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Marta che andò in montagna
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E-book216 pagine2 ore

Marta che andò in montagna

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Info su questo ebook

Giugno 1944: qualcuno doveva andarci. E toccava a lei.

Maggio 1945: undici mesi che valevano undici anni.

Nel mezzo, vita, miracoli e morte nella 36° Brigata Garibaldi.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2018
ISBN9788827854532
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    Anteprima del libro

    Marta che andò in montagna - Gabriele Montanari

    Garibaldi

    1. Quando Marta partì

    Tocca a me andarci. E ci vado domani.

    Perché tu? Troviamo qualcun altro. C’è da lasciarci la pelle.

    "Appunto, babbo. A chi lo chiedo? A te, con quel braccio? E Gigino, chi lo bada? Tu sei suo padre e sua madre. Io solo sua sorella. E poi non farla troppo difficile: ho un contatto, vado su, lo trovo, glielo dico e torno giù.

    Tre, quattro giorni. Massimo una settimana e sono qua".

    E al lavoro? Che gli dici?

    Lunedì tu vai alla Polveriera e dici che ho quaranta di febbre. Parli con la signorina Tozzi dell’Amministrazione e nessuno viene a controllare. Ho già sistemato tutto.

    Ma scusa, Marta, non basta un biglietto? Un messaggio, una busta? Devi proprio andare su, non si sa dove? Rischiando la pelle? Questo contatto… chi sarebbe? Se è uno fidato, dagli il messaggio in una busta e che lo consegni lui. Posso anche dargli qualche biglietto da cento lire.

    No, babbo. I soldi non servono. E poi lassù ci sono molti uomini, dicono alcune centinaia. Hanno cambiato nome e hanno cambiato faccia. Il mio Armando è su da più di due mesi, non è più il giovanotto che era. Adesso è un bandito, un ribelle, un guerriero partigiano.

    Sempre se non è già morto. – Lauro Simoni aveva cinquant’anni, un braccio in meno causa infortunio sul lavoro, corporatura massiccia e statura media. Capelli e occhi grigi, grosse rughe gli segnavano la fronte – Ho letto sul Carlino che tra Monte Armato e Monte Cerere i tedeschi hanno fatto tre rastrellamenti. E che i ribelli sono stati sgominati.

    Babbo, il Carlino racconta balle.

    Lo so.

    Dunque, domani mattina vado a Mercatale in bicicletta. La lascio in parrocchia e aspetto il contatto. Vado su dove mi portano, trovo Armando e glielo dico.

    E lui? Che cosa dirà lui? Ci hai pensato?

    Dirà quel che vuole. Io sono incinta e lui è il padre. Se vuol tornare giù con me, ho i documenti pronti: assunto alla Polveriera come avventizio. Se vuol restare su a far la guerra ai nazifascisti, gli dirò che è un matto. Ma che lo rispetto.

    Il bambino nascerà orfano, me lo sento. - Lauro Simoni scosse la testa e diede uno sguardo fuori dalla finestra della piccola Stazione Ferroviaria di Varignana. Nessun treno era all’orizzonte verso est. Il merci delle dieci e quaranta non sarebbe passato, causa possibili bombardamenti – Vado a tirar giù le sbarre.

    Babbo, non c’è nessun treno. Allora? Per domani?

    Vai pure. Io resto qua con Gigino. Torna presto.

    Il sagrestano di Mercatale era un vecchietto piegato in avanti e con una leggera gobba dalla parte sinistra della schiena: pipa sempre in bocca e occhi spiritati. Nella buia sagrestia scrutava i due ragazzotti che giocavano a briscola a cavalcioni su una panca per ingannare l’attesa. E la ragazza che gli aveva affidato la bici da custodire e che se ne stava in piedi in un angolo.

    Quanto la lasci la bici? Tutt’oggi? Fanno dieci lire.

    No, tre giorni, quattro. Forse una settimana. Vado su, con l’amico Fritz.

    L’ometto scosse la testa, le si avvicinò e le parlò in un orecchio:

    Come lo sai che oggi viene l’amico Fritz?

    Lo so, me l’hanno detto. Il mio moroso è su. Devo dirgli una cosa.

    Non sono mica sicuro che l’amico Fritz ti porterà su. Sei la prima ragazza che lo cerca. Le ragazze in montagna sono un impiccio. Su non cercano mica i funghi o le fragoline, ve’. Lo sai cosa fanno su?

    Lo so, lo so. Ma voglio andarci. Devo dire una cosa importante al mio moroso poi me ne torno giù, riprendo la bici e torno a casa. Abito a Varignana con mio padre e mio fratello.

    Il sagrestano annuì. Non era molto convinto. Spostò la pipa all’altro lato della bocca e si rivolse ai due giovanotti che giocavano a carte:

    Ragazuoli, non avrete mica delle armi, voi due? Don Ferri non vuole che le armi entrino nella casa del Signore. Sagrestia compresa.

    Non abbiamo niente. – rispose uno – Solo un mazzo di carte.

    E da mangiare? – continuò il vecchietto – Avete da mangiare? Su non c’è mica una trattoria, ve’.

    I due ragazzi scossero la testa.

    Io ho una pagnotta grande e mezzo salamino. Facciamo da bravi fratelli, disse Marta indicando la sua tracolla.

    La porta che dava sull’esterno si aprì ed apparve un uomo. Sguardo torvo, barba lunga, nera e ispida, scarponi pesanti, pantaloni corti, una giacca mimetica, uno zaino vuoto e un grosso revolver spianato.

    Siete qua per l’amico Fritz?, domandò sottovoce.

    I due ragazzi annuirono.

    Anch’io. – disse Marta – Devo trovare il mio moroso che….

    Stai muta. Cicci, perquisisci i ragazzi.

    Il sagrestano eseguì. Poi fece segno che tutto era a posto. L’uomo armato si mise davanti a Marta senza abbassare il revolver che quasi le toccava il seno. La squadrò da capo a piedi con aria dubbiosa.

    Che ci fai qua, cinna? Apri quella borsa. – ordinò, poi ci mise una mano dentro. Estrasse un borsellino di pelle nera – Che c’è qua dentro?

    Documenti e qualche soldo.

    Adesso alza le mani e stai ferma: ti perquisisco. Hai un’arma addosso?

    Marta fece cenno di no ed alzò le braccia. L’uomo la perquisì con cura, usando una sola mano.

    Signorina lo sai che cosa facciamo su? – si infilò l’arma nella cintura - Perché vuoi salire? Sei la prima femmina che vuole venire su. Non so se i capoccia ti vorranno.

    Devo trovare il mio moroso, Armando. Devo dirgli che sono incinta. Lo conosce Armando Checchi? È venuto in montagna due mesi fa. Proprio da qua, da Mercatale. Un ragazzo moro con dei ricci….

    Oh, bella, in tre mesi ne avrò portati su almeno duecento, di ragazzi. Con e senza ricci. Qualcuno è già tornato dalla mamma, qualcuno già ci ha lasciato la pelle. Sei sicura di quello che fai?

    Sicurissima. Lo trovo, gli spiego la faccenda e poi torno giù. Con lui, se vuole venire. Gli ho trovato dei documenti e un lavoro.

    "Affari vostri. Io ti porto su, poi t’arrangi. Se i capoccia non ti vogliono, te ne torni giù da sola, chiaro? – si sfilò dalle spalle lo zaino vuoto e si rivolse al sagrestano – Cicci, hai qualcosa per me?

    Sigarette e fiammiferi.

    Meglio di niente. Riempi che tra dieci minuti partiamo. Gioventù, si sale muti come pesci, abbiamo tre ore da scarpinare.

    Arrivarono a un ovile male in arnese quando il sole stava tramontando, accolti dai latrati di due grossi cani bianchi di incerta razza: minacciosi con i nuovi arrivati e affettuosissimi con l’amico Fritz. Fuori dall’ovile, in un recinto semiaperto, più di trenta pecore se ne stavano immobili, mute e raggruppate pancia a terra.

    Bravi cagnoni, bel lavoro. – commentò il pastore mentre sistemava due tronchi per chiudere il recinto. Poi si rivolse ai tre giovani – Mettetevi comodi e mangiate. Aspettiamo qualcuno. In casa c’è dell’acqua.

    Mentre i tre si dividevano il pane e il mezzo salamino attorno a un grezzo

    tavolo, l’amico Fritz entrò seguito da un uomo. Alto, magro, con la faccia cotta dal sole, capelli rasati a zero, occhi saettanti, voce baritonale e un moschetto alla spalla.

    Cos’è ‘sta novità? Una ragazzina? Che l’hai portata a fare?

    Non sono una ragazzina. Sono una donna e sono anche incinta. – Marta si alzò in piedi e si carezzò il ventre  – Devo trovare il padre di questo qua: si chiama Armando ed è venuto su due mesi fa con l’amico Fritz. Gli dico come stanno le cose e me ne tornò giù. Non voglio fare la guerra. Voglio solo trovare Armando e dirglielo.

    Il nuovo arrivato scrutò severamente Fritz che fece spallucce.

    E credi sarà facile trovare l’Armando? Quassù tra una brigata e l’altra saremo ormai mille. Senza nome, senza documenti, senza registri, sparsi in decine di postazioni. Come lo trovi l’Armando?

    È ricciolino, moro, alto come lei, ha ventun anni compiuti da poco.

    Di dov’è? Che mestiere fa? Perché è venuto su?

    È di Bologna, fa l’elettricista e l’idraulico con suo padre: lavorano per l’Università. Ma gli è arrivata la chiamata alle armi e lui non vuole stare con i repubblichini. Mi ha detto che fa parte del Partito d’Azione ma io non so che cosa significa. Di politica non mi occupo.

    Magari Cescon se lo ricorda, il ricciolino. – si intromise Fritz – Quello ha una memoria da elefante. Parecchie volte li ho portati a lui, i nuovi, da addestrare.

    Cescon, dici? L’unica è provare. Dovrebbe essere su al Colle del… - si interruppe e prese da terra lo zaino di Fritz – Solo tabacchi?

    Questo mi ha dato il Cicci. Dice che il prete è allergico alle armi.

    E io sono allergico ai crocefissi. – si buttò lo zaino in spalla – Si va, giovanotti. Un’ora in discesa e un’ora in salita al buio. Vediamo di non cascare. Zitti e state attaccati al mio culo. Fritz, domani vai giù dal fornaio. Ha un pacco grosso da portare su. Ci vai col buio e sei su a mezzodì.

    Cazzo, Tito! E le mie pecore, chi le bada?

    I due cagnoni, le badano. È un ordine di Gil. A domani.

    Un telone mimetico largo una ventina di metri quadri, fissato con funi alle acacie di una fitta boscaglia in cima a un colle riparava una dozzina di uomini dall’umidità della notte. I più stavano dormendo, due fumavano e intanto scrutavano Tito e i tre nuovi arrivati. In mezzo un lume a petrolio faceva del suo meglio per illuminare la scena. Era quasi mezzanotte del ventitre di giugno del ‘44.

    Stanotte dormite qua. – ordinò quello che si era qualificato come il Comandante Gil – Avete le facce distrutte. Domattina Tito porti la ragazza da Cescon, che sta a Ca’ di Galeazzo o alla Ca’ di Cuneo: se avete notizie del ricciolino, procedete. Se no tornate qua e si decide.

    A mezzodì devo essere da Fritz. Ha un carico grosso.

    Mando un altro. Anzi due. Tu stai attaccato alla ragazza… come hai detto che ti chiami?

    Marta.

    Hai con te i documenti? Consegnali a me.

    Perché? Sono documenti buoni:

    Appunto. Se ti beccano, sono guai per la tua famiglia. Te li conservo io. Tanto, per tornare a Mercatale, di qua devi passare.

    Cescon era un uomo alto ed atletico, quasi quarantenne, dallo sguardo penetrante sotto lunghe sopracciglia di un grigio metallico. Lo stesso colore dei baffi. Il cranio era completamente calvo, le mani parevano pale. Era stato sottufficiale di carriera, sergente d’artiglieria in Grecia, rimpatriato per una scheggia che gli aveva portato via due dita della mano sinistra. In fuga dopo l’8 settembre, era approdato chissà come sui colli tra Emilia e Toscana. Uomo di poche parole, pronunciate in un suo linguaggio italo-veneto, tra i partigiani s’era guadagnato il ruolo di istruttore delle reclute. Al momento guidava un plotone di uomini al posto di osservazione di Ca’ di Galeazzo.

    Guardò la ragazza e il suo accompagnatore: scosse la testa. Era dentro un rudere quasi scoperchiato, con una decina di uomini seduti a terra, che si mangiavano la ragazza con gli occhi.

    Ohè, tosa, ti sei bevuta il cervelo? Qui è zona di maschi bruti e cativi. E tutti con gran voglia di mona. Lo sai che è la mona?

    Lo immagino. Ma io cerco solo il mio moroso.

    L’ho capito. Ma di riciolini qua ne ho tosati tanti. – poi si volse a Tito – L’è  per via dei peoci, sai. Qui ci si lava quando piove.

    Il ricciolino di nome fa Armando. È venuto su due mesi fa da Mercatale con l’amico Fritz. – spiegò Tito – Un bel ragazzo, vent’anni abbondanti, elettricista. Ti dice niente?

    Eletricista? Gh’era un letricista su al Colle de la ... l’era andato per quella ricetrasmittente che faceva i capricci. Sì, un bel giovine moreto. Forse l’è lù, dato che si fa chiamar Ricci o Riccio, una roba così.

    È lui di sicuro! – esclamò Marta – Dov’è questo colle?

    Ehi, ehi, calma bela tosa. Il Colle è a tre ore verso sud ma la radio che stava lì, chissà dov’è ora. L’era proprio a mezza via tra il fronte e i mortai dei crucchi che la miravano. Ora sta da un’altra parte. E pure el letricista sta da un’altra parte, almeno credo. Sempre se i mortai non l’han preso.

    E adesso dove sta? – chiese Tito – La radio dico, dove sta?

    La radio sta dove so io, forse. Ma non son sicuro. Comunque davanti a la tosa non lo dico. Se mai mando due a cercar el letricista in quei due o tre buchi che so io. Sempre se l’è una facenda importante. E sempre se non è passato con quei comunisti della 36°o queli della 62°. E poi, sempre se l’è ancora al mondo, el riciolino. E’ importante oppure….

    È importante. Gil dice che è importante quindi è importante. E dice che si deve portare la ragazza a….

    No. La tosa resta qua. So io il perché.

    Senti Cescon, Gil ha ordinato che….

    O Tito mio, Gil comanda a casa sua. Ma qua xe mia la responsabilità. La strada per arivar dove che sta la ricetrasmittente, sempre ammesso che la trovemo, l’è imposibile per la tosa. Impraticabile.

    Gil comanda la Brigata e tu devi….

    Devo? Io ho quindici anni in più di Gil e due anni di guerra vera. Io comando il mio plotone di dieci bastardi, affamati di carne cotta e cruda. Gil mi dà il suo ordine e io lo eseguo a modo mio. Riferisci, prego. Ora basta ciacarar che devo preparar due dei miei uomini più tosti. Otto, dieci ore e son qua con el letricista riciolino, se abbiamo un pocheto de culo. Se non è andato coi compagni della 36°. E se i mortai non l’han copato.

    Cescon, io non aspetto. Ti mollo la ragazza e torno giù. Quando hai risolto, rimandala da Gil.

    Ai comandi. Ma che facio col riciolino? Se vuol tornare con la tosa?

    Che torni. Qui vogliamo solo volontari. Li riporti a Monte Cerere.

    Tito bevve un sorso dalla sua borraccia, si rimise lo zaino in spalla e, senza un saluto, uscì dal rudere che costituiva la postazione di Ca’ di Galeazzo.

    Era quasi mezzogiorno del ventiquattro di giugno del ’44.

    E io che faccio?, domandò Marta.

    In cucina, bela tosa. El cuoco lo mando a la cerca del letricista e a te ti toca il pentolone. Cipolla e fasoi e zuppa di ceci e castagne. Prepara veloce che siam undici da sfamare. Dodici con te. Cuoco e Perin, ordini per voi due: prima magnate poi partite. Azione.

    2. Il cappello di Gil

    Cescon sonnecchiava quando Amedeo lo scosse. Erano le otto di sera, il sole era sparito dietro la sagoma del Monte delle Formiche. Nel rudere di Ca’ di Galeazzo ci si preparava a riposare, dopo aver ammorbidito gallette e castagne secche in un denso minestrone. Amedeo era di sentinella al piano di

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