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Globus
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E-book485 pagine6 ore

Globus

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Info su questo ebook

Il mondo sta per finire. Presto la fenditura di Faspath si chiuderà inghiottendo la città ragnatela di Nelatte e con essa tutti i suoi cittadini. Ad annunciarlo è uno degli automi trasportatori della miniera di polvere azzurra, risalito dalle viscere della terra per avvertire Seluma, forse l'unica che potrà fermare la fatale implosione. Una lumacide di centocinquant'anni, memoria storica della civiltà che si è sviluppata lungo la parete e di quelle che l'hanno preceduta. Una responsabilità non da poco quando l'ultima cosa che si vorrebbe fare è proprio ricordare!
Seluma sa che alle forze che li stanno trascinando verso il Centro è inutile opporsi perché sono il frutto del capriccio di divinità che non si può sperare di comprendere. Un tempo si sono dimostrate benigne e generose, ma ora sembrano aver deciso di porre fine a tutto, di ritirarsi e modificare la faccia stessa del pianeta. E tutti loro, piccole pulci sulla schiena di un gigante che ha deciso di grattarsi, dove possono pensare di fuggire?
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2019
ISBN9788829592661
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    Anteprima del libro

    Globus - Roberta La Rocca

    PROLOGO

    Allarme.

    Corre, corre, l'affanno della fuga è tutto ciò che esiste per lui, l'energia che fluisce, il motore al massimo, l'urgenza di allontanarsi dall'incomprensibile tremore che lo ha avvolto, dalla stretta che ha annichilito i suoi fratelli, la sua casa, ogni frutto delle loro fatiche.

    Un infinito presente di sbandamenti, di polvere che gli oscura la visuale, di scossoni e violenti contraccolpi che fanno gemere l'intera sua struttura, lo scheletro metallico, pur elastico, che bene ha servito per un lavoro pesante per sette decenni.

    Le piccole ruote non sono state progettate per correre veloci sulla roccia tagliente e sconnessa, gli ammortizzatori stanno cedendo anche se lui viaggia senza carico. Perde aderenza, le ruote posteriori sgommano e scivolano, spruzzano nel baratro una gragnola di sassolini, pietruzze che cadono dritte nel cuore del mondo.

    Corre incontro al lucore dell'alba, a quella pallida promessa del giorno come se davvero potesse raggiungere il sole. Ma è così fievole l'alba, lontana lontana, stretta tra le pareti a picco di Faspath.

    E Zerafia dov'è?

    L'ha oltrepassata, ormai. L'ha superata senza accorgersene. Ha perso l'orientamento e si è spostato troppo in alto, alla ricerca di un percorso sulla scoscesa parete verticale della fenditura, è andato troppo vicino al bordo, alla superficie. Così non l'ha vista, la città di Zerafia accoccolata laggiù, una lunga balconata in perenne ombra, dove si ode di continuo il canto di acqua che scorre e il vento umido che salendo dalle fauci dell'abisso nutre gli abitanti albini.

    Ma lui non deve dirigersi a Zerafia. Non c'è mai stato, non è previsto che ci debba andare. Perché gli è parso di doverlo fare? È solo il centro abitato più vicino alla miniera. Ma gli abitanti di quel luogo non hanno niente a che fare né con l'impianto né con lui.

    Perché continua a pensarci, a distrarsi?

    Registrazioni particolareggiate di tutta l'area e delle forme di vita che vi si trovano sono a disposizione nelle sue banche dati, e tra queste anche immagini di Zerafia prese a una certa distanza. Ma il pensiero della città-fungo causa una perturbazione inspiegabile nel funzionamento dei suoi processori. Gli è quasi doloroso allontanarsi...

    Clang!

    Un parafango si è staccato, strappato via dall'urto contro uno spuntone di pietra rosso arancio, aguzzo come la punta di una gigantesca matita. Il frammento di metallo verniciato cade, precipita nel vuoto; è un attimo, lui lo intravvede appena ed è sparito. Una maniglia è già saltata via nei primi minuti di fuga, quando il protocollo di emergenza si è attivato inducendolo ad abbandonare il lavoro.

    Suo malgrado, la registrazione degli eventi che si ripresenta ai suoi processori logici balza in testa alle priorità, accecandolo per un istante.

    Le vibropompe che uggiolano per lo sforzo non previsto, del tutto al di là delle loro capacità, di tenere aperte le gallerie contro la pressione crescente. La loro voce tremolante aumenta fino a divenire un urlo acuto. Lo schianto colossale con cui cedono, una per una. Il rombo delle tonnellate di roccia che si riprendono il loro spazio, la terra che si muove a mordere, a stringere...

    Esclude la registrazione. Non è importante adesso per lui, saranno i padroni a esaminarla. Il suo incarico è portargliela.

    Macina miglia su miglia, sulle ruote svergolate, lasciando strati di vernice contro la parete abrasiva, consumando guarnizioni e cinghie.

    Le luci dell'impianto, dalle piste, alle piattaforme e gli scivoli di scarico, tremolano con un ronzio, sfarfallano fino a spegnersi in una tempesta di scintille...

    Basta. I padroni. Devono sapere. Un obiettivo, nessuna distrazione.

    Il pericolo che ha distrutto la miniera sta correndo verso di loro.

    Zerafia non c'entra nulla.

    Il cielo si schiarisce, la striscia verticale tra le pareti di Faspath si tinge di ori e di rosa, il primo raggio di sole lo colpisce dritto nelle lenti, lo abbaglia in una parata di arcobaleni.

    Triangola la sua posizione per sicurezza. Si trova sulla parete nord dell'abisso, viaggia sfidando un terreno ostico che lo costringe a muoversi inclinato di quasi quarantacinque gradi. Ha scelto il percorso più breve, ma forse non è stata una buona idea. E se si fosse diretto invece verso la superficie? Salire lungo la parete fino al bordo, abbandonare la grande fessura Faspath e il suo vuoto infinito.

    Ma lui non è programmato per sconfinare in quel mondo piatto lassù, una pianura priva di direzione, la sola idea lo paralizza; non avrebbe dovuto neanche essere capace di pensarci.

    Meglio rimanere tra i pericoli che conosce.

    C'è qualcosa tra i suoi occhi e il sole appena nato, qualcosa che rifrange la luce moltiplicandola in mille punti di emissione, come un setaccio. Una struttura tesa tra le sponde di Faspath. La sua meta.

    Estroflette le zampe per superare un punto ostico, una zona convessa ricoperta di cristalli come punte di lancia irte in tutte le direzioni. Si solleva, devia prima di mettere in pericolo i suoi alberi di trasmissione. Per poco non sprofonda in una vena minerale bianca e liscia, all'apparenza invitante, quasi un sentiero naturale. Inclinandosi con una sgommata, tanto che una ruota si solleva, torna sul terreno sicuro.

    Quanti convogli in passato sono caduti vittime di quelle splendenti pozzanghere di vetro lattiginoso, pronto a collassare in miliardi di affilatissime schegge taglienti come rasoi, capaci di ridurre a brandelli anche la gomma dura che riveste le ruote dei veicoli?

    Ventidue, lo informa la sua banca dati.

    Un incidente comune prima che venisse ultimata la strada per la miniera, quando si badava solo a trovare il percorso più breve. Un incidente neanche tanto grave, se si hanno delle ruote di scorta, dei manutentori pronti a intervenire e tanto tempo da perdere.

    Non è così per lui. Ha così poco tempo da non poterne spendere neanche un millisecondo per cercare la strada, ammesso e non concesso che sia praticabile. Perché la strada va su e giù, segue tornanti, è fatta per grossi convogli guidati da persone, che devono fermarsi a punti di ristoro e viaggiare comodi.

    Un'altra urgenza lo punge a tradimento. Quanto gli permette ancora la sua autonomia? Fin dove riuscirà ad arrivare?

    Non ne è sicuro. Non ha considerato che potrebbe essere impossibile giungere a destinazione.

    Un rapido controllo alle batterie, un calcolo approssimativo...

    Vede con tre decimi di secondo di ritardo la creatura che spalanca una bocca priva di denti, l'interno roseo come una fodera di seta, un urlo muto levato al cielo. Come ha fatto a non notare le forme globulari che spuntano dalla terra come grosse uova mezzo seppellite? È finito proprio in mezzo ai nidi!

    Troppo tardi.

    La serpe gemmata scatta per fuggire, ma lui la travolge, la ruota anteriore destra le schiaccia la coda e un istante dopo il suo fianco è colpito dalla testa della bestia, irta di protuberanze smeraldine. Con un fracasso di vetri infranti, il metallo si piega in dentro, gli spunzoni della serpe penetrano in profondità l'acciaio e vi si agganciano.

    Lui accelera, sbanda di proposito. Sotto le ruote la ghiaia scoppietta, è tutto un sobbalzo.

    Ma non basterà a scrollarsi di dosso la serpe, lo sa. Meglio prepararsi per l'inevitabile, concedendosi finalmente di rallentare. Si appoggia bene a terra, cerca di ancorarsi con le zampe, sta scavando per trovare un saldo appiglio quando la creatura ormai morta esplode.

    La deflagrazione è così potente da spezzargli tre dita di una zampa e piegare l'articolazione dell'altra. La sua fiancata destra è una rovina di lamiera deformata. Scariche elettrostatiche disegnano righe grigie nella sua visione del mondo e i sensori di direzione sono più confusi che mai.

    Ma non è caduto, non si è rovesciato. Vede la meta davanti a sé e non ha più bisogno della bussola. Le ruote sono integre. Può ancora viaggiare.

    Si rimette in assetto. Riparte.

    Ora può vedere bene la forma traforata di Nelatte, la città-ragnatela che si estende per tutta la larghezza della fenditura, in verticale, per un raggio di 3,5 miglia, composta di un materiale così riflettente e traslucido da risultare quasi invisibile a distanza.

    Un materiale organico, recita tra sé mentre accelera di nuovo, sfreccia come se l'incidente con la serpe non fosse mai successo. Di origine animale, chiamato gommite.

    Deve resistere alla tentazione di dar fondo alla riserva di energia per un ultimo scatto. No, non basta raggiungere la città, deve trovare il luogo giusto in cui portare la notizia.

    E adesso si confonde. I danni fisici riportati, l'anomalia di questa emergenza stanno mettendo a dura prova la sua capacità di ragionare.

    La casa del più antico abitante, è la decisione che emerge da qualche parte dentro di lui e la accetta. Questo è facile, basta controllare nella banca dati.

    È giunto presso uno dei piloni, il collegamento tra Nelatte e la roccia; denso materiale gommoso ed elastico aderisce alla parete della fessura, si allarga alla base come una chiazza di cera fusa. È solo uno delle migliaia di tendini continuamente rigenerati che mantengono la città sospesa al centro del baratro, forse uno dei più piccoli. Ha un diametro alla base di 12,8 metri, si restringe gradatamente fino a misurarne 8,3.

    Si prepara per lo scossone nel passaggio tra la consistenza della parete rocciosa a quella del pilone, ma il materiale azzurrognolo è davvero morbido ed elastico, tanto che nei primi istanti le ruote sprofondano, non trovano presa, si bloccano facendolo rinculare. Occorre spingere con le zampe per tirarsi fuori dalla buca che il suo peso sta scavando nella gommite.

    Un suono esile e ovattato disegna ghirigori atonali da qualche parte sopra di lui: il timbro assomiglia a quello di un flauto, ma capace di improvvisi trilli sordi e rapide picchiate su note gravi. Una musica senza senso né ritmo, punteggiata dai richiami squillanti di un'ancia.

    Versi di animali. Da ignorare. Avanti.

    Il pilone di gommite è ora una strada liscia che lo accoglie senza trabocchetti. Lui ruota per cambiare direzione, non più parallelo alla sponda della fessura ma appiattito contro la faccia illuminata della città; si addentra nel reticolo tridimensionale di Nelatte, il cui spessore cresce verso il centro. Si arrampica sicuro del suo obiettivo, percorre all'esterno tubi dotati di finestre dentro i quali vede viaggiare persone che lo indicano e mormorano tra loro; scende ad attraversare strade orizzontali e piazze deserte, vede una fontana vuota. La città dorme ancora, gli unici suoni sono quelli del traffico veicolare sui ponti maggiori.

    La forma ritorta della sua meta emerge nell'agglomerato di costruzioni incollate le une alle altre, come quelle escrescenze fungoidi che riuscivano a trovare nutrimento nell'inesistente strato di terra sulle pareti scoscese delle gallerie della miniera. L'estremità attorcigliata a spirale, simile a una conchiglia, è inconfondibile. Su di essa la luce del primo mattino disegna un reticolo di maglie iridescenti, che confondono la percezione del vero colore della cupola.

    Ecco finalmente delle persone!

    Rallenta facendosi cauto: i padroni sono spesso tanto goffi, con tempi di reazione lunghi. Infatti uno di essi, pur avendolo visto arrivare, non si sposta di un millimetro, ma allunga un passo di lato come pensando di poterlo scavalcare. La gamba, lunga e sottile come la zampa di un ragno, un nastro rosa che emerge dal pantalone.

    Il tipo lo saluta come un vecchio amico, agitando un braccio che anch'esso si allunga. Un singulto convulso e rumoroso lo scuote tutto. Quello si mette una mano sulla bocca, ritrae gli arti, si avvolge tutto nel mantello e corre al riparo in un portone.

    Masterat, lo cataloga lui. Pseudoumanoide a sangue freddo. Arti estensibili. Breve aspettativa di vita.

    Si attarda a esaminare meglio la sparuta fauna urbana che lo circonda. Non vuole guai proprio adesso. Ma vede facce gonfie di sonno, sorrisi vacui, gambe instabili. Una coppia arranca attraverso la piazza tenendosi per mano – una mano e una chela – e improvvisa passi di danza sull'acciottolato.

    Questi non sono i primi abitanti mattinieri, sono gli ultimi nottambuli.

    Alcuni sono usciti proprio da lì, dall'edificio in cui deve portare la notizia. Le lanterne all'ingresso sono ancora accese, ma la loro luce è a malapena visibile nella piazzetta inondata di sole; scintille al centro dei due globi di vetro smerigliato ondeggiano pigramente su e giù mandando bagliori di verde e di rosa.

    Al Torciglione recita in lettere inclinate l'insegna fissata trenta centimetri sopra la porta, su sostegni di metallo brunito modellati a forma di mani umane.

    Scatta verso l'ingresso incanalando l'energia rimasta alle ruote, punta diritto alla doppia porta di vetro azzurro opaco come all'obiettivo finale di una gara con in palio la sopravvivenza della vita su tutto il pianeta.

    Ed ecco che c'è quasi, la batteria si prosciuga in quell'ultimo sprint, e le porte si aprono perché due persone stanno uscendo.

    Una creatura bassa, fasciata in una tunica corta di un blu quasi nero, la pelle verdastra butterata, la bocca enorme, piegata all'ingiù, che occupa più della metà della grossa testa bulbosa; una cartelletta di documenti sottobraccio, la mano palmata si blocca a tenere aperta la porta per chi viene dietro di lui.

    Batracide. Ermafrodito oviparo. Notevoli capacità di calcolo e memorizzazione, campo visivo limitato.

    Infatti non ha visto cosa si sta per abbattere su di lui.

    La seconda persona è un uomo magro, anche lui piccolo di statura, un metro e cinquantotto al massimo, appena più alto del batracide. Esce baldanzoso e sorridente, girato indietro a salutare quelli che ha lasciato dentro al ristorante, sta per calcare un imponente cappello a cilindro sui capelli grigi che stanno tutti ritti come la fiamma di una candela per la corrente d'aria che lo ha colto sulla soglia.

    Umano.

    Può basarsi solo sulle caratteristiche immediatamente percepibili dell'individuo e questa è la classificazione più ragionevole. Gli umani sono la specie dominante e la più diffusa dappertutto, anche nella cosmopolita Nelatte.

    Però...

    Qualcosa brilla al lobo del suo orecchio sinistro. E quando il tizio si gira verso di lui, qualcos'altro brilla nei suoi occhi. Una fiamma.

    Solo per un attimo.

    Umano, ribadisce con forza a se stesso, perché una definizione la deve dare, anche se quella forma di vita non ha alcuna importanza per lui in quel momento. Ha la facoltà di ignorare dei dati, ma solo dopo averli elaborati.

    Non c'è tempo per ragionare ancora, è arrivato, e l'urgenza della sua missione disperata sovrascrive qualsiasi altro imperativo mai impresso nelle carni del suo cuore rosa, che ora batte all'impazzata nei recessi della sovrastruttura meccanica che lo protegge.

    ALLARME, grida con la sua voce sintetica. Possono capirlo? Non lo sa.

    Ma le loro facce confuse, indignate e infine atterrite non lo possono fermare.

    Gli abitanti si scansano all'ultimo istante tuffandosi in direzioni opposte. Devono avercela fatta, il carrello non ha percezione dell'urto contro i loro corpi. Sente invece del legno fracassarsi contro il suo paraurti anteriore. Ma adesso è dentro.

    Voci altercano sopra una strana musica tintinnante, l'escursione termica tra l'esterno e l'interno addensa uno strato di nebbia sulle lenti che sono i suoi occhi. Una sedia prende il volo davanti a lui, lo schienale incombe sbilenco come una risibile barriera prima di frantumarsi; un attimo dopo l'intera sua parte destra si accartoccia contro la non cedevole pietra di un tavolino cementato al pavimento.

    E stavolta si rovescia davvero, le ruote all'aria girano invano con un ronzio di ingranaggi fuori posto, denso olio lubrificante surriscaldato schizza e sfrigola e gli ottunde i sensori di direzione. La sua visione è ormai solo un caleidoscopio di cristalli crepati.

    Ha vinto il tavolo, per il bene che potrà fargli.

    «Un peperone davvero piccante per i clienti speciali» le ricordò la nuova cameriera, e Seluma annuì. Non è che si fosse dimenticata.

    «È un po' che aspettano» incalzava quella, pile di stoviglie sporche in equilibrio sulle sue quattro mani, la piccola testa piegata di lato sul collo sottile. Ci mancava che battesse il piedino per terra.

    La ragazza si era mostrata veloce, pronta nel ricordare le ordinazioni e, nonostante la struttura filiforme, anche resistente nel fisico. Caratteristiche fondamentali per il mestiere in generale e ancor di più in un posto dove i clienti non prendevano i numerini per farsi servire e potevano diventare impazienti sul serio. Averla trovata si era rivelato un colpo di fortuna insperato dopo che se n'era andato Fuig. Un ottimo acquisto. Fosse stata meno petulante. E avesse avuto un nome ricordabile e pronunciabile.

    «Aspetteranno ancora» si limitò a borbottare Seluma, e tornò a volgere la sua attenzione alla zuppa fumante. «Non devono mica correre al lavoro.»

    Anche se le voltava le spalle, udì distintamente la cameriera emettere uno sbuffo sibilante, fastidioso come il ronzio di una zanzara nell'orecchio quando si sta per dormire. Stava di certo considerando che se avesse potuto servirli lei, questi clienti avrebbero già finito la colazione e se ne sarebbero volati via a fare le loro cose, qualunque fosse quello che gli Striduli facevano tutto il giorno.

    Ma anche l'ottima dipendente aveva dei limiti, ridacchiò Seluma tra sé. Con le sue gambe da cavalletta poteva danzare sui muri, ma non arrampicarsi fin sul soffitto. Questa era una cosa che sapeva fare solamente lei.

    Tornando nella sala grande con la zuppiera tra gli pseudopodi, sogguardò gli Striduli abbarbicati a testa in giù ai ganci che pendevano dalla volta fumosa della galleria, raccolti in cerchio intorno a un tavolo rotondo anch'esso capovolto. Solo quattro. Stranamente taciturni e rannicchiati su se stessi.

    «Ecco qui. Spero che stavolta ci siano abbastanza crostini» disse nel posare la zuppiera, facendola appena sbattere sul tavolo, sotto il naso della cliente umana, la calda voce pastosa amichevole come sempre. La cliente, una donna corpulenta dai riccioli rosa che penzolavano davanti a un enorme paio d'occhi ocra, richiuse la bocca che aveva già socchiuso per porre le sue lamentele preventive.

    Seluma lasciò che il proprio viso informe si rimodellasse in una sorta di sorriso, allargando la bocca priva di labbra. Non voleva dire niente, in realtà, ma aveva imparato sin dall'infanzia che quel piccolo gesto bastava spesso a farsi degli amici. Chi la conosceva bene non veniva ingannato. Luoth, per esempio, sapeva che era meglio smettere di discutere quando le piccole estroflessioni ai lati della testa di Seluma cominciavano ad agitarsi, non importava quanto calmo suonasse il suo tono di voce.

    Ma non molti altri erano altrettanto attenti, non si ponevano neppure il problema di quanto diverso potesse essere il linguaggio del corpo di una creatura non umanoide. Solo Luoth.

    Come previsto, la cliente si rilassò, sorrise anche lei accettando di buon grado il cibo caldo e ringraziò soddisfatta.

    Dalla radio al bar si riversavano nel ristorante le note pizzicate di un'arpa, l'accompagnamento al recital poetico del mattino che stava tirando per le lunghe, più del solito. Quella roba non aiutava la gente a svegliarsi. Seluma era in attesa del notiziario per ravvivare un po' l'ambiente.

    Luoth andava via e la salutava da lontano con un gesto ampio, il cappello tra le mani, un inchino deferente. Il suo segretario, il batracide, gonfiava le gote senza alcuna espressione negli occhi sporgenti. Ma qualcuno bloccava Luoth prima che raggiungesse la porta, un cliente umano anziano, con una berretta blu e un bastone dal manico ricurvo. Pareva un perdigiorno intenzionato a scroccare un bicchiere. Il banchiere invece lo ascoltò con attenzione, il viso grave. La conversazione doveva riguardare gli affari, altrimenti Luoth lo avrebbe liquidato in fretta, quella non era l'ora delle chiacchiere con un ufficio da aprire e portare avanti.

    «Mia molle principessa» le sussurrò la voce tremante del professore mentre lei oltrepassava distratta un tavolino da due posti lungo il corridoio, «tripudio di gelatinosa bellezza, posso avere un calice di latte e un paio di pasticcini all'arancia?»

    Non lo aveva neppure riconosciuto nella figura ingobbita seduta da sola in penombra.

    «Ben arrivato, Moi, ti mando subito la ragazza.»

    «Oh, no!» proruppe lui, deluso. «Volevo te!»

    Prima il peperone.

    «Non posso, devo servire i tuoi amici volanti.»

    «Mai che ti fermi a scambiare due parole, Seluma. Lavori sempre?»

    «Sempre.»

    Qualcosa nel tono di Moi le suonò più patetico del solito.

    «Vieni in un giorno di chiusura e chiacchieriamo quanto vuoi» gli suggerì.

    Se ne sarebbe pentita? Poverino, era un uomo così solo.

    «È possibile avere il tuo latte?»

    Ora basta però.

    «Non lo digeriresti» gli rispose un momento prima di sparire oltre le porte bianche della cucina.

    Per indossare i guanti dovette indurire le propaggini anteriori del suo corpo in forma precisa di braccia e mani, e riempire quelle sagome di stoffa cerata. Si sentiva così impacciata, costretta nel non potersi muovere mutando di continuo le proprie carni come sarebbe stato naturale. Quello strato protettivo tra lei e il mondo rendeva ogni interazione falsa e artificiosa.

    Afferrò il peperone, le ciotole e il coltello, mise tutto nella cesta che chiuse accuratamente e si avviò col suo carico appeso nell'incavo del suo nuovo gomito e agganciato con una cordicella al corsetto chitinoso. Incontrò la nuova ragazza e le mostrò la mercanzia che trasportava: stava proprio andando a servire quei clienti, contenta? L'altra scosse la testa così velocemente da vibrare tutta.

    Ma guarda se doveva essere lei a compiacere una sua dipendente.

    Ho deciso, la chiamerò Bizz.

    Forse a Bizz non piacevano gli Striduli e desiderava sbarazzarsene in fretta. Quelle creature pur innocue potevano dare sui nervi, per più di una ragione.

    Magari mangiavano gli insetti, anche quelli giganti.

    Gli Striduli non la degnarono di uno sguardo quando lei iniziò a strisciare sul muro per salire da loro. Nessuna sorpresa, era normale. Avrebbero avuto occhi solo per il pranzo. Dovevano essere convinti che fosse il ristorante stesso a creare ciò che essi chiedevano disegnando su pezzi di carta velina che lasciavano cadere a terra. Senza intermediari.

    Procedette con cauta tranquillità, dando tempo ai suoi sensi di riaggiustare i punti di riferimento. Si fermò un istante prima di affrontare la curva che l'avrebbe portata dalla parete concava al soffitto; sistemò la cesta e ne ricontrollò la chiusura. Quando si mosse, anche il contenitore di vimini foderato si mosse in avanti rispetto al suo corpo, seguendo la gravità che lo invitava a penzolarle in faccia mentre la corda di sicurezza si tendeva. I tavolini appesi erano sette, circondati da grossi anelli di ferro nero su cui le zampe posteriori artigliate delle creature potevano trovare appiglio.

    Che impressione vedere il soffitto così vuoto. Gli Striduli venivano a tutte le ore nell'unico locale della città dove era stato preparato un ambiente adatto a loro. Come mai solo questo sparuto gruppetto oggi? Dov'erano tutti gli altri?

    Il suo disagio aumentò ancora mentre si avvicinava. Gli Striduli comunicavano sottovoce, senza far vibrare le ance nelle loro gole, ma solo col soffio naturale dei musi a forma di flauto. Le note che ne uscivano, formate con l'ausilio delle dita sottili che coprivano fori quasi invisibili sulla pelle nera, erano sommesse, ovattate, quasi inudibili nel clamore del ristorante se non a breve distanza. Aveva tutta l'aria di un consesso segreto, intento a discutere questioni riservate o particolarmente preoccupanti.

    Seluma arrivò al tavolino senza che nessuna delle creature desse segno di averla vista. Non reagirono, nemmeno per mascherare ciò che andavano dicendo. Due dei quattro Striduli erano vecchi e rinsecchiti, la pelle sbiadita, avvolti nelle ali membranose quasi sentissero freddo. Un terzo si muoveva con scatti che parevano sin troppo nervosi persino per uno della sua razza, e il quarto non fiatava.

    Seluma sollevò la cesta avendo cura di tenerla con l'apertura all'ingiù, ne estrasse le ciotole che, quelle sì, attirarono l'attenzione degli Striduli che se ne impadronirono subito. Zitti e concentrati sul prossimo arrivo del cibo, tennero ciascuno la sua ciotola ben salda tra le zampe, capovolta, in attesa. Seluma, col peperone in una mano e il coltello nell'altra, lasciò andare la cesta, che ruotò a mezz'aria e rimase appesa al gancio del suo corsetto come un'enorme borsetta di cattivo gusto.

    Ora veniva un'operazione delicata che andava condotta con attenzione, anche in circostanze normali stando comodi sul pavimento. Per imparare a completarla a testa in giù Seluma aveva provocato piccoli incendi almeno cinque volte e distrutto un numero imprecisato di mobili.

    Rovesciò il peperone in modo che la sommità puntasse verso il soffitto. La mano sinistra sopra l'ortaggio per sostenerlo, penetrò la buccia con la punta del coltello, lo incise tutto intorno in orizzontale per tagliarne via la cima. Era un peperone davvero piccante e ne uscì subito uno sbuffo di fumo, accompagnato da un suono sommesso di approvazione da parte degli Striduli.

    Gli sguardi fissi sul peperone che andava accendendosi di una luminosità incandescente, gli Striduli protesero in avanti le loro coppette. Molto lentamente, ma senza esitazioni, Seluma versò a ciascuno la sua porzione del magma fumante che ribolliva nell'interno cavo dell'ortaggio, distribuendolo finché del peperone non rimase che una buccia rigida e vuota.

    Gli Striduli iniziarono subito a sorbire la squisita polpa immergendovi dentro la parte inferiore della faccia. Nemmeno stavolta Seluma riuscì a vedere dove caspita avessero la bocca con cui mangiavano, che  non era la stessa che usavano per parlare e respirare. Doveva essere un orifizio di solito chiuso da qualche parte sotto il mento.

    Che stranezza. Mangiavano e intanto continuavano a fischiare, a tubare.

    Non molti avevano osservato gli Striduli tanto a lungo e da così vicino, rifletté. Lei ne sapeva più di tutti. Avrebbe potuto scriverci un trattato, magari insieme al professore.

    Le creature avrebbero mangiato anche la buccia come dessert. Perciò rimise ciò che restava del peperone nella cesta, che staccò da sé per assicurarla al tavolino. Così sospesa sembrava un palloncino, una vela tesa da un flusso di aria calda.

    «Buon appetito» disse anche se in ritardo. Non faceva differenza per loro.

    Gli Striduli mangiavano con evidente soddisfazione, le schiene lucide curve nella torsione dei movimenti necessari per non sprecare nemmeno una goccia del prezioso succo corrosivo. Sotto di loro, lungo la galleria, non c'erano tavolini per clienti normali, ma un'area vuota di passaggio. Chi ci sarebbe voluto stare lì, a rischiare di prendere fuoco? Perché da Seluma, gli Striduli non mangiavano quasi mai niente altro che peperoni davvero piccanti di Samavoria, una squisitezza che non potevano procurarsi da soli.

    Seluma ridiscese dalla parte opposta, in tempo per vedere Luoth e il suo assistente guadagnare finalmente l'uscita. Il tizio con la berretta era tornato a sedersi.

    Prima di toccare terra si era già sfilata i guanti, rilassando le membra e scuotendole per protesta contro quella fastidiosa costrizione. Che fatica, giusto per gli Striduli poteva sopportarla. E Bizz arrivava di nuovo esagitata, ma adesso lei glielo avrebbe detto di piantarla e...

    La porta esplose.

    Un orribile fracasso, sedie che volavano, gente che urlava e la parete stessa che tremava per l'impatto con qualcosa che aveva corso sin lì a folle velocità.

    L'aria fu subito piena di polvere, segatura e pietra sbriciolata che le si appiccicò addosso; Seluma richiuse di scatto la bocca che aveva aperto per urlare, prima di trovarsi a inghiottire calcinacci.

    Luoth!

    «Perdinciravola!» imprecò il banchiere dal pavimento. Era caduto all'indietro, dentro al ristorante. Si rimise in piedi con l'aiuto del muto segretario spuntato dalle rovine della porta. Il cappello a cilindro gli si era tutto schiacciato come una lattina vuota.

    «Voleva ucciderci!»

    Non si era ferito!

    Il batracide l'aiutò a ripulirsi la giacca. Ma quando Luoth vide cosa lo aveva quasi colpito sussultò, gli occhi ancor più fuori della testa del suo assistente.

    «Un carrello da miniera?»

    «Meno male che era vuoto» commentò l'uomo con la berretta blu, tutto calmo e persino sorridente, come se l'incidente fosse un buffo diversivo organizzato per divertirlo. Alle spalle dell'altro, ne mimò la disordinata fuga e caduta, suscitando risate nel gruppetto di anziani al bancone del bar.

    Seluma stava arrivando. Un momento, maledizione. Non poteva mica correre.

    «Non toccate niente!» intimò. C'era già fin troppa gente accorsa intorno all'intruso. «Via, lasciatemi passare!»

    Avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di parlare. La curiosità per l'accaduto era tale da minare persino la sua stessa autorità. Dovette spingere quei perditempo per farsi strada.

    «Ma chi lo tocca» borbottava Luoth, indignato. «Dovremmo chiamare i pompieri, ecco, perché lo portino via...»

    «Sta parlando!» annunciò il professor Moi, che da subito si era messo al lavoro per disseppellire il carrello dalle masserizie crollate. «Guardate... ascoltate! Dice qualcosa!»

    Il banchiere scuoteva la testa, incredulo.

    «Non ha nessun motivo di essere qui.»

    Si accorse solo allora dello stato penoso del suo cappello e, strappatoselo dalla testa, se lo rigirò disgustato tra le mani dopo aver cercato invano di rimodellarlo. I capelli radi gli stavano tutti sparati sopra le orecchie, leggeri come volute di fumo.

    Ma intanto si era fatto silenzio, ogni orecchio teso per ascoltare. E davvero si udiva qualcosa, un ronzio modulato come una voce, che faceva pensare a un nugolo di insetti.

    SI CHIUDE, furono le parole che a Seluma parve di cogliere.

    «Che cosa?» chiese, e la sua voce sembrò a lei stessa troppo alta nel silenzio generale.

    Si afflosciò per abbassarsi anche lei verso l'automa, allungò le antenne oculari cercando di incontrare lo sguardo della macchina attraverso i sensori ottici. Ma una delle lenti era spaccata, e dietro l'altra non brillava più alcuna luce.

    Tuttavia il carrello parlò ancora.

    SI CHIUDE.

    Le trombette che annunciavano l'inizio del notiziario radiofonico fecero quasi strillare Seluma per lo spavento. La voce del giornalista suonava come un assordante cicaleccio, una grandinata di parole in fuga.

    «Ben svegliata, Nelatte! Manca solo una settimana al carnevale e ancora Sua Eccellenza il sindaco Attan Ze Kosh si rifiuta di rivelare quale enorme sorpresa ha tenuto in serbo per stupire la cittadinanza...»

    Il professore posò una mano sulla fiancata di metallo butterato, dove la vernice era venuta via.

    «Cosa si chiude, carrello?»

    «...Il nostro illustre concittadino, il dottor Iliqualoti, ha finalmente ottenuto i giusti riconoscimenti della comunità scientifica...»

    Una sola ruota girava ancora, a scatti.

    FASPATH.

    «È una radiosa giornata a Nelatte e non ci si aspettano grossi cambiamenti.»

    La ruota si fermò.

    FASPATH SI CHIUDE. ALLARME.

    PRIMO INTERMEZZO

    Sorelle d'acqua, mie adorate, cosa ci è capitato?

    Ho solo un vago ricordo della violenza che ci ha divise, del tremendo urto che ha schiacciato e scosso la nostra beata inerzia. Eravamo felici, avevamo la gioia e la completezza, e non lo sapevamo. Non avevamo neppure bisogno di inventarci parole per esprimere la nostra condizione.

    Ora le nostre fibre sono state strappate l'una all'altra per un fragore incomprensibile precipitato dal cielo. Era acqua anch'essa? Perché nostra nemica? Perché ha turbato il lago nel profondo, scavando fino nel suo cuore, facendone traboccare il contenuto come liquido senza valore da spingere con assurda forza fino al cielo?

    Ora volo verso una direzione ignota, ma so che il mio percorso non mi riporterà mai più alla mia casa, se non dopo aver compiuto il giro del mondo intero.

    Del sale ha penetrato la mia essenza, una patina, un'impurezza che pian piano si fa strada al mio interno. Sono cambiata.

    Vedo cose sconosciute intorno a me, oggetti, paesaggi e creature che mai si erano specchiati in noi.

    Molti fratelli di terra hanno subito una sorte simile alla nostra. Alcuni mi accompagnano, almeno per un tratto, nel volo. Dormivano da intere ere sul fondo del lago abbracciati, un tutt'uno come noi. Ora, ridotti in frammenti, roteano nell'aria, forme globose irregolari di roccia costellata di spunzoni taglienti, terriccio molle e sabbia che pian piano li lasciano, per ricadere o diffondersi come una scia al loro passaggio, insieme alla nebbia umida in cui io stessa mi dissolvo.

    Spero che anche voi abbiate compagnia.

    Non avrei mai pensato che il cielo fosse così ampio, così vuoto e freddo.

    Ma la superficie è cambiata a sua volta. A partire dalla conca ormai vuota che era la nostra culla, tre profonde spaccature l'hanno incisa, inghiottendo campi e prati e foreste e deserti e colline... Si allargano a dismisura mentre le guardo. Si fermeranno o consumeranno tutto il pianeta? Non se ne vede il fondo, forse non c'è, forse queste fratture conducono al di là del mondo, nel luogo tremendo da cui è provenuta la sfera della distruzione.

    Le crepe sono inesorabili ma lente. Spero che le creature che abitano le città più lontane riescano a vederle arrivare e a togliersi dalla traiettoria. Per andare dove, però, non saprei suggerirglielo.

    «Poverino» sospirò Luoth, tutto rosso come un lingotto d'oro appena uscito dalla fornace. Si asciugava il sudore dalla fronte con un fazzolettone a scacchi, il cappello rovinato sottobraccio. «È impazzito.»

    Un frinire insistente attirò l'attenzione di Seluma, la distolse dalla contemplazione del carrello morto. La cameriera insetto si agitava, scarmigliata, ancora con una ciotola sporca in una mano.

    «Chiamo i pompieri? Ci sono feriti? Dobbiamo evacuare la zona?»

    Seluma sospirò forte, ma la fin troppo solerte salariata sembrava indifferente a ogni segnale di esasperazione.

    «Nessuna emergenza» sbuffò. «Chiamali, ma di' loro che ci sono solo dei detriti da sgomberare.»Bizz riusciva a gesticolare con la ciotola senza rovesciarla, come fosse incollata alla sua mano.

    «Corro!» proruppe, e davvero si lanciò all'impazzata con le due paia di gambette magre.

    «Non c'è nessun ferito!» le gridò dietro Seluma, tanto per ribadire. Ci mancava di vedersi capitare tra i piedi una carovana di medici, o addirittura di becchini, proprio poco prima dell'ora di massimo afflusso mattutino.

    Anche se la maggior parte dei clienti presenti era ormai scappata fuori e con tutto quel bailamme c'era il rischio di perdere mezza giornata solo a ripulire il locale.

    La radio li sbeffeggiava con un allegro concerto di zufoli e tamburi.

    «Cosa avrà visto, mi domando...» continuava il banchiere.

    «Ma puoi stare un po' zitto?»

    Seluma si accostò al professor Moi, preoccupata per il suo pallore. Non lo aveva mai visto se non sorridente e placido, una leggera malinconia velava di tanto in tanto i suoi occhi, ma non lo turbava mai in profondità.

    Gli sfiorò la spalla, un contatto rapidissimo per non rischiare di rovinargli la giacca.

    Ma prima che potesse dire qualcosa, la sensazione di essere diventata un puntaspilli la scosse tutta. La familiare mancanza di fiato, la ben nota spinta interna che dilatava il suo corpo...

    Tutti e tre ci si mettono!

    Come sempre. Si davano man forte l'uno con l'altro. C'erano occasioni in cui Seluma era lieta delle loro visite. Ma detestava, in assoluto, quando si manifestavano in pubblico.

    Il dolore le offuscava la visione, la lasciava a navigare in un miasma grigio, le voci degli altri erano solo suoni disincarnati e gorgoglianti.

    Luoth continuava a ciarlare, ignaro.

    «È ovviamente una cosa senza senso. Il carrello è rimasto vittima di un tremendo incidente che gli ha fatto saltare qualche rotella. Del

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