La casa di Maran
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Anteprima del libro
La casa di Maran - Saverio Pelosini
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IL JUB-JUB
La pioggia picchiettava sulle grandi foglie del banano, rimbalzava sugli ibiscus fioriti e sul flamboyant, il mare increspato era di sottofondo al piacevole concerto quella notte d’agosto sulla Grand Anse.
Laura gustava il temporale sorseggiando il caffè appena fatto, seduta sulla veranda del suo chalet in affitto sulla splendida spiaggia di Grenada.
I lampi che squarciavano il cielo la rilassavano fin da bambina, quando, pensierosa, era affascinata dal temporale e nel rumore del tuono si perdeva e si isolava dalle grida dei suoi genitori che litigavano.
Lo stormire delle foglie nella brezza notturna le impedirono di sentire il fruscio dell’ombra che scivolava sulle piante, dietro la sua poltrona, e guadagnava il piccolo soggiorno dove la luce fioca della lampada faceva scorgere il divano con i cuscini a strisce bianche e blu in perfetto stile marinaro. La piccola cucina, rigorosamente bianca, era impregnata ancora dell’aroma di caffè italiano che la sua amica Gianna puntualmente ogni due mesi le inviava dall’Italia.
Uno scricchiolio del parquet la fece sussultare. Si alzò di scatto e, trepidante, si ritrovò senza neppure accorgersene nel soggiorno; non fece in tempo a schivare il fendente della lama che come una saetta squarciava il suo petto. Prima che il bruciore s’irradiasse e il sangue caldo intridesse il caftano di lino turchese, furono i suoi occhi a percepire la paura. Un brivido, come una frustata, la percorse, e improvvisamente si sentì perduta. Quello sguardo vuoto e senza luce fu l’unica cosa che s’impresse nella mente; poi più niente.
Mi ero svegliato presto, avevo dormito sei ore di continuo, una doccia tiepida era stata sufficiente a cancellare i segni della
stanchezza del viaggio, mentre l’odore del pane in cassetta si sprigionava dal forno. Mi versai del caffè nero nella tazza di coccio verde smeraldo che porto sempre con me quando viaggio, un cordone ombelicale che mi fa sentire sempre a casa, una delle piccole manie che danno sicurezza e che ricordano la famiglia che non ho più. Spalmai con cura il burro hanchor, il mio preferito, e la marmellata di noce moscata sulle fette di pane caldo e mi sedetti al tavolino sul terrazzo con il mare davanti. Mi sentivo bene, in forma, come non lo ero da un pezzo. Una vacanza era quello che ci voleva e Grenada si era rivelata una meta ideale.
La scelta era stata curiosa, ero rimasto affascinato da alcune descrizioni dell’isola fatte dal grande Larsson nella sua trilogia.
Stavo fuggendo? Me l’ero chiesto ripetutamente e ripetutamente mi rispondevo di no. Ma la verità era un’altra, stavo fuggendo e sapevo anche da cosa. Il mio rapporto con Linda era finito, dire che eravamo come due fratelli era un eufemismo; condividevamo la stessa casa senza emozioni, senza parole, senza risate, e quel che era peggio senza scontri e senza sesso. Non avevamo avuto figli, a me non mancava affatto una prole urlante ed esigente, a volte penso di essere un cinico dal cuore tenero. Linda invece aveva sviluppato un senso materno che purtroppo riversava su di me. Avevamo fallito, e me ne stavo pian piano facendo una ragione. Per questo fuggivo, forse con l’illusione di ricominciare, di dare una svolta alla mia vita.
Volevo correre, fare jogging sulla spiaggia. Mi sembrava una buona cosa per ricominciare, io così pigro, così restio a fare sport, benché continuassi a iscrivermi e a pagare costose rette presso palestre alla moda frequentate da giovani fisicati che non sapevano parlare d’altro che di aminoacidi ramificati e diete iperproteiche, sperimentando integratori dai nomi impossibili che anti-ossidava-no e bruciavano grassi miracolosamente.
A volte spiavo i loro discorsi per cercare di carpire segreti che d’un tratto facessero sparire la mia pancetta da quarantenne ben tenuto. Linda mi gratificava appena poteva, scorgendo il mio corpo nudo uscito dalla doccia tonico, abbastanza armonioso, lievemente appesantito nella zona dell’addome, innamorata dei miei glutei; lei, che era veramente una bella donna di trentasei anni, bionda con una mascella squadrata, nordica al punto giusto e due occhi azzurri come il mare di Grenada, in cui un tempo mi ero perduto. Il suo corpo ancora faceva sognare ventenni disinvolti che se la mangiavano con gli occhi, quando spavalda e sicura al mio fianco, nel suo tailleur color cachi, camminando, modulava i passi come al ritmo di una danza sensuale.
L’aria fresca della mattina e il rumore della risacca erano certo invitanti, per non dire quello che i miei occhi scorgevano.
Colline rocciose d’origine vulcanica coperte da una vegetazione lussureggiante, banani, palme, piante di cacao e noce moscata, mango, papaya e alberi del pane, carichi di frutti e calabash a non finire, ondeggiavano al vento creando un’ ola di molteplici sfumature di verde.
Spice Island era meravigliosa. Le mie Nike affondavano nella sabbia a velocità crescente, il respiro veloce si faceva più superficiale, la fronte già imperlata di goccioline di sudore e la canotta militare che si stava impregnando mi davano una forza incredibile. Alternavo l’andatura facendo degli affondi per fortificare quadricipiti e glutei, riprendevo a correre, mi fermavo ansimando. Non ero allenato. Sulla Grand Anse non c’era nessuno, solo i camerieri della Spice Isle Resort apparecchiavano i tavoli per il breakfast; un andirivieni di livree bianche e scintillio di bottoni dorati, bricchi d’argento e vassoi di frutta tropicale sistemati in bella vista con l’odore del caffè che arrivava fino alla spiaggia.
Il turismo qui è discreto, elitario, selezionato. Arrivano personaggi del jet-set internazionale, attori di Hollywood, industriali, armatori, star della musica, miti dell’arte, ospitati in relais, dove le stelle non si contano più o risiedono in ville immerse nella vegetazione che spaziano dallo stile spagnoleggiante a quello orientale, con tetti a pagoda di legni pregiatissimi, inattaccabili dagli insetti, corredate da piscine a sfioro con tanto di cascate o Jacuzzi dove possono concedersi il lusso di gustare un Virgin Mojito al tramonto scommettendo se è la serata giusta per cogliere il green flash, magari testando la sincronia perfetta del sole che scompare nel mare nello stesso istante in cui Maria Callas emette l’ultima nota di Casta Diva.
«Good morning!» accennai un saluto con la mano alla piccola che mi si parò davanti.
Lei non ricambiò. Mi resi subito conto che non era capace di emettere un suono, con i suoi occhi neri grandi e fissi. Era irretita dal terrore, sotto shock. L’abbracciai, non si mosse e subito il mio sguardo andò allo chalet da cui sembrava essere uscita. Raggiunsi la veranda, una tazza di caffè freddo sul tavolo, la porta spalancata, il ronzio delle mosche. Entrai, i peli delle braccia si drizzarono improvvisamente, fui avvolto da un odore acre e dolciastro di sangue, quello che vedevo era agghiacciante. Un corpo di donna nuda giaceva a terra, i capelli erano incollati al pavimento per il sangue rappreso; feci, urina e sangue ancora ovunque. Le gambe erano divaricate, le braccia, le mani... oddio!
Uno straccio rosso e turchese avvolgeva gli arti smembrati a un metro di distanza. I conati di vomito mi impedirono di vedere oltre, né altro. Le mosche ronzavano intorno a me, le mie scarpe appiccicate al pavimento m’impedivano di muovermi. Traballando, guadagnai l’uscita, soffocavo in cerca d’aria, gli occhi fuori dalle orbite lacrimavano spontaneamente, irrefrenabili. Non riuscivo a urlare, mi lasciai andare sulla riva, a un passo dall’acqua. Un pensiero cosciente: la bambina era scomparsa, dileguata.
Una donna sopra di me, corpulenta, scalza: «Coraggio, signore.
Ha bisogno d’aiuto?»
La voce era dolce, premurosa, tranquillizzante.
Provai a respirare profondamente, misi a fuoco il suo viso.
Aveva i capelli raccolti, ornati con fiori di frangipane, ne riconobbi il profumo e provai un senso di sollievo.
«Hanno ucciso una donna, c’è un cadavere!» dissi concitato in un inglese insicuro.
«Dio, perdonaci... Aiuto, Polizia!» corse via, lasciandomi solo.
In un battibaleno fui attorniato da una piccola folla di cameriere del Resort vicino. Uomini che preparavano con colpi decisi di straccio le sdraio da affittare ai turisti e venditori che allestivano i banchetti delle bibite. Chi mi guardava diffidente, ipotizzando la mia provenienza visto il colore della pelle, chi preoccupato cercava di rialzarmi, chi mi porgeva dell’acqua da bere; io confuso ringraziavo con sguardo assente, avrei voluto darmela a gambe ma prevalse la ragione e mi sedetti sconfortato ad aspettare l’arrivo della Polizia.
David Coutain, detective della omicidi di Saint George’s, era un uomo sulla quarantina, alto più di un metro e ottanta, atletico, rasato, due occhi grigio verde magnetici, penetranti, abito grigio di buona fattura. Camicia a righe blu, mocassino color cuoio made in Italy, mi fece sedere sulla veranda.
«Di cosa si occupa, Signor Lelli?»
«Sono un medico specialista paradontologo» ostentando una sicurezza che proprio in quel momento non avevo.
«Cerchi di essere più chiaro!» diretto, mister occhi grigio verde.
«La parodontologia si occupa delle patologie che interessano le gengive, l’osso, e tutte le strutture di collegamento tra il dente e l’alveolo.» Un nodo mi serrava la gola. «Sono insegnante universitario ed esercito anche la libera professione nel mio studio privato in Italia» stavo ritrovando un po’ di calma.
«È a Grenada per studio?»
«In vacanza» risposi, pensando come potesse essere definita tale ormai, vista l’ironia della sorte. «Ho affittato uno chalet sulla Grand Anse, avevo deciso di correre un po’, e mi sono imbattuto in questa...» non trovavo le parole per definire la situazione.
Mi passai le mani tra i capelli per asciugare il sudore che mi bagnava la fronte, riferii della bambina che era scomparsa e dell’orrore che avevo visto, consegnai il passaporto che portavo con me nella tasca portadocumenti.
«Rimanga a disposizione, Mr. Lelli, e si presenti domani mattina al dipartimento alle nove.» Mi allungò il biglietto da visita dov’erano evidenziati il suo nome, la qualifica e il numero di un cellulare. Detto ciò rientrò nella casa, mentre altri due poliziotti in divisa, cappello, camicia azzurra, su cui spiccava una targhetta in metallo con un numero, pantaloni blu a bande rosse, anfibi neri lucidissimi, stavano sistemando il tipico nastro per delimitare la crime zone.
Gli echi della soca assordante dalla carenage arrivavano in Grand Anse.
A Grenada impazzava il carnevale. La folla gremiva la strada lungo la lagoon che fiancheggia e continua sulla carenage; era composta da uomini e donne, per lo più giovani, seminudi, il corpo cosparso di vernici d’argento, d’oro e turchese, o pennellati di rosso carminio, verde smeraldo o, ancora, sorprendentemente cosparsi di olio nero recuperato dai motori, che lasciava liberi solo gli occhi; i corpi scintillavano sotto il sole cocente, i muscoli guizzanti e le caratteristiche anatomiche erano oltremodo evidenziate.
Procedevano con ritmo sabbatico mimando atti sessuali.
Copricapo con enormi corna a mo’ di cimiero tribale si muovevamo a migliaia in un unico afflato, fendendo l’aria umida, densa per la polvere e acre per il sudore al ritmo della soca, sottolineato dallo stridore delle catene che imprigionavano i corpi, o che i corpi trascinavano ricordando il peso, il dolore e l’emarginazione della schiavitù.
Mi immersi nel corteo per esserne fagocitato, per essere posseduto, per annichilirmi e perdermi nel ritmo ossessivo, distruttivo, ripetitivo, carico di reminescenze ancestrali che estraniano dalla realtà, ma che dalla realtà nascono. Stordito dalla musica assordante, dal movimento parossistico, dagli odori dei corpi accaldati, dai colori, dalla polvere che rendeva l’aria irrespirabile, come ubriaco, ripensavo a quello che avevo visto in modo più distaccato. Cercavo di ricordare dei particolari che avevo incamerato inconsciamente, ma che non riuscivo a mettere a fuoco.
In quel vortice di musica assordante, di corpi, di colori, di stridore delle catene, con le urla e il tam tam dei bidoni colpiti violentemente dai bastoni di legno, ero trascinato nell’occhio di un ciclone, pressato e spinto con la paura d’essere calpestato e annientato.
Sentivo l’odore dell’alcool emesso dai respiri ansimanti, il sudore delle membra che sfregandomi inzuppava i miei vestiti, non distinguevo le facce che velocemente roteando cambiavano in un folle girotondo mostrando i denti con risate invasate, o la lingua che si muoveva e ondeggiava demoniaca davanti agli occhi fino a leccarmi il volto. Le mani le sentivo ovunque untuose, bagnate, che mi cercavano e prendevano le mie guidandomi. La mia testa girava ora da un lato ora dall’altro, senz’opporre resistenza. Non mi resi conto che mi stavo spostando involontariamente, spinto da quella forza incontrollabile verso vicoli più stretti e laterali.
Dai terrazzi stracolmi, il movimento dei corpi e le urla facevano eco a quelle della strada, vedevo le braccia agitarsi a migliaia, inneggianti, rivolte in direzione di un punto, uno slargo dove si stava concentrando un gran numero di persone, o meglio di corpi, verso cui la folla mi stava portando. Non dovevo fare fatica, o farmi spazio per arrivare a vedere, sembrava quasi che mi aspettassero e favorissero la mia andatura, come se qualcuno mi aprisse la strada e al mio arrivo i corpi si scostassero e il passo fosse più leggero; tra le grida incitanti, vedevo gli occhi che strabuzzavano e le mani che mi guidavano, le bocche che urlavano parole per me incomprensibili: « Jab-jab».
Ero spaventato, ansimavo preso da quel ritmo impressionante ma attratto, inebriato. Il mio corpo andava dove la mente non avrebbe voluto, anzi percepivo i segnali del pericolo, quelle urla e la cantilena ossessiva, che si levava dalla folla.
Ora riuscivo a discernere le frasi scandite al ritmo dei tamburi...
Il porco deve soffrire,
il porco deve morire,
alla luna nera deve inneggiare.
Il porco deve soffrire,
il porco deve morire,
la luna nera non lo può salvare.
Le gambe continuarono ad avanzare fino alla visione tremenda, mostruosa. Al centro di un cerchio, un corpo di uomo cosparso di un unguento nero, lucido, danzava come in una taranta contorcendosi, con spasmi e balzi in aria, oppure rotolandosi sull’asfalto putrido, incitato dai presenti che, con le braccia tese, i muscoli del collo contratti per lo sforzo e gli occhi fuori dalle orbite, urlavano ripetendo all’unisono quel ritornello di dolore.
Il porco deve soffrire,
il porco deve morire,
alla luna nera deve inneggiare.
Il porco deve soffrire, il porco deve morire,
la luna nera non lo può salvare.
Più di tutto era la testa del mostro degna d’attenzione, non era umana. Era la testa di un maiale da poco decapitato e grondante ancora del sangue che, gocciolando, dava origine a mille rivoli lungo il corpo di quel forsennato, riversandosi sull’asfalto. La visione cruda di quella scena e l’odore acre che si