza eccitazione che aveva infine portato alla rissa. Questo, tra le proteste e gli incoraggiamenti dei passanti e delle bargirl che assistevano allo spettacolo. La scazzottata era durata solo qualche minuto, poi nel vicolo era saettata rimbalzando di bocca in bocca la parola police. Allora i contendenti si erano sparpagliati come palle da biliardo alla prima steccata, promettendosi un nuovo round a data da destinarsi.

    Per Chicken non era stata la prima zuffa a cui aveva partecipato da quando si trovava a Patong Beach e di sicuro non sarebbe stata l’ultima.

    Riprese a contemplare il mare, decidendo di rientrare in camera a birra finita; una volta lì, si sarebbe rilassato con marijuana e musica, quindi una doccia, poi una veloce incipriata per darsi la carica e infine via, nella notte del luogo: a caccia di risate, di emozioni e di solite insolite – così amava definire quella carrellata di ragazze locali conosciute e subito dimenticate con cui folleggiava fino all’alba.

    Era quello il momento in cui, seduto di fronte all’oceano ad ammirare le nascenti luci del giorno, si sentiva più malinconico e ripensava agli amici con cui avrebbe voluto condividere quell’avventura. In particolare, uno con il quale i rapporti si erano interrotti da anni.

    Chissà, forse con il tempo si sistemerà tutto…

    Con passi lenti cominciò a coprire quei pochi metri di strada che lo separavano dal suo hotel, il Seagull Cottage: un complesso di bungalow affacciato sulla litoranea. Chicken lo chiamava il suo fortino segreto. Segreto perché, soprattutto dopo una brutta esperienza con una coppia di australiani, non aveva permesso più a nessuno di sapere dove alloggiasse. Questo in virtù anche dei consigli di alcuni italiani che conoscevano il posto, che lo avevano messo in guardia dalle ragazze thai con cui si accompagnava, dato che, a sentir loro, al minimo screzio erano pronte a venderti alla polizia locale. E per lui, un’irruzione di agenti nel bungalow era una cosa assolutamente da evitare, se non voleva ritrovarsi ancora una volta dietro le sbarre.

    All’improvviso un vociare nervoso e insistente lo strappò da quelle preoccupazioni. Proveniva dalla battigia, dove una decina di persone discutevano animatamente vicino una moto d’acqua spiaggiata. Riconobbe tra loro i noleggiatori di motorini e jet ski che stazionavano in quell’area. Il gruppo aveva circondato la ragazza e il ragazzo che poco prima se la stavano spassando con la moto d’acqua. Quest’ultimo si diresse con passo spedito verso un asciugamano poggiato a terra, si chinò per raccogliere un marsupio, poi, una volta tornato dai thai, ne estrasse una tessera che esibì con audacia. La sua voce echeggiò forte e chiara – il tono arrogante e spavaldo aveva per Chicken un che di tristemente familiare – e dominò per un istante quel tratto di spiaggia.

    "I’m an italian policeman!", esclamò il turista assumendo una posa autoritaria. Si mantenne rigido e silenzioso, con la tessera salda tra le dita, frapponendola tra sé e i thai come uno scudo. Il rumore delle onde, che si accavallavano sul bagnasciuga, per qualche secondo fu un tutt’uno con lo scroscio di risate dei noleggiatori. Chicken notò uno di questi dare un colpo repentino alla mano dell’italiano, facendo volare la tessera per alcuni metri. Il poliziotto mostrò un’espressione stupita, mentre una delle ragazze che stava giocando a pallavolo la recuperò e la diede alla sua compagna. Chicken seguì la scena con maggiore curiosità. I thai ora non ridevano più, uno di loro afferrò lo sbirro per il gomito e lo guidò dov’era la moto d’acqua, indicandogli con gesti irritati un punto sul lato frontale del mezzo. L’italiano scosse la testa e prese ad argomentare, conservando sempre un tono altezzoso. Quei modi dovettero infastidire un altro thai, il quale sbracciando, gli si parò sotto e gli diede una manata, guadagnandosi in risposta uno spintone ben assestato che lo scaraventò all’indietro. Lo sbirro venne allora raggiunto da un calcio alla schiena che fece scattare la sua compagna.

    Massimo, paghiamo e andiamo via!, strillò isterica. Al che il ragazzo, massaggiandosi la parte offesa, reagì con rabbia.

    Ma figurati se un’onda può fare un danno del genere, protestò con veemenza.

    A quel punto Chicken decise di andare a ficcanasare. Arrivato a pochi metri dalla contesa la sua curiosità fu presa in ostaggio dalle gambe di lei, dai lunghi capelli bagnati attaccati alle spalle, dai glutei sodi e quando la vide girarsi non poté non apprezzarne il seno abbondante. Seguì con invidia un paio di gocce marine che dall’ombelico le scivolarono adagio sull’addome leggermente rigonfio, svanendo poi all’interno dello slip. Aveva un viso piacevole, incorniciato da una chioma castana striata da mèches ramate, due occhi così azzurri che gli trasmisero lo stesso incanto provato alla vista delle acque di Phi Phi Island. I due, come lui tra i venticinque e i trent’anni, dovevano essere di fresche nozze, perché entrambi portavano agli anulari fedi nuziali lucenti. Senza pensarci Chicken si mise in mezzo per provare a mediare, cosa che sembrò non riuscire bene dato che un thai, piccolo di statura ma con spalle alte e ventre tonico, gli si parò davanti soffiandogli contro come un toro pronto alla carica.

    Ma che cazzo succede?, domandò Chicken concitato impugnando la bottiglia per difendersi.

    Dicono che gli abbiamo ammaccato la moto d’acqua e vogliono diecimila bath, altrimenti non ci riconsegnano i passaporti, spiegò nervosa la ragazza. Il thai di fronte a lui, con collerica teatralità, si tolse la maglietta sfoderando un drago tatuato all’altezza del petto. Pronunciò alcune frasi che Chicken non capì, ma ne intese il significato quando fu raggiunto da un colpo di muay thai al polso che fece volare la bottiglia di birra qualche metro dietro.

    "Malimortacci imprecò in romanaccio mettendosi in guardia e preparandosi ad attaccare il nano. Questi emise un verso acuto, stile Bruce Lee in azione, poi gli mollò un calcio all’addome facendolo crollare in ginocchio boccheggiante. Sto infame figlio di puttana", ringhiò Chicken spazzolandosi la sabbia da dosso ai calzoni. La ragazza lo aiutò a rialzarsi. Intanto una piccola folla si era radunata attorno a loro.

    Per favore, chiamate la polizia, gridò la giovane rivolta ai curiosi in un inglese scolastico e, con tempismo sospetto, la polizia si manifestò sotto forma di un thai sovrappeso, dalla divisa marrone, corda rossa avvolta intorno all’ascella e occhiali scuri. Camminava a passi lenti, quasi elefantiaci, e ogni impronta che i suoi stivali lasciavano sulla sabbia sembrava marchiarla con il segno della corruzione. Si mise a parlare con i noleggiatori della moto d’acqua, che con enfasi lo delucidarono sulle loro rimostranze. Poi ascoltò il turista, il quale, con un buon inglese e con modi sempre più agitati, fornì la sua versione dei fatti. Il poliziotto annuiva distrattamente, allungando di tanto in tanto occhiate in tralice alla moglie di lui e destinando segni di saggia comprensione a destra e a manca, come a crogiolarsi in quel ruolo di pacificatore, quasi di giudice supremo. Non provò a controbattere né a lanciare uno sguardo alla moto d’acqua, per constatarne il danno e l’eventuale legittimità della richiesta di risarcimento. Anzi, al termine delle perorazioni delle parti in causa, con fare più da boss malavitoso che da uomo della legge, invitò il collega italiano e il noleggiatore thai a un conciliabolo privato. Così il trio si diresse verso la strada dov’era parcheggiata la moto del poliziotto.

    Di dove siete?, domandò Chicken affiancandosi alla ragazza.

    Firenze, disse lei senza distogliere gli occhi dal marito che in lontananza dava spettacolo sbraitando e gesticolando fumantino.

    In viaggio di nozze?, la interrogò, ricevendo per risposta un pigro cenno di conferma. Notò con fastidio il nano che l’aveva aggredito additarlo e poi dire qualcosa ai suoi amici facendoli ridere. Ma è uno sbirro?, le chiese ancora indicando verso il marito, ingoiando in silenzio le occhiatine deridenti del gruppetto di giovani thai.

    Un carabiniere, precisò lei. A Roma nessuno ci avrebbe creduto: lui che accorreva in difesa di un caramba. Malgrado ciò, Chicken provò un forte senso di fratellanza per i due compatrioti, nonché un inusuale disgusto alla parola ingiustizia. C’era odore di truffa – chi più di lui poteva capirlo – la leggeva sui volti dei thai, la vedeva nella sincronizzazione degli sguardi, nelle mosse furtive e negli atteggiamenti ripetuti, limati e perfezionati a scapito di chissà quanti altri turisti.

    Quando i tre tornarono, il noleggiatore sembrava sollevato, il poliziotto camminava gongolante, inviando segnali rassicuranti alla ragazza ed esibendo un sorriso falso come la merce esposta sulle bancarelle del lungo mare. L’italiano invece, schiumava rabbia da ogni poro.

    Figli di puttana… gli dobbiamo dare cinquemila bath… ma non finisce qui. Più tardi andiamo all’ufficio del FVP e li denunciamo tutti!, urlò imbestialito verso la moglie.

    FVP? Sarebbe?, s’intromise Chicken. Il novello sposo lo scrutò con occhi fiammeggianti.

    "Police foreign volonteers, la polizia turistica. Mi sentiranno, sono un loro collega, questi bastardi hanno completamente toppato… faccio un casino… A costo di mettere sottosopra anche l’ambasciata italiana me la pagheranno, vedrai… gli faccio chiudere ’sto spaccio di motorette, maremma maiala!", tuonò mostrando un’espressione esaltata. Il romano si fece facilmente trasportare da quell’isteria da oppressi.

    Quanti sono in dollari cinquemila bath?, chiese facendo sua la rabbia del carabiniere.

    Più o meno duecento, lo illuminò la ragazza. A quel punto Chicken, contagiato dall’animo livoroso del tipo, ancora furente per i calci ricevuti, gli sberleffi dei thai e la plateale frode che si stava consumando, venne investito da un’idea folle.

    Li pago io, voi aspettatemi qui, esclamò risoluto. Poi, incurante degli sguardi basiti della coppia, con passi rapidi si avviò verso il suo bungalow. È ora di lasciare Patong Beach, pensò con un misto di amarezza ed eccitazione. Sapeva che prima o poi sarebbe successo, era giunto il momento di usarli.

    1

    Era come se si stessero prendendo a cazzotti, cercando uno di spingere l’altro verso l’angolo, di annientarlo, ridurlo al silenzio, eliminandolo dalla mia attenzione. Fino a qualche secondo prima le note di Innuendo, al primo posto nelle classifiche inglesi, mi arrivavano maestose, padrone dello spazio e del tempo intorno a me. Uscivano dallo stereo del soggiorno dove mi stavo improvvisando frontman, con scopa in mano e occhiali scuri, stile Jimi Hendrix. Adoravo il rock, vibrazioni pure. E i Queen quella mattina mi stavano mandando fuori di testa. Ma sentivo in sottofondo, con crescente intensità con lo scorrere dei secondi, un suono più rettilineo, più penetrante, più meccanico. Che piano piano vinse la magia della chitarra di May, sfilacciando il flamenco ricamato dalle corde di Steve Howe, per frantumare infine l’incantesimo creato dagli acuti di Freddy. Più la mia coscienza veniva rapita dal ripetuto trillo telefonico, più i Queen si auto-esiliavano dalla mia mente, offesi di esser stati infastiditi. Misi in pausa e alzai la cornetta.

    Pronto? Il ritornello del brano pareva ancora aleggiare nell’aria, me lo vedevo scivolare davanti agli occhi come uno slogan: you can be anything you wanna be...

    Daniele?, una voce di donna, ne annusavo la familiarità senza tuttavia associarla a un nome, un volto.

    ... chi è?

    Sono Marzia, la sorella di Canna. Di certo una delle ultime persone che mi aspettavo di trovare dall’altra parte della linea. Canna, quanti anni erano passati dal nostro incontro più recente?

    Cosa ha combinato stavolta? Non mi aspettavo mai buone notizie quando c’era di mezzo lui, non più.

    Mi ha telefonato stanotte... sai che è in Tailandia?

    DOVE?

    Tailandia, ripeté.

    E dov’è? Ci furono alcuni secondi di silenzio. Immaginai di averla messa in difficoltà.

    In Cina! Mi ha mostrato delle foto da un catalogo, c’erano dei cinesi. Non ero sicuro fosse così, poi rammentai un racconto di un mio ex collega, ricordi vaghi e frammentari in cui mi aveva parlato di un suo amico che era stato in viaggio di nozze in quel Paese, aveva soggiornato in una città chiamata Bangkok e poi in una località balneare in cui pioveva sempre. E la Cina che c’azzeccava?

    Bangkok?

    Sì!, esclamò risollevata.

    Sta bene?, domandai non riuscendo a capire il motivo della telefonata. Mi rispose con un timbro di voce improvvisamente disperato.

    Per niente, mi ha detto che non tornerà più in Italia, che dei mafiosi lo vogliono uccidere e che ha una grave malattia si sfogò abbandonandosi a lunghi singhiozzi.

    Cosa? Faticavo a dare un senso a quella serie di sciagure.

    Sì, ha detto che non tornerà più… ah, mi ha anche chiesto di cercarti!

    A me? Mi sembrava paradossale. Lei assunse un tono tra l’offeso e il penoso.

    Daniele, ma tu sei ancora suo amico?

    "Be’, negli ultimi anni ha cambiato frequentazioni, lo sai. Altre priorità, adesso credo possano occuparsene quelli della sua banda, non hanno un codice di reciproca assistenza? Uno per tutti... quelle cose lì?"

    Non parlare degli ultimi anni... mio fratello ha perso la testa, non siamo più stati in grado di farlo ragionare. Ma ti considera sempre il suo più grande amico, non dubitarne mai. Ora ha bisogno del tuo aiuto.

    Ma io che posso fare? Cioè da qui... non so che dirti Marzia. Di nuovo secondi di silenzio.

    Forse non è stata una buona idea chiamarti, disse sconfortata. Ravvisai in quel commento una muta sentenza che mi fece ribollire il sangue, ci mancava pure che mi si attaccasse l’etichetta dell’infame.

    Marzia, facciamo così, ci vediamo tra venti minuti al bar del Secco, esclamai punto nell’orgoglio. Non mi sentivo a mio agio a parlare al telefono, soprattutto quando c’era di mezzo lui, anche se erano passati tanti anni ormai.

    Mentre mi vestivo pensai a Silvia, che non avrebbe accolto per nulla bene la notizia di un mio riavvicinamento con Canna. Sarebbe stato un altro pretesto per alimentare il suo semprevivo fuoco della polemica, che divampava poi nei litigi che ormai, negli ultimi mesi, erano diventati il nostro passatempo comune. Una questione alla volta, mi dissi preparandomi all’incontro con Marzia.

    Canna... Ci conoscevamo da quando avevo tredici anni, lui un anno più piccolo di me. Eravamo una combriccola di ragazzi, ci riunivamo la mattina davanti la scuola all’ombra di una roulotte abbandonata. Lì, avevamo attraversato gli anni delle medie, passando dal raccontarci le imprese dei nostri supereroi preferiti a fumare hashish e atteggiarci a duri dentro corazze di pelle viste nei film hollywoodiani. Chissà che fine avevano fatto gli altri. Due erano morti: uno per un incidente in moto e l’altro divorato nel giro di un paio d’anni dall’AIDS.

    Si potrebbe andare al mare, dissi a Marzia quando mi presentai all’appuntamento. Eravamo ad aprile e il sole romano era caldo già a metà mattina. Ci accomodammo ordinando da bere, poi lei si tolse gli occhiali scuri, il viso era rigato, s’intuiva che aveva pianto molto. Non ci vedevamo da anni, lei ne aveva trenta, due più di me, capelli neri corti, di bassa statura e formosa.

    Come stai?, mi domandò con voce emozionata. Parlammo un po’ di noi, le chiesi del marito e della bambina, lei si meravigliò per l’amputazione della mia lunga chioma castana, cosa che, a detta sua, ora mi dava un aspetto da bravo ragazzo, accentuato dai contorni del viso, meno scarni di quanto ricordasse. Le spiegai brevemente, rubandole un’espressione di sorpresa, che ultimamente avevo perso parecchi chili. Quindi fu il suo turno d’informarsi sul mio rapporto con Silvia.

    Va’ avanti..., dichiarai senza convinzione, ma dimmi di tuo fratello, cos’è successo?

    Mi ripeté le esatte parole di mezz’ora prima.

    Ma dov’è, a Bangkok?

    Non lo so, non me l’ha detto. Ha anche chiamato a carico del destinatario.

    Per qualche secondo rimuginai su una domanda che mi assillava da quando mi aveva telefonato.

    Ma tuo fratello... che cazzo ci è andato a fare in questa Tailandia? Cioè, lui non sa l’inglese... chi l’ha trascinato così lontano? Sapevo che si faceva facilmente convincere a compiere gesti folli. Lei fece spallucce.

    Non lo so, un giorno ha iniziato a parlare di questo viaggio, ma è andato da solo. Per avere il passaporto non ti dico che casino, c’è voluto pure l’avvocato, ma ormai aveva scontato tutto. Sul perché sia lì sinceramente non so dirti molto. Poi lui... insomma, aveva dei soldi da spendere e la necessità di sparire per un po’, capisci?

    Capivo.

    Da quanto tempo è partito?

    Dai primi di marzo.

    Fischiai per lo stupore, un mese di vacanza all’estero, un’utopia per me.

    Ha mandato cartoline? Fatto altre chiamate?

    No, rispose scuotendo la testa, Daniele cosa mi consigli di fare? mi domandò poi con ansia. Ci pensai un po’, ero tentato di comunicarle che non era un problema mio, che da anni ormai avevo deciso di tenermi lontano dalle pazzie del fratello, che mi erano costate molto, specialmente in termini economici. Ma non sarebbe stato onesto, tanto meno veritiero. Però, al contrario di lei, io non ero in pena per niente.

    Comunque, voglio dire... conosci tuo fratello, no? Marzia fece una faccia interrogativa. Mi raffigurai il posto: un Paese probabilmente tropicale, spiagge, mare e palme – doveva essere tipo Giamaica, con tutta la flora annessa. Ascoltami, non cadiamo nel panico. Non comportiamoci come quei paranoici che alla notizia dello scoppio della guerra nel Golfo hanno cominciato a svaligiare i supermercati temendo un imminente confitto atomico. Io già me lo immagino tuo fratello, insieme a tanti altri ragazzi in vacanza, si beve, si fuma... insomma, hai capito? Lei sembrò cadere dalle nuvole, era sempre stata un po’ ingenua. Cercai di esser il più delicato possibile: Avrà telefonato sotto l’effetto di forti bevute e chissà cos’altro..., le dissi poggiandole una mano sulla spalla. Dai, stai tranquilla, facciamo passare qualche giorno, vedrai, richiamerà e sarà quello di sempre. Terminai riuscendo a rasserenarla. Così ci salutammo con la promessa di risentirci nel giro di una settimana.

    La sera stessa ne parlai con Silvia.

    Ancora lui. I suoi occhi esprimevano rassegnazione.

    Dev’essere una sciocchezza, sicuramente era strafatto. Ne ero convinto. Lei mi lanciò uno sguardo profetico.

    Daniele non farti coinvolgere, ricordati quello che ti ha fatto passare.

    Non fu colpa sua, ripetei per la millesima volta. Ero convinto anche di questo. Lei sbuffò platealmente asciugandosi quasi con violenza le mani sul grembiule, aveva le guance rosse, succedeva spesso quando s’incazzava. "Hai acceso gli special", le dissi per scherzare, una frase che l’aveva sempre divertita, ma non quella sera. Mi parlò con una nota di disgusto nella voce.

    Il tuo amico ha quasi trent’anni e ancora non ha messo la testa a posto, è sempre stato un tipo infantile, uno che preferisce la soluzione più immediata. È facile indovinare il modo in cui ha rimediato i soldi per andare fin lì. Fa bene a goderseli, probabilmente quando tornerà troverà un paio di manette pronte all’aeroporto! Bella vita quella del fuggitivo, il non sapersi assumere le proprie responsabilità... Sarebbe ora di crescere e questo vale anche per te! Temevo una sua incursione sul personale, ormai per Silvia ogni occasione era buona per criticare il mio stile di vita; infatti, arrivò la sua scontata ramanzina: Daniele, devi capire che hai un’età in cui generalmente si matura, si diventa uomini. Io penso di averti dato tutto l’aiuto e la pazienza del mondo, però mi sto accorgendo che per te non è abbastanza.

    Ormai, da quando ero disoccupato, i nostri battibecchi erano continui. Più che battibecchi erano accuse, le sue, a cui replicavo in maniera indolente, acutizzando così il suo livore. Ma non potevo farci nulla, vedevo scivolare nel vuoto la mia vita e gli anni di convivenza con lei senza apparentemente reagire, sentivo che la stavo perdendo e assistevo allo sfascio della nostra relazione con una punta di soddisfatta amarezza. Provavo una piacevole sensazione nell’arrendermi a quelle forze oscure contro cui, forse per comodità, ci convinciamo sia inutile opporsi. Ero arrivato alla conclusione di essermi concesso tutte le esperienze possibili e per il futuro vedevo come unica opzione l’ineluttabile matrimonio e poi i figli. E la cosa mi terrorizzava… Tutti i miei amici avevano preso già da anni quella strada, e in alcuni casi più per mancanza di alternative che per libera scelta. Io invece non mi sentivo pronto per un epilogo del genere e trascinavo in questa mia perversa immobilità anche lei che aveva creduto in me.

    Daniele ti stai impigrendo, riprese Silvia come a sintetizzare il filo delle mie riflessioni, devi fare qualcosa per scrollarti di dosso l’apatia, io non posso più perdere tempo, ho ventotto anni... lo capisci? Devi smuoverti. Pensi che io ami alzarmi alle cinque del mattino per andare a lucidare cessi? Il suo tono adesso era materno. Silvia sgobbava in una ditta di pulizie e guadagnava poco, mentre io ero fresco di licenziamento dopo che l’azienda per cui avevo sfacchinato per otto anni, una fabbrica di reti ortopediche, aveva chiuso i battenti.

    Non è così facile trovare lavoro, esclamai facendola incazzare oltremodo. Con espressione seccata Silvia si andò a chiudere in camera. Rimasto solo, meditai su quell’evidente verità. In effetti si viveva in un’epoca in cui i problemi lavorativi erano tangibili: disoccupazione ovunque, lavoro nero dilagante – molti miei amici, assunti senza contratto, a fine mese venivano pagati con acconti ridicoli arricchiti da promesse vaghe. Mi rendevo conto che i giovani d’oggi, quelli come me dei bassifondi, arrancavano solo per arrivare con qualche spicciolo a fine mese. Le periferie erano fucine di vite degradate, assemblate con criminalità e droga, e per tanti, Canna compreso, era stato fin troppo facile perdersi. Io invece avevo speso gli ultimi otto anni a tagliare, saldare, bucare e verniciare barre di ferro. Un mestiere dignitoso, per carità, ma monotono e mal retribuito, che aveva spento tutto l’ardore dei miei vent’anni. In quella fabbrica sporca e semibuia mi era scivolata via la giovinezza, lo spirito fanciullesco e la curiosità adolescenziale che avevo alla fine della scuola, quando, allora quindicenne, avevo prospettato ben altri scenari per il mio futuro: imprese e amori impossibili, viaggi e amicizie intramontabili, emozioni forti e profonde.

    Quei sogni d’avventura, di una vita piena di guai, ancora oggi, a volte, tornavano a tormentarmi. Colpa sicuramente della mia sopraggiunta passione per i romanzi. La cosa buffa era che a scuola non avevo mai aperto un libro. Cominciai a farlo durante l’anno del servizio militare, quando, per rompere la noia delle lunghe nottate di guardia alla riservetta, passavo il tempo a divorare le avvincenti novelle firmate Salgari. Ne avevo una scorta donatami dalla maestra delle elementari in occasione del mio ottavo compleanno; scorta rimasta abbandonata in salotto per più di un decennio, insieme a volumi di enciclopedie che i miei genitori, inguaribili ottimisti, avevano collezionato per la mia istruzione negli anni della mia infanzia.

    Finito il militare presi a frequentare le librerie e questo cambiamento sorprese molto i miei amici, i quali, divertiti, sottolineavano di come il duro anno da soldato mi avesse fatto uscire di senno. Continuando nelle mie letture fui rapito dal genere fantasy, apprezzando molto soprattutto le opere di David Gemmell. In quel periodo viaggiai anche per le galassie, grazie alla fantascienza di Isaac Asimov. Insomma, non ero più quell’ignorante somaro che aveva preso il diploma di licenza media solo per meriti sportivi. Credevo addirittura di aver fatto il salto di qualità con generi più impegnativi, ambientati in contesti storici affascinanti: Wilbur Smith era il mio nuovo messia letterario. Fu proprio grazie a questo scrittore che conobbi Silvia.

    Accadde una mattina di un piovoso autunno romano quando, in metropolitana, mi ritrovai seduto vicino a una graziosa ragazza. Mettemmo contemporaneamente la mano nelle nostre borse tirandone fuori un libro. Con meraviglia, ci accorgemmo di avere lo stesso titolo del maestro sudafricano: Quando vola il falco. Ci guardammo negli occhi mettendoci a ridere, i suoi erano verdi come la giada. Cercando di non attirare l’attenzione degli altri passeggeri, mi accostai a lei.

    Volevo un libro di avventura e appena ho letto la trama ho capito che la mia ricerca era finita. L’incipit l’ho imparato a memoria, fantastico. Tu lo ricordi?

    Lei scosse la testa agitando nell’aria i suoi morbidi boccoli castani.

    Sono più avanti di te, l’ho già dimenticato.

    Io non potrei mai, ribattei ammirando la trasparenza delle sue iridi, è il richiamo stesso dell’avventura. Non vedo l’ora di leggere gli altri romanzi...

    La nostra amicizia nacque da lì. Ci scambiammo i numeri di telefono e più avanti ci furono gli incontri che ci diedero la sensazione di un qualcosa di intenso.

    Ma quel sentimento, alimentato nei primi anni dal fuoco del nostro ardore giovanile, ora si stava consumando lentamente nella monotonia. A volte pensavo perfino che Silvia avesse un altro. Un uomo le capisce certe cose: lei era sempre stata affascinata dal mio mondo, aveva attinto dalle mie letture, dalle mie band preferite e in generale dalla mia cultura. Era una persona che aveva bisogno di una figura forte al suo fianco, non solo caratterialmente ma soprattutto culturalmente, e per anni io ero stato il suo punto di riferimento. Negli ultimi mesi non mi chiedeva più consigli su quale libro leggere, su quale musica ascoltare e sbuffava sempre più spesso alle mie battute, che prima reputava spassose. Questi indizi, abbinati al timbro acido con cui sovente mi bacchettava, mi spingevano a pensare fosse stanca di me. La mia situazione lavorativa - e l’indifferenza con cui la stavo accettando - sembravano aver velocizzato i tempi del mutare dei suoi sentimenti nei miei confronti.

    Dovresti valutare l’offerta di Giorgio, mi disse Silvia più tardi a letto. Era il ragazzo di una mia cugina, operaio in una ditta di artigiani del ferro: finestre, balconi, inferriate, cancelli e porte blindate. Serviva un saldatore.

    Ho chiuso con quella roba, ripetei per l’ennesima volta. Ritenevo fare il fabbro un mestiere insalubre, tutto quel fumo di saldatrice che ti faceva passare intere nottate con gli occhi in fiamme, la vernice che ti si attaccava ai polmoni, il ritmo lento e svogliato di giornate sempre uguali. Sommavo quanto avevo guadagnato di soldi e quanto avevo perduto in salute: il piatto piangeva lacrime amare.

    Che credi di fare, vediamo? sbottò Silvia esausta, ricordati, Daniele, tu hai appena la licenza media, non hai molte possibilità. Io ho il diploma e sono costretta a spaccarmi la schiena in una ditta di pulizie. Ma nella vita bisogna sacrificarsi per te stesso e per le persone che ti vogliono bene.

    Posso prendermela con calma, esclamai alimentando la sua collera, con la liquidazione ho un po’ di respiro... mi piacerebbe buttarmi nel turismo. Caspita, vivo a Roma, c’è n’è di che sfamarsi. A quelle parole lei biascicò alcuni improperi a proposito della mia follia. Avevo conosciuto un tizio, faceva il portiere notturno in un due stelle del centro, mi aveva parlato di ottime prospettive, di facilità d’impiego nel settore per chi sapeva l’inglese. Io lo padroneggiavo grazie alla mia passione musicale: avevo libri con traduzione a fronte delle mie rock band preferite che spulciavo durante le mie sessioni canore quotidiane. Questo, oltre a un coinvolgimento personale, mi aveva nel tempo garantito una buona comprensione di quella lingua. La parlavo in versi e citazioni, ma la parlavo.

    Passarono i giorni che dividevo tra lo studio dell’inglese e il Commodore 64, altro svago che mandava fuori di testa Silvia. Inoltre, avevo ripreso a fare sport, rendendomi conto delle precarie condizioni fisiche in cui ero caduto. Ora però potevo dire di aver recuperato un tono muscolare adeguato alla mia età, nonché un profondo senso di libertà. Mi sentivo di nuovo al timone e, pur navigando ancora senza meta, coltivavo la speranza di trovare terre in cui approdare. Ci doveva essere qualcosa di più grande lì fuori ad attendermi.

    Un mattino, dopo aver appreso da Marzia del persistente silenzio di Canna, decisi di fare una capatina in un’agenzia di viaggi. Non c’ero mai stato prima, di solito le vacanze estive le trascorrevo con Silvia al sud, dove i suoi genitori possedevano una casa.

    Salve, esordii non appena entrato. C’era una biondina che stava mostrando a due clienti dei coupon sul Marocco. Mentre aspettavo il mio turno, cominciai a sfogliare una rivista sulla Tailandia; c’erano foto di templi dorati, mercatini, spiagge da sogno e belle donne con vestiti caratteristici. Ebbi la conferma che era in Asia, lo capii dalla mappa disegnata sulla rivista, precisamente sopra la Malesia. Il famoso Regno del Siam, così c’era scritto, e questo bastò – retaggio dei romanzi di Salgari – a farmi sentire tra le labbra il primo gustoso sapore dell’avventura. Ma perché adesso si chiamava Tailandia? Iniziai a farmi inebriare dalle parole stampate sulla rivista: "Arcaiche e rigogliose foreste al nord, pianure alluvionali solcate da due dei più importanti fiumi, il Chao Praya e il Mekong, ibischi, gardenie e orchidee selvagge, giungle impenetrabili lungo le coste, spiagge bianchissime e acqua cristallina al sud..."

    Prego, s’accomodi, m’invitò l’impiegata scuotendomi dall’incantesimo.

    Salve, ripetei sedendomi di fronte a lei, stavo pensando a una vacanza in Tailandia, ma a essere sinceri non so molto di questo Paese. Lei con fare professionale prese un opuscolo da sotto il bancone e me lo mostrò.

    Guardi, è una meta turistica da noi consigliata, in forte crescita negli ultimi anni. Di solito la lavoriamo per viaggi di nozze, è quello il nostro target. Abbiamo pacchetti con volo più hotel: tre giorni a Bangkok e una settimana a Phuket, un’isola nel sud, da sogno. Mi evidenziò i prezzi: più di tre milioni di lire per soli dieci giorni? Caspita, a Canna gli affari dovevano essere andati alla grande ultimamente.

    Sì, stavo vedendo i vostri dépliant, sono bei posti non c’è dubbio, ma io volevo sapere anche altro, costo della vita, delinquenza... si corrono rischi? È facile farsi comprendere in inglese dalla gente del posto? Serve il passaporto? Vaccini contro le malattie? Lei, sotto quel bombardamento di domande, fece una faccia sorpresa.

    I nostri pacchetti vacanza sono creati apposta per garantire un piacevole soggiorno in ambienti esclusivi. Avrete sempre una guida con voi nelle escursioni. Difficile avere problemi con i locali, stia tranquillo. Quanto alla lingua, si è parte di una comitiva di connazionali e non è quindi necessario parlare inglese. Per la pericolosità non si preoccupi, i nostri hotel sono ben vigilati. Serve il passaporto e per quanto riguarda eventuali vaccini è tutto riportato sulla rivista. Terminata la sua formula recitata alla perfezione la ragazza si fece distrarre dal telefono. Convinto che non ne sapesse molto di più, dopo un cenno di ringraziamento, me ne andai con una consapevolezza maggiore della Tailandia. Marzia mi aveva detto che Canna era partito facendo solo il biglietto aereo e non aveva idea della data del ritorno.

    Una volta fuori dall’agenzia, senza un motivo preciso, eseguii le pratiche per ottenere il passaporto. Se l’avevano rilasciato a Canna, a me non avrebbero fatto alcun problema.

    Quella sera, per evidenziare i suoi mal di pancia, Silvia mi lasciò un biglietto in cui mi avvisava che avrebbe mangiato fuori con delle colleghe. Io, forse esaltato dalla visita all’agenzia, dallo scenario che mi si era spalancato su di un mondo fino a quel momento ignoto, ero riluttante a una serata in solitaria. Così feci un rapido giro di telefonate: avevo voglia di vedermi con qualcuno per parlare delle novità su Canna, che tuttavia sapevo ormai fuori pure dai radar degli amici comuni. Almeno da chi aveva scelto una vita morigerata. Tutti rifiutarono il mio invito. Ormai le uscite si dovevano programmare in anticipo e rigidamente in compagnia delle nostre partner e, nel caso dei miei amici, erano scombussolate da nidiate di pestiferi bambini. Questo mi dava da pensare a un ipotetico ritorno allo status di single alla veneranda età di ventotto anni: come e con chi avrei poi passato il tempo?

    Ad ogni modo, quella sera, l’unico a prestarmi un minimo d’attenzione fu il mio amico Bruno: mi dedicò tre minuti di conversazione telefonica mentre era impegnato in una toccante ninnananna per far addormentare la bambina. Dopo un veloce botta e risposta sull’ultima partita della Roma, pareggio nel derby, mi disse la sua sulla faccenda Canna:

    Se Marzia ti ha cercato è perché spera che tu vai lì e riporti a casa il fratello, commentò non appena gli feci un quadro della situazione.

    Ma perché proprio io... tra l’altro, se quel che dice è vero, potrebbe anche essere pericoloso.

    Sicuramente..., confermò Bruno, poi la sua voce assunse un tono canzonatorio, certo... eh-eh-eh, Daniele, forse è arrivato il momento della tua redenzione dal peccato, della tua riabilitazione.

    Cosa?, domandai pur avendo intuito. Per qualche secondo lo sentii dialogare con la bimba attraverso quell’idioma sconosciuto a chi, come me, non aveva figli.

    "Ricordati di Pippa Calzenere!, riprese Bruno con timbro biblico al termine del conciliabolo con l’infante, glielo devi, Daniele!", continuò abbandonandosi all’ilarità, che dovette essere contagiosa poiché la bambina emise dei suoni allegri. Pippa Calzenere, sapevo che in un modo o nell’altro sarebbe di nuovo saltata fuori.

    Ma non gli devo un cazzo!, ribattei con finta esasperazione, erano i tempi delle medie... lui ed Elisabetta si salutavano appena, conclusi con innocenza. Poi ritornai serio. Ben diversi i guai in cui mi sono ritrovato per essergli stato amico qui a Roma, figurati se adesso vado in un Paese povero, forse ancora primitivo... a far che? Dice di avere problemi con dei mafiosi che vogliono fargli il culo... si è infilato in un tunnel pieno di merda e vuole trascinarci pure me? La bambina dovette intuire il mio tono recriminatorio, perché proprio in quell’istante scoppiò in un pianto fragoroso. Bruno allora prese a fare dei versi che finirono con l’alimentare le urla incontrollate della piccola. Udii in lontananza la moglie richiamarlo con tono polemico.

    Ti devo salutare Daniele, ciao... e ricordati, glielo devi. Mi liquidò riattaccando al termine di un ghigno prolungato.

    Qualche giorno dopo passai a casa di Marzia. Mi preparò un caffè.

    Non ha più telefonato, sono molto in pena, non so cosa fare, mi disse sconsolata. C’era anche Carlo, il fratello maggiore di Canna. Mi offrì una sigaretta, ma rifiutai, mettendolo al corrente che da anni avevo smesso di fumare.

    E tu Carlo che idea ti sei fatto, tuo fratello ti avrà confidato il perché abbia scelto di andare in Tailandia, giusto?, a quella domanda lui scosse il capo agitandosi sulla sedia.

    Mah, dice di aver letto un articolo di giornale sulla vita notturna…

    Ma sei preoccupato?, ripresi io, cioè, lo sai bene che è sempre stato un po’ vagabondo. Quante volte è sparito per giorni senza dire niente? Carlo mi osservò visibilmente in imbarazzo.

    Lo sono eccome!, mi rispose con una nota di sofferenza nella voce che non mi aspettavo – di lui avevo sempre apprezzato la pacatezza e il senso della misura. Aveva quattro anni più del fratello e caratterialmente erano agli antipodi. Doveva avere ottime ragioni per essere così allarmato. Marzia sgranò gli occhi, sorpresa da quelle parole quanto me.

    Sai qualcosa che io non so?, lo interrogò angosciata. Lui si girò a osservarla, abbassò lo sguardo, quasi un gesto di scusa per quello che stava per dire. Sembrò ancora lottare per qualche secondo contro se stesso, indeciso se condividere con noi ciò di cui era a conoscenza. Avrebbe preferito evitarlo, si capiva, ma evidentemente aveva realizzato che di qualunque cosa si trattasse, ormai non era più possibile nasconderla. Con una sbuffata di fumo plateale si arrese cominciando a parlare.

    Un giorno mi ha fatto vedere della roba… dei soldi da portare in Tailandia, cinquemila dollari in banconote da cento, ci disse d’un fiato. Ci fu una breve pausa in cui assorbimmo quella notizia.

    Li avrà cambiati, certo, girare solo con contanti è pericoloso, sostenni, arrivando mentalmente alla cifra di dieci milioni di lire. Non doveva passarsela male Canna, forse non aveva avuto torto il ministro De Michelis, quando annunciò trionfalmente alla nazione che eravamo il terzo Paese più ricco del mondo. Carlo scosse il capo.

    "No… i suoi, quelli normali, li ha cambiati in traveler’s cheques. Quei dollari invece li ha comprati da dei rumeni, uno di questi l’aveva conosciuto in galera".

    "I traveler’s cheques?", domandai; la mia espressione da ignorante strappò un sorriso a Carlo.

    Sono degli assegni, il metodo più sicuro per chi non vuole viaggiare con troppi contanti.

    "Ma che significa ha comprato dei soldi?", lo interrogò allora Marzia. In effetti non aveva molto senso. Carlo si accese un’altra Marlboro.

    Sono dollari falsi!, chiarì infine, lui mi ha giurato che sono perfettamente simili agli originali. Li ha pagati un milione!

    Ma cosa cazzo ne sa tuo fratello dei dollari originali?, mi sentii esclamare con voce incredula.

    Sono le stesse parole che gli ho detto io!

    E lui?, chiese Marzia sempre più sconvolta.

    Ha risposto che gliel’hanno assicurato i rumeni! Non sapevo se ridere o piangere. Tipico di Canna, sembrava una commedia, ma in realtà aveva tutti gli ingredienti di una grande tragedia.

    Ma se erano perfetti perché li avrebbero venduti a lui? Ora sì che ero preoccupato. Marzia cominciò a piangere.

    L’hanno ammazzato!, prese a bisbigliare unendo le mani in preghiera. Io, nonostante mi aspettassi di tutto da Canna, ero esterrefatto.

    Cioè, tuo fratello è andato in un Paese straniero, lontano migliaia di chilometri, per smerciare dollari falsi tra gente disagiata? Un folle. E tu avresti dovuto fermarlo! Carlo fece un’espressione per sottolineare l’ovvio: chi lo fermava Canna?

    Credimi, Daniele, l’ho implorato di non fare cazzate, lui mi ha promesso che li avrebbe usati solo in caso di assoluta necessità. Figurarsi, come se un falco che ghermisce la preda s’impegnasse a non mangiarla.

    Se li ha pagati così tanto ’sti soldi falsi, è ovvio che li userà, se non l’ha già fatto. Questo spiegherebbe perché nella telefonata ha parlato delle minacce dei mafiosi, dichiarai scuotendo il capo. Marzia, dopo essersi asciugata le guance, mi strinse la mano; il suo tocco era umido e il suo sguardo supplichevole.

    Che cosa possiamo fare da qui?, mi chiese con gli occhi velati di lacrime. Ma cosa ne sapevo io! Restammo in silenzio, ognuno a rincorrere una soluzione che sembrava distante da noi, come il luogo in cui si trovava Canna, come i suoi guai.

    Non saprei… dissi, provate a chiedere all’ambasciata e al Ministero degli Esteri… certo, non accennate ai dollari falsi, per carità; fate un salto anche alla compagnia telefonica, magari lì riescono a risalire al luogo della chiamata.

    Ci lasciammo con il proposito di risentirci al primo aggiornamento. Nel frattempo, avrebbero seguito i miei suggerimenti.

    Se vai in Tailandia a cercare il tuo amico con me hai chiuso!, affermò con voce burbera Silvia quando a cena la misi al corrente delle novità. Potevo dire tutto di lei, ma non che non fosse una donna intelligente.

    "Nooo, ma figurati, negai con timbro rassicurante, adesso i fratelli sentiranno l’ambasciata tailandese e il Ministero degli Esteri. Se è in qualche guaio con la legge, loro ne saranno informati. Probabilmente a breve avremo nuove direttamente da Canna. Ma andare lì, in mezzo alla giungla? Sarebbe una pazzia", sostenni con convinzione. Silvia scosse più volte la testa.

    Dollari falsi… ma si può essere più idioti? Fare il delinquente in un Paese straniero, tra sconosciuti… Mi spiace, ma se ha parlato di mafiosi non prevedo niente di buono. Chi cerca trova, caro mio; non farti coinvolgere, qui ti sei fatto dieci giorni di galera per le sue cazzate, se vai lì, rischi molto di più! Innanzi tutto, puoi scordarti di me!

    Ma che dici, replicai allargando le braccia come un martire. Poi venni colto da una lampante rivelazione, certo, mi fa piacere vedere con quanta facilità sei disposta a lasciarmi, voglio dire, ultimamente pare che non aspetti altro… Le rivolsi un sorriso che voleva essere sbeffeggiante, lei assunse un’espressione arcigna.

    Stai tranquillo, se ne avessi avuto l’intenzione a quest’ora non sarei qui!, ribatté seccamente, poi continuò sullo stesso tono: "però ti avviso Daniele, la mia fiducia in te si sta esaurendo e la cosa che più mi delude, è che a te non frega un cazzo. Io sono stufa di dover fare la rompicoglioni, l’antipatica, solo per farti capire che non si può stare a casa a poltrire; bello mio, ma dove credi di vivere, a Fantasilandia? Qui bisogna lavorare, LA-VO-RA-RE. Invece passi le giornate distraendoti con i videogiochi e con le follie del tuo amico, e ti allontani da me, da noi… e lo fai ora che mi avvicino ai trent’anni. Perdere ancora tempo per me non è più possibile! Io voglio una famiglia, tu che cazzo vuoi? Dillo".

    Non lo so…, dissi di getto, esasperato dalle sue accuse.

    È già una risposta per me!, sibilò lei sbattendo gli sportelli delle mensole.

    Con l’atmosfera sempre più pesante tra me e Silvia passarono due settimane di attesa. Canna non si era fatto sentire, svanito nel nulla, inghiottito da un alone di mistero. Il suo destino mi appariva confuso e frammentario, come il mio e come il Paese in cui si trovava. Poi, una mattina mi chiamò Carlo.

    Siamo stati al Ministero degli Esteri, due volte: la prima ci hanno tranquillizzato, spiegandoci che in Tailandia succede spesso per i turisti, soprattutto giovani, di andare fuori di testa per abuso di droghe. In quell’occasione ci hanno assicurato che avrebbero contattato l’ambasciata italiana a Bangkok per verificare eventuali segnalazioni a suo nome, nel caso fosse deceduto oppure degente in ospedale… o con problemi con la giustizia. Stamattina ci hanno dato il responso: anche a Bangkok, all’ambasciata, non ci sono fascicoli aperti su mio fratello. È una buona notizia, ma Marzia non si dà pace, è convinta gli sia accaduto qualcosa di grave. Alla SIP invece ci hanno liquidato in modo sbrigativo, dicendoci che se la telefonata è stata fatta a carico del destinatario è impossibile risalire al luogo preciso d’origine, a loro risulterebbe solo essere partita da Bangkok.

    E quindi? chiesi dopo qualche secondo di riflessione, ora si può dare inizio a ricerche ufficiali? Il Ministero ha già contattato il governo tailandese, le forze dell’ordine, messo foto segnaletiche su giornali e Tv locali?

    "Assolutamente no, alla Farnesina sostengono di non poter far niente, dobbiamo solo aspettare. Gli impiegati ci hanno detto che dopo sessanta giorni senza notizie si può richiedere alla polizia di Bangkok l’apertura di un’inchiesta. Però ci hanno tenuto a sottolineare che nessuno in quel Paese perderà il sonno per cercarlo, suggerendoci di andare di persona a vedere cosa sta combinando. Tra l’altro, ci hanno fatto pure una ramanzina per via del materiale giudiziario relativo a mio fratello. Poi, per nulla rassicurati dal fatto che da anni non erano stati avviati procedimenti a suo carico, ci hanno incolpato per averlo fatto partire nonostante la sua deplorevole condotta in Italia. Alla fine, ci hanno fatto chiaramente intendere quanto preferivano fregarsene di tipi come lui. Siamo andati via a capo chino, pieni di vergogna".

    E all’ambasciata tailandese che vi hanno detto?

    Di contattare il Ministero degli Esteri. Siamo soli Daniele, dobbiamo pensarci noi… Che casino...

    Allora tu o tua sorella dovete per forza partire!, lo pungolai sondando il terreno. Ma già sapevo la risposta, così come paventavo la successiva richiesta.

    Daniele, io lavoro, ho tre figli, non posso lasciare tutto… Marzia ha la bimba con problemi di salute, piccoli, per carità, ma che necessitano di attenzioni e cure. Poi noi non sappiamo parlare inglese… siamo ignoranti, ma dove andiamo? Adesso stiamo facendo una colletta tra i parenti per raccogliere un fondo cassa. Magari troviamo uno che decide di volare a Bangkok e vedere di persona come stanno le cose. Anche da parte tua, qualsiasi aiuto è benvoluto. Seppure, devo confessartelo, con Marzia speravamo che tu… vabbè lascia perdere... Seguirono alcuni secondi di silenzio, un silenzio che mi spingeva sempre più verso Oriente. Avevo già da tempo capito di essere io il profilo adatto, l’asso nella manica: amico di vecchia data, con una buona base culturale, con un inglese abbastanza fluente, senza figli, disoccupato; insomma, Carlo mi stava chiedendo molto più di una donazione. Mi aggrappai al loro codice d’onore.

    "Ma quelli della sua combriccola, i quaranta ladroni, l’hanno abbandonato tutti?" Lui accolse la mia domanda con uno sbuffo spazientito.

    Daniele, lasciamo perdere, la maggior parte di loro è al fresco, mentre dei pochi ancora a piede libero solo un paio si sono offerti di aiutarci economicamente, ma non possono viaggiare all’estero, sai, per via del passaporto. Tu ce l’hai? Mi sentivo con le spalle al muro, ma avvertivo un suono crescente di sirene che mi attirava verso l’ignoto.

    Carlo, se vado io, Silvia mi lascia… stavolta la perdo, dissi per allontanare l’inevitabile resa, rifugiandomi in quel territorio grigio che era il mio rapporto sentimentale, ben misero baluardo.

    Daniele, non so cosa dirti, siamo disperati. Puoi immaginare, mia sorella non dorme più, è isterica e piange di continuo. Dopo la morte di nostra madre, Marzia è diventata un punto di riferimento importante per lui.

    Fammici pensare, non posso prometterti niente ora!, esclamai riattaccando. Ma, in realtà, avevo deciso di partire già da prima. Avevo perfino versato all’agenzia un anticipo sul volo e l’indomani avrei ritirato il passaporto.

    Così, mentre Cossiga tuonava e picconava e la Roma perdeva la prima finale di coppa UEFA, io mi preparavo a stravolgere la mia vita. Quella sera non riuscivo neanche a guardare Silvia negli occhi quando la misi al corrente della mia capitolazione.

    Non posso voltargli le spalle e andare avanti come se niente fosse. Devo riportarlo a casa. Tra pochi giorni ho l’aereo, dichiarai, cercando di razionalizzare quella decisione che sembrava più il frutto di un’insana follia. Rimasi a fissare il piatto vuoto mentre lei era intenta a riordinare la cucina. Il rumore di utensili sbattuti con rabbia fu per qualche secondo il solo termometro della sua reazione.

    Quanto starai via?, mi chiese poi con voce dura. Risposi con una scrollata di spalle, non lo sapevo, avevo fatto il biglietto con il ritorno aperto.

    Ascolta, è una cosa che devo fare, dissi per rincuorarla, non vederla in un altro modo, non ha nessun significato per il nostro rapporto. Anzi, magari questa lontananza potrebbe addirittura giovarci… Lei era lì a due passi da me, eppure sentivo che le mie parole non potevano raggiungerla, inghiottite una a una nel vuoto della voragine che si era creata tra noi.

    Silvia mi rivolse uno sguardo pieno di dolore e sdegno.

    Daniele, hai detto bene, non ha nessun significato per noi… a volte sai cosa penso?, mi domandò con le lacrime agli occhi. Ma più che tristezza coglievo tensione nella sua voce. Reagii con una mimica interrogativa e allora lei mi parlò con irruenza: che ci siamo messi insieme più per convenienza che per amore, io per ribellarmi al controllo dei miei genitori e tu per sfuggire ai predicozzi di tuo padre… Ci siamo aiutati ad andarcene di casa, a toglierci dai piedi, ma ora dovrò ricominciare tutto daccapo… Poi, dopo aver gettato teatralmente il grembiule a terra, corse a rintanarsi in camera, dove si mise a parlare al telefono con la madre. Più tardi, ne uscì trascinandosi dietro una pesante valigia.

    Prenderò le ultime cose quando tu non ci sarai!, esclamò dirigendosi verso la porta.

    Quella notte faticai ad addormentarmi, mi accompagnai con una bottiglia di rosso in pensieri altalenanti sulla mia relazione con Silvia. Provavo dispiacere per la conclusione di una lunga storia, pena per aver provocato in lei tanta sofferenza e, poi, forse a causa dell’eccitazione per l’imminente viaggio, venni pervaso da un istintivo senso di colpa, perché alla fine avevo accolto il ritorno alla libertà con sorprendente sollievo. Probabilmente era la meta esotica a creare quello stato d’animo. Mi chiesi se partissi veramente per Canna – nonostante tutto, non ero poi così preoccupato, ero ancora propenso ad abbracciare l’ipotesi cotto dalle droghe piuttosto che quella dei mafiosi cattivi – oppure se quel viaggio fosse solamente il pretesto, che evidentemente nel mio inconscio attendevo da tempo, per porre fine a

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