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Rachele
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E-book218 pagine3 ore

Rachele

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Il Nuovo Romanzo di Alessandro Ceccoli.

Varese, Lugano, Napoli, Ventotene, una storia. Una giovane donna si trova a confrontarsi con il ruolo femminile imposto dalla ideologia fascista. Un padre Gerarca, una madre Artista dadaista, uno zio Antiquario nel Canton Ticino, un cugino spagnolo e l'alba lucente di un grande amore.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2018
ISBN9788827858967
Rachele

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    Anteprima del libro

    Rachele - Alessandro Ceccoli

    Maria

    25 Maggio 1915

      Napoli. Nel popolare rione Sanità, borgo dei Vergini, salita Principi, Rachele emetteva il suo primo vagito mentre l’Italia rompeva il patto trentennale della triplice alleanza, abbandonando Germania e Austria e schierandosi con Francia, Gran Bretagna e Russia. La costellazione nel segno del toro era propizia, il sole in XII casa e la luna in vergine conferivano carattere deciso e grande potenza. Ma l’inizio fu difficile. Tutti pensarono che fosse nata morta. Solo dopo grandi colpi al torace e l’impegno dell’ostetrica, amica di famiglia, la bimba regalò alla vita il suo primo singulto. Una luce si era accesa, ma quante altre se ne sarebbero spente per onorare la grandezza della Patria?

      Le tensioni sociali che avevano caratterizzato quel periodo erano improvvisamente scomparse. Un grido pregno di passioni echeggiava ormai dappertutto e il popolo dei vicoli, delle calli, dei carruggi, delle strade e delle piazze, dei paesi e delle città, era pronto; era pronto ad accogliere il fiume di emozioni liberate sapientemente dalle parole altisonanti dei governanti e dei regnanti.

      Grandezza della Nazione.

      Il primo ministro Salandra, appoggiandosi prima alla sinistra liberale di Giolitti e poi alla destra interventista, decretò con la complicità del re l’entrata in guerra. Molti intellettuali ne furono rapiti: Sovranismo e grandezza della Patria. Alcuni come Salvemini, al solo scopo di vendicarsi dell’impero Austroungarico, inneggiavano sui quotidiani: "Delenda Austria!".

      Alle redazioni dei giornali folle entusiaste si accalcavano in cerca di notizie; e in giro, su balconi, lampioni e inferriate, si moltiplicavano i tricolori e si gridava Viva l’Italia. Il virus, che aveva soddisfatto gli interventisti e rassegnato i neutralisti, non trovava più argini alla sua diffusione. Come spesso accade, la minoranza rumorosa aveva vinto e aveva piegato e plasmato la malleabile mansuetudine della maggioranza silenziosa. La morale patriottica del vicino risorgimento aveva preso il sopravvento, condizionato le masse, e dunque bisognava andare in guerra, la Patria lo richiedeva. 

      Furono quell’ardore patriottico, quell’humus, a caratterizzare i primi anni di vita di Rachele, seppur mitigati dall’importante presenza di zia Rosa.

      La madre, colpita da setticemia da parto, l’abbandonò dopo giorni di sofferenza e per il padre fu un brutto colpo. Forse ritenne la bimba colpevole. S’incupì a tal punto da rifuggir dalla famiglia per dedicarsi anima e corpo a Mussolini e all’avvento del fascismo.

    14 febbraio 1935

      Erano passati circa vent’anni e ormai al fascismo appartenevano le menti e i cuori della maggioranza degli italiani. Si cantava faccetta nera per la conquista dell’Abissinia e il vento d’autarchia si andava consolidando, ma era anche il ventesimo anniversario della morte della madre di Rachele e, come sempre, il padre si sarebbe presentato con il suo mazzo di rose bianche. Era una certezza. Forse un’abitudine, oppure, come lui ostentatamente affermava, il segno di un amore infinito rubatogli dal genio del male.

      Tra Rachele e il genitore non c’era mai stato un dialogo costante, né grandi complimenti o rimproveri; anche perché lei aveva sempre adempiuto le sue prove scolastiche perfettamente, precisamente, con estrema pignoleria, per quanto ad ella veniva richiesto. L’unico neo era rappresentato dalle prove di prestanza fisica, indispensabili per essere definite ottime italiane: atte a sfornare e allevare figli, per poi curare con gentilezza il focolare domestico e attendere il ritorno del marito in camicia nera. Ma Rachele era magrolina, anche se ben proporzionata, non aveva muscoli scattanti e soprattutto aveva un bacino stretto, a detta dei molti inadatto ad avere figli sani; e quell’incontro con il padre, in quella ricorrenza, con i suoi vent’anni da poco compiuti, fu per l’austero genitore un’inaspettata rivelazione.

        «Ciao», il padre era già al cimitero.

      Come il solito era lui che si curava di farlo aprire per quella visita annuale. Quel campo d’inumazione era già in disuso da circa vent’anni quando la madre di Rachele morì, ma ugualmente si riuscì a rispettare la sua volontà d’esser tumulata nella tomba di famiglia, eretta per Oscar Meuricoffre, console svizzero a Napoli, nonno mai conosciuto da Rachele. E lei, quando il padre era via, ci andava spesso in quel cimitero; salutava la mamma e il nonno scavalcando il muretto, incurante dei cartelli Vietato entrare, senza temere di contravvenire a quell’epoca di divieti. 

      «Buongiorno Papà, come va? Vedo che avete qualche capello bianco in più». La risposta fu un abbraccio, una sobria seppur emozionata stretta e un: «somigli sempre più a tua madre»; ed era vero. Aveva indossato quel giorno un lascito involontario, un suo ricordo: un vestito in voile stampato su fondo écru con boccioli di fiori rosa e indaco; era un modo per sentirla ancora più vicina e cercare quell’affetto mai conosciuto. Fecero quel che facevano sempre in quella ricorrenza: il padre dispose con cura il grande mazzo di rose bianche facendo attenzione a non coprire la foto sul sarcofago della famiglia Meuricoffre, Rachele pulì con uno straccio la lapide. La foto incassata in un cammeo ritraeva la madre felice in giardino, dinanzi a una cancellata. Dopo qualche attimo di raccoglimento e silenzio, come da copione, s’incamminavano per l’uscita, senza peraltro dimenticare di far scivolare qualche generoso biglietto tra le mani del custode che, con grandi inchini d’ossequio, diceva: «grazie dottò, grazie dottò; quando vuole noi siamo qui a vostro servizio». Fuori da quel che restava di quel cimitero acattolico, c’era una macchina ad attenderli: agli occhi di Rachele una macchina sempre più nera, sempre più grande, sempre più lucida, di pari passo con la crescita dell’importanza del padre all’interno del partito; Ernesto Criscuolo, l’autista, ne rappresentava la continuità.

      Era un uomo sulla quarantina, calvo, magrolino, naso adunco, con una faccia da autista, da autista napoletano, che niente aveva a che fare con l’immagine dei manifesti virili e austeri della gerarchia fascista. Rachele avrebbe per sempre ricordato quella figura sorridente, gioviale, scherzosa. Le rare volte in cui l’andava a prendere a scuola, per accompagnarla dal suo genitore per qualche occasione a Napoli, si soffermavano in un chiosco alla marina a bere l’acqua zurfregna, acqua e’ mummare, acqua sulfurea e ferrosa, delizia del palato per il popolo dei vasci ¹ partenopei. In quegli istanti di complicità l’autista si dilettava a imitare i grandi del regime; e non ne tralasciava alcuno, neanche il suo datore di lavoro, il padre di Rachele. Dissacrare era ciò che gli riusciva meglio. E in quelle occasioni mostrava tutta la sua napoletanità.   

      L’automobile, come sempre del resto, li avrebbe lasciati a piazza del Plebiscito, vicino alla prefettura. Avrebbero pranzato al ben conosciuto ristorante caffè Gambrinus, amato da Rachele e dai suoi amici. Luogo noto per i suoi stucchi e gli affreschi realizzati da alcuni impressionisti napoletani, e preferito dai giovani per le stravaganti frequentazioni.

      I tavolini quel giorno erano insolitamente ben ordinati, disposti a scacchiera, e non c’era neanche la solita confusione creativa. Gli inservienti dovevano esser stati colti da un guizzo mistico d’ordine, o semplicemente erano stati avvisati che il padre di Rachele si sarebbe fermato in quel locale. Era più evidente la seconda ipotesi, e infatti due cloni fascisti, canuti, tarchiati, in camicia nera, sorseggiavano una birra a un tavolino non molto distante da dove si sarebbero seduti il genitore con la figlia. Erano all’esterno a godersi una bella giornata di sole, un sole napoletano, quello che anche d’inverno scalda i cuori e accarezza le anime.

      «E allora come ti senti con i tuoi vent’anni?», le chiese il padre sistemandole lievemente un ricciolo ribelle e consegnandole un anello d’oro con una perla appartenuto alla mamma.

      «Grazie Papà, è di mamma; che bel ricordo. Ma i miei vent’anni mi pesano, mi sento frastornata, mi sento come un battello a vapore che ha finito il carburante», e il carburante, lei sapeva, erano i suoi esami universitari.

      «Hai forse qualche problema sentimentale», le chiese il padre, mostrando un’aria preoccupata.

      «No, no, Papà, cosa vi salta in mente. E’ che ho bisogno di fare altro».

      «Fare altro? Ma cosa significa? Adesso che sei laureata, e devo ammettere egregiamente, dobbiamo pensare a cercarti un buon marito. Dovrai fare dei figli e dedicarti alla casa. Anzi, pensavo di comprarti un appartamento a Posillipo, vicino al mare. So che ti piace tanto. Con una buona dote e l’educazione ricevuta puoi aspirare a un buon partito. E’ giunto il momento che tuo padre faccia qualcosa d’importante per te».

      Ci fu un lungo silenzio. Rachele proprio non s’aspettava quel discorso. Di solito gli incontri con il padre si esaurivano tra pettegolezzi sul partito, notizie sui suoi studi, critiche del genitore alla zia troppo contestatrice, e altre amenità; ma questa volta era andato tutto diversamente. Doveva dunque trovare il coraggio per dirglielo, non poteva più attendere, non gli avrebbe permesso di condizionarla. Non aveva nessuna intenzione di vivere una vita di rimpianti, e glielo disse:

      «Voglio andare via».

      «Eh?!».

      «Sì, sento il bisogno di andare via da Napoli, e non voglio sposarmi, ecco tutto».

      Fu come uno sfogo; le parole uscirono una sull’altra senza che se ne rendesse ben conto, senza avere la capacità di sentirne il significato.

      Le aveva accumulate. Ci aveva pensato, aveva provato e riprovato, e aveva sempre rimandato; ma quel discorso del padre non le permetteva di procrastinare, di attendere ancora.

      «Cazzo, non puoi far questo!». Era la prima volta che il genitore si esprimeva con quella parola, non se lo aspettava, ne era sconcertata, lei era sempre stata ligia e ubbidiente.

      Ma non si fece intimorire:

      «Ho già deciso Papà, ho già preparato tutto e vado al nord. Mi cerco un lavoro».

      L’alto funzionario fascista non credeva ai propri orecchi. Era come se avesse preso un pugno al centro dello stomaco. Quell’atto di ribellione gli sembrava assurdo, inconcepibile. E tuttavia avrebbe dovuto immaginarlo, era figlia di sua madre: decisa e determinata; proprio quelle sue caratteristiche lo avevano fatto invaghire.

      Rachele si era sempre nascosta. Di poche parole a scuola, come all’università, odiava mettersi in mostra. Le parole per lei erano solidi mattoni con cui costruire una cattedrale, non certo mucchi sassi da accatastare alla rinfusa. Con quella sua affermazione era uscita dal guscio, si era esposta. 

      Ci fu silenzio. Il padre era contrariato e volse lontano il suo sguardo, duro, severo. I suoi occhi azzurri sapevano essere perforanti.

      Poi troncò:

      «Bene, fa’ come vuoi, ma non chiedere il mio aiuto – e quindi, colto da un sottile sentimento di rivalsa e per indispettire la figlia, aggiunse – mi sono giunte voci che chiuderanno questo locale mal frequentato, raduna inaccettabili presenze».

      Il saluto finale fu gelido.

      Rachele era dispiaciuta. Ma cosa poteva farci? Nel suo cuore nutriva la speranza che il padre un giorno l’avrebbe capita.

      Dopo qualche mese, il caffè  ristorante Gambrinus fu chiuso per la presenza di troppi antifascisti.

    15 Ottobre 1935

      Era un martedì.

      Il treno, quel treno; la stazione affollata. Sogni, impegni, pensieri che si accumulavano dando ritmo al movimento. Ma lei non aveva fretta, non voleva affrettarsi, aveva tempo; e non cercava neanche un posto comodo in carrozza. Si trascinava con il suo piccolo bagaglio colmo di ricordi pronta per il viaggio. Sapeva che nel viaggiare ci si può perdere più volte, anzi, bisogna perdersi più volte: è necessario per vivere una vita piena. Era talmente giovane, ma anche estremamente motivata! 

      Aveva selezionato brutalmente cosa portare via: qualche vestito, alcuni oggetti utili e delle pagine ingiallite strappate da un libro di Giordano Bruno, il filosofo nolano. Si era ben presto resa conto che fossero ben poche le cose indispensabili. Era la rinascita, almeno così credeva, ignara che in una vita non c’è mai interruzione, ma solo, nel bene come nel male, proseguimento; e il suo proseguimento di quel momento era semplice, banale… Prendere il treno.

      Mancavano pochi minuti. Una folla era accalcata sulla banchina. Tutti erano pronti e carichi come molle per spintoni e altre astuzie. Erano rapiti dalla frenesia, alla ricerca di un privilegio, un posto comodo; magari vicino al finestrino per poter raccontare agli amici e ai parenti com’era il paesaggio. O forse invece nel corridoio per essere liberi di muoversi; alla peggio al centro, ma come ripiego, perché no, sugli strapuntini esterni, per sentirsi comunque ben sistemati, furbi e fortunati. Avrebbero guardato agli altri con soddisfazione, mentre, in piedi e ammassati, cercavano di resistere ai sobbalzi del treno. Ecco, tutti dentro. Segnalavano i controllori facendo grandi gesti e, appesi ai predellini prima della chiusura finale delle porte incitavano gli ultimi viaggiatori ad affrettarsi. Finché il fischio finale non avesse liberato dall’ormai insostenibile attesa gli accomodati viaggiatori, spazzando via le speranze dei ritardatari. L’impaziente, sbuffante locomotiva alla fine avrebbe spezzato le catene sovrapponendo il suo borbottio di vapore al vociare dei passeggeri. Sarebbero passati solo due anni e quella motrice sarebbe andata in pensione per dare spazio agli ETR (Elettro Treno Rapido), orgoglio dell’industria nazionale: un salto verso il futuro, la modernità, con i suoi 200 chilometri l’ora.

      Il convoglio, zeppo d’inquiete anime in sovreccitazione, iniziò il suo viaggio, mentre Rachele trovava posto in un angolo, in piedi, accanto all’ingresso di uno scompartimento emanante odori di velluto consunto e polvere umidiccia; le trame del tessuto avevano imprigionato residui e tracce di varia umanità.

      Il viaggio le sembrò breve, i suoi pensieri la conducevano lontano, molto lontano, in un mondo ideale, dove avrebbe potuto essere felice.

        A una decina di chilometri dalla meta il treno incominciò a decelerare. Erano in prossimità di un paesaggio fino allora ignoto a Rachele: capannoni e capannoni, ciminiere che vomitavano fumo nero, grandi cisterne di carburante e poi casette tutte in fila e tutte rosse, mattoni rossi e tetti scuri, e a seguire altre costruzioni, senza rottura di continuità; e poi orti e orti accanto ai binari, rubati alla ferrovia. Arrivò a Milano che era buio.

      Fu abbracciata subito da una coltre di fumosa nebbia, odori stagnanti intrappolati, ombre di case rattristate da appena percettibili sfumate luci, e rumori di zoccoli di cavallo, in lontananza, in lontananza; ma poco importava, quella situazione distante dai cieli azzurri e dal mare, per lei, voleva dire rinascita.

      Ora doveva sbrigarsi, il treno aveva accumulato un considerevole ritardo, doveva correre, prendere la coincidenza per Varese.

      Piazza Cadorna, dov’era quel luogo? Aveva con sé una piantina, ma nella nebbia non serviva. Si accodò ad altri passeggeri mossi dallo stesso intento, nella stessa direzione.

      Trovarono un calesse, un vecchio calesse condotto da un mesto silenzioso cocchiere avvezzò a districarsi tra le brumose strade. Faceva freddo. La città sembrava ammutolita dalla nebbia che penetrava attraverso il sottile soprabito. Nonostante i timori, arrivarono giusto in tempo per l’ultima partenza.

      Fortunatamente a Varese era tutto diverso. Il repentino cambiamento climatico fu sottolineato dal rumore di ferraglia dell’attraversamento di un ponte, che serviva a superare una profonda gola. Un cielo stellato l’accolse. L’albergo era a due passi dalla stazione. Sospirò.

      Il giorno seguente si recò subito al lavoro. Non lo aveva detto a suo padre. Aveva trovato impiego presso un’azienda d’importazione ed esportazione. Le donne laureate a conoscenza d’altre lingue erano una rarità. Le guerre nelle colonie specialmente al nord avevano rubato uomini alle aziende. Era forse stato un azzardo. Non aveva mai incontrato il titolare e tutto si era svolto per lettera; temeva. Temeva che vedendola mingherlina, impacciata, l’uomo non l’avrebbe confermata; ma così non fu. Si misero subito a parlare. Il principale, Ghigioni, amava discorrere in francese e Rachele in quella lingua eccelleva. Fin da piccola zia Rosa le aveva parlato francese avviandola ad apprezzare quella letteratura, dunque, quando il discorso andò su Flaubert, Hugo, Baudelaire lei rispose a tono, e fu ancora più compiuta quando si soffermarono sui problemi del commercio internazionale, di cui spesso il padre trattava, e il titolare ne fu particolarmente impressionato. 

      I primi mesi volarono velocemente. Rachele si era fatta

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