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Ifigenia in Aulide
Ifigenia in Aulide
Ifigenia in Aulide
E-book82 pagine46 minuti

Ifigenia in Aulide

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Info su questo ebook

Nel 431 a.C., anno in cui scoppia la guerra tra Atene e Sparta, Euripide inaugura sulla scena una sorta di "ciclo troiano", aperto da Filottete e chiuso con Ifigenia in Aulide, rappresentata postuma al vittorioso agone dionisiaco del 405. Il tema che attraversa la tragedia è quello della guerra, di cui l'assedio di Troia costituisce il mitico archetipo. Nell'Ifigenia Euripide inscena l'avvio della guerra, sembra darle una prospettiva di leggittimità come "la guerra giusta" dei Greci contro i barbari Troiani. In realtà la spedizione è insidiata da un intrinseca negatività, che vede da un lato i capi mossi da personali interessi e dall'altra la massa dei soldati, dominata da un violento desiderio di guerra.
Traduzione di Ettore Romagnoli.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2018
ISBN9788829544332
Ifigenia in Aulide

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    Ifigenia in Aulide - Euripide

    IFIGENIA IN AULIDE

    Euripide

    Traduzione dal Greco di Ettore Romagnoli

    Prima edizione 2018

    © Sinapsi Editore

    PERSONAGGI:

    Agamennone

    Vecchio servo

    Menelào

    Clitemnèstra

    Ifigenía

    Achille

    Araldo

    Coro

    La scena rappresenta il campo degli Achei in àulide.

    (Agamennone esce dalla tenda, e chiama un vecchio servo)

    Agamennone:

      O vecchio, vien qui, presso questo

      padiglione.

    VECCHIO:

      Son qui. Che novelli

      pensieri, Agamennone, volgi?

    Agamennone:

      T'affretti?

    VECCHIO:

      M'affretto. è la mia

      tarda età molto insonne, e ben lieve

      sui cigli mi pesa.

    Agamennone:

      Che stella

      è quella che in cielo veleggia?

    VECCHIO:

      è Sirio, che, presso alla Plèiade

      settemplice, in mezzo alla volta

      del cielo, s'affretta.

    Agamennone:

      Non s'ode né voce d'uccello

      né d'onde sciacquío. Su l'Eurípo

      i venti son muti.

    VECCHIO:

      Agamennone re, perché mai

      venuto sei fuor della tenda?

      In àulide tutto è tranquillo:

      immote son tutte le scolte.

      Rientriamo.

    Agamennone:

      Felice ti reputo,

      o vecchio, ed invidio quell'uomo

      che senza pericoli, ignoto,

      senza fama, trascorre la vita.

      Men felice mi sembra chi vive

      tra gli onori.

    VECCHIO:

      Ma pur, negli onori,

      della vita consiste il decoro.

    Agamennone:

      è fallace decoro; e il potere,

      sebben dolce, ad averlo t'accora.

      Uno sbaglio talor verso i Numi

      la tua vita sconvolge; talora

      la cruccian gli umori

      degli uomini, tristi e discordi.

    VECCHIO:

      Non son queste le cose, Agamennone,

      che ai príncipi invidio; ed Atrèo

      non ti diede la vita perché

      tu soltanto godessi; ma devi

      provare piaceri e dolori,

      ché tu sei mortale;

      e, voglia o non voglia, dei Numi

      è tale il volere.

      (Agamennone accende una lampada e si mette a scrivere

      su una tavoletta)

      Che fai?

      Accendi la lampada, e in quella

      tavoletta che teco hai recata,

      tu scrivi, e lo scritto

      cancelli e sigilli, e di nuovo

      riapri, ed a terra lo gitti,

      e quante stranezze commettono

      i folli, commetti.

      Che pena t'angustia, che nuova

      sciagura, Signore? Su, via,

      partecipe fammene, parla.

      Onesto, a te fido sono io:

      ché Tindaro un giorno mi diede,

      fra i doni di nozze, alla tua

      consorte, compagno

      fedele alla sposa.

    Agamennone:

      Leda, figlia di Testio, ebbe tre figlie:

    Clitemnèstra, mia sposa, Febe, ed Elena.

      A richieder costei, si presentarono

      quanti contava piú prestanti giovani

      l'Ellade tutta; e qui minacce sursero

      fra lor di morte, ché nessun voleva

      privo restar della fanciulla. E Tíndaro

      in imbarazzo grande era, se cederla

      convenisse, oppur no, per conseguirne

      maggior vantaggio; e questa idea gli venne:

      che tutti quanti i giovani prestassero,

      stringendosi le mani, e confermassero

      con libagioni e imprecazioni, un giuro

      che tutti l'uomo a cui movesse sposa

      di Tíndaro la figlia, aiuterebbero,

      se mai qualcun glie la rapisse, e in bando

      lui mandasse dal letto; e moverebbero

      a campo, e la città distruggerebbero,

      con l'armi, ellèna fosse, o fosse barbara.

      E poi ch'ebber giurato, e il vecchio Tíndaro

      accortamente con la fine astuzia

      li ebbe ingannati, disse alla sua figlia

      che fra i rivali ella scegliesse quello

      a cui piú d'Afrodite la spingessero

    l'aure dilette. Ed ella scelse, oh, fatto

      mai non l'avesse! Menelào: ché poi,

      dalla terra dei Frigi a Lacedèmone

      quell'uomo giunse che alle Dee fu giudice,

      come n'è fama tra gli Argivi; e un fiore

    parea nelle sue vesti, e d'oro fulgido

      con barbarica pompa, e innamorato

    rapí l'innamorata Elena, e ai campi

      d'Ida l'addusse. E Menelào non c'era.

      Ma come ritornò, furente corse

      l'Ellade tutta, e i giuramenti a Tíndaro

      un giorno fatti ricordò: che aiuto

      convien prestare a chi patí sopruso.

      E alla guerra correndo, allora gli Elleni

      impugnarono l'armi, e in questo d'àulide

      angusto passo vennero, di navi,

      di scudi armati, di cavalli e cocchi.

      E duce me, perché di Menelào

      ero fratello, elessero. Deh, fosse

      toccato ad altri un tanto onor! Ché tutte

      son raccolte le genti, e noi qui stiamo,

      e non possiamo navigare, in àulide.

      E Calcante, indovino, a cui rivolti

      nella distretta ci eravamo, tale

      responso diede: che alla Diva Artèmide

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