Oreste
Di Euripide e Ettore Romagnoli
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Traduzione di Ettore Romagnoli.
Edizione integrale dotata di indice navigabile.
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Anteprima del libro
Oreste - Euripide
ORESTE
Euripide
Traduzione dal Greco di Ettore Romagnoli
Prima edizione 2018
© Sinapsi Editore
PERSONAGGI:
Oreste
Elèttra
Elena
Menelào
Tíndaro
Pílade
Ermióne
Apollo
Araldo
Schiavo frigio
Coro di donne argive
L'azione si svolge dinanzi alla reggia d'Argo.
Elèttra:
Niuna parola v'è tanto terribile,
nessuna traversía, nessuna doglia
suscitata dai Numi, onde non debba
reggere il peso la natura umana.
Tantalo infatti, il fortunato - oltraggio
non faccio al suo tristo destino - il figlio,
come dicon, di Giove, in aria sta
sempre sospeso, e temer deve il sasso
che gli pende sul capo, e questa pena
sconta, dicon, perché della celeste
mensa, ei mortale, ebbe l'onore, e freno
alla lingua non pose: vizio turpe
quanto altro mai. Costui generò Pèlope,
e da Pèlope Atreo nacque, per cui
la Parca, quando gli tessea lo stame,
la discordia filò, ché con Tieste
venisse a lotta, col fratello suo.
Ma che vo' questi orrori enumerando?
Gli uccise i figli, e a banchettare Atrèo
l'invitò. Poi d'Atrèo - quanto seguí
non dico - nacque il celebre Agamènnone,
se celebre esso è pur, Menelào nacque:
èrope la cretese a lor fu madre.
E Menelào sposò la donna, invisa
ai Numi, Elena; e il principe Agamènnone,
di Clitemnèstra il talamo, famoso
fra gli Ellèni, salí: qui tre fanciulle,
Ifigenía, Crisòtemi, ed Elèttra,
che sono io stessa, ed un fanciullo, Oreste,
nacquero a lui da quella sposa empissima,
che nei lacci di rete inestricabile
poi lo cinse e l'uccise; e per qual causa,
dire a fanciulla non conviene: oscuro
lascio tal punto, ad altri che l'indaghino.
Or, d'ingiustizia incriminare Febo
lecito è forse? A uccidere la madre
onde pur nacque, Oreste egli convinse:
opra a cui tutti dar lode non possono.
Pure al Nume ubbidí, morte le inflisse.
Ed io partecipai, quanto una donna
potea, la strage; e Pílade con noi
compié lo scempio. Ma dal morbo oppresso
Oreste ora è, consunto; e sopra il letto
piombato, giace: e della madre il sangue
col delirio lo incalza: il nome esprimere
delle Dive benigne onde atterrato
fu nella lotta, non ardisco. Il sesto
giorno questo è, da che la madre spenta
purificata fu sul fuoco; e cibo
non passò per le sue fauci, lavacro
il corpo suo piú non toccò. Ravvolto
nel suo mantello, allor che tregua ha il male,
in senno torna, e piange, e dalle coltri
talor s'avventa, in furïosi giri,
come puledro libero dal giogo.
Ed Argo, dove siamo, ha decretato
che niuno in casa sua, che niuno all'are
noi matricidi accolga, o ci favelli.
E il giorno è questo designato, in cui
Argo dovrà deliberar se spenti
cader dovremo sotto i sassi, o infiggerci
di nostra mano l'affilata spada
dentro la gola. Un'unica speranza
di non morir ci resta: è giunto in questa
terra, da Troia, Menelào: nel porto
di Nauplia venne la sua flotta, approdo
fece a quei lidi, dopo un lungo errare
per i flutti del mare. E mandò Elena
calamitosa, in casa nostra, l'ore
della notte cogliendo, affinché i figli
di quei che cadder sotto Ilio, vedendola
per via di giorno, non la lapidassero.
Ed in casa ora ella è, che la sorella
e la sciagura della stirpe lagrima.
Eppur, qualche sollievo ha dei suoi mali,
ché la fanciulla che lasciò, quand'ella
a Troia s'involò, che Menelào
da Sparta ad Argo addusse, e l'affidò,
per educarla, alla mia madre, Ermíone,
l'ha qui trovata, e se ne allegra, e i mali
pone in oblio. Verso ogni strada or guardo,
cerco se giunge Menelào: ché deboli
le nostre forze son troppo, qualora
ei non ci salvi. Manca ad una casa
colpita da sciagura, ogni sostegno.
(Dalla reggia esce Elena)
ELENA:
Figlia di Clitemnèstra e d'Agamènnone,
tu che da tanto sei fanciulla, Elèttra,
come, o infelice, matricida Oreste
sciagurato con te divenne? Macchia
se teco io parlo, non mi tocca, quando
spetta la colpa a Febo. E intanto, piango
di Clitemnestra, della suora mia
la trista sorte: ch'io, dal dí che a Troia
navigai, come navigai, sospinta
da celeste follía, piú non la vidi,
e, privata di lei, piango il suo fato.
Elèttra:
Elena, a che dovrei pur dirti quello
che da te vedi, in che sciagure sono
d'Agamènnone i figli? Io seggo qui,
custode insonne a questo morto misero:
ché morto e già, tanto n'è lieve l'alito:
non