Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il segreto dell'aragosta
Il segreto dell'aragosta
Il segreto dell'aragosta
E-book206 pagine3 ore

Il segreto dell'aragosta

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Marco Boffi, un giornalista romano del “Messaggero”, riceve una telefonata allarmante da parte di un chimico, Alfredo Della Trave, impiegato alla Crystal di Milano, una prestigiosa società americana produttrice di gemme preziose. L’uomo è pronto a denunciare una grande truffa ai danni di dipendenti e clienti. Proprio nel momento in cui Boffi inizia a collaborare con le forze dell’ordine per scoprire cosa ci sia dietro la parziale confessione del ricercatore, Della Trave viene assassinato insieme alla moglie, e l’aragosta, unica testimone dell’omicidio, conserva il segreto. In un crescendo di suspense e colpi di scena, il giornalista, insieme alla seducente Alice e all’ispettore Roberto Nanni, riuscirà a scoprire un losco giro di affari che si reggono su delitti e misfatti orchestrati dall’altra parte dell’oceano.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2023
ISBN9788832816600
Il segreto dell'aragosta

Correlato a Il segreto dell'aragosta

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il segreto dell'aragosta

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il segreto dell'aragosta - Salustri Moira Enrica

    Prologo

    Repubblica dello Zimbabwe, 1989

    Miniere di Sandawana

    Nel selvaggio Zimbabwe, al confine con lo Zambia, si estende un vasto e brullo territorio occupato da alcune delle miniere più prosperose d’Africa.

    Davanti all’entrata di una di queste miniere, tre guardie, nelle stropicciate uniformi senape, erano distese a terra in una posa scomposta con i fucili abbandonati al proprio fianco. A un primo sguardo, gli uomini si perdevano come macchie di colore davanti all’immensa circonferenza dell’albero di baobab che li sovrastava, guardandoli dai suoi venti metri di altezza ed ergendosi gigantesco su di loro.

    La goffa struttura poteva arrivare a mantenere al suo interno fino a centoventimila litri di acqua: una cisterna immensa per una regione perennemente assetata e afflitta spesso dalla piaga del colera.

    I tre uomini erano intenti ad alleviare il calore intenso, cercando refrigerio all’ombra del colosso; chiacchieravano sommessamente in tswana, mettendo in mostra le dentature gialle, irregolari, fumando pigramente tabacco. Facevano parte dell’Unità dell’Esercito Nazionale, appositamente creata per vigilare e bandire il commercio illegale di pietre preziose.

    L’entrata della miniera era larga e il terreno, fin dai primi metri, scendeva rovinosamente in una galleria buia e spigolosa illuminata dalle lampade ad acetilene, che si affievolivano man mano che ci si calava nel punto più interno della montagna.

    Dall’esterno, si udivano i tonfi ovattati e alterni dei picconi che si abbattevano lenti sulla nuda pietra e nuvole di polvere fuoriuscivano dall’ingresso.

    All’interno invece, l’aria calda intrisa di tanfo di sudore e di urina era soffocante, come l’alito di un grosso pachiderma dalle fauci marce, e si infiltrava tra le pareti di roccia scheggiata.

    La luce fioca faceva intravedere gli uomini curvi sul selciato e le schiene lucide dalla pelle ambrata imperlate da una miriade di minuscole gocce di sudore, che scendevano dal collo verso le scapole, fino a incanalarsi e confluire nel solco della colonna vertebrale.

    Un canto sommesso accompagnava e scandiva il tempo, ritmando il lavoro. Da una galleria all’altra era appena percettibile, ma di grande conforto alle anime degli uomini che, come in un girone infernale, erano condannati al lavoro duro per pochi dollari zimbabwesi.

    Mufasa, il minatore, lavorava lì; gli era stato affidato un grande angolo della seconda galleria di destra, non tutti avevano così tanta parete, era un onore destinato a pochi.

    A ogni picconata la colonna si tendeva per poi contrarsi, quando l’uomo alzava l’arnese per brandirlo nuovamente.

    L’ombra proiettata sulla parete svelava una corporatura agile e un corpo un tempo muscoloso.

    Stava chino sulla roccia, cercando di sfruttare quelle esili infiltrazioni di luce, per vedere meglio quella pietra strana che aveva rinvenuto. Si guardava circospetto, cercando di non destare l’attenzione degli altri uomini, che ignari, al ritmo della litania, continuavano a picconare la roccia. Il minatore aveva tra le mani una gemma, poteva sembrare verde ma, vista la poca luminosità, non ci avrebbe giurato.

    Sorrise, sentendosi emozionato, come un bimbo di fronte alla sua prima esperienza di caccia, e si sarebbe messo a saltare e urlare per la gioia, ma non poteva, doveva essere molto attento. Trattenne l’euforia, ricomponendosi subito.

    Grande, come un pugno, emanava una certa rifrazione anche allo stato grezzo. L’uomo raccolse dall’angolo della cava la tunica lacera e la usò per asciugarsi il sudore, ma soprattutto per nascondere la pietra; guardingo girò velocemente il capo, accertandosi che nessuno si fosse accorto del suo tesoro. Non era la prima volta che aveva la fortuna di trovare delle gemme, ma forse l’unica in cui ne aveva rinvenuta una così grande. Non l’avrebbe data alle guardie, non stavolta, ormai la decisione era presa. Non sapeva ancora bene come avrebbe fatto, ma era deciso a utilizzare il ritrovamento per dare una svolta alla sua vita, offrendo una possibilità alla sua famiglia. Avrebbe deciso più tardi dove nasconderla meglio, per poter ingannare le guardie e uscire dalla miniera. Già sapeva che sarebbe stata un’impresa molto difficile e poteva costargli tanto.

    Inginocchiato a tre metri da lui, lavorava un ragazzo, Anatoli Mussai, poco più che tredicenne e soffriva di asma da tempo. Anche Mufasa aveva un figlio… Le lacrime gli salirono subito agli occhi e ci volle tutto il suo autocontrollo per cacciarle indietro.

    Lo sguardo si fissò sui piedi nudi del ragazzo, che arrancavano tra le fessure della roccia. Mufasa lo guardava con occhi carichi di pena, gli era veramente affezionato, ma aveva spesso pensato che presto il ragazzo sarebbe morto.

    Che vita poteva essere quella, dove l’infanzia veniva rubata, spezzata, buttata… Forse sarebbe morto presto anche lui, ma magari quella pietra poteva fare la differenza tra la vita e la morte; probabilmente, se avesse avuto fortuna e fosse stato scaltro, lui non avrebbe mai più lavorato in miniera.

    Ora Mufasa sapeva che la sua sorte poteva cambiare, se solo fosse riuscito a uscire sano e salvo, eludendo l’ispezione dei sorveglianti. Con il ricavato della vendita di quella gemma avrebbe potuto liberare suo figlio Abdul, rapito dai ribelli e costretto a un orribile destino: diventare un bambino soldato.

    In un Paese come lo Zimbabwe dove l’aspettativa di vita sfiorava i quarant’anni, l’uomo sentiva che la sua stava iniziando solo ora.

    Supponeva si trattasse di uno smeraldo e, secondo la religione animista, trovarne uno era un segno propizio, che avrebbe portato grande gioia e notevoli benefici.

    Sicuro che la buona sorte lo accompagnasse, Mufasa decise di occultare la pietra nell’unico nascondiglio possibile cioè nel turbante, ormai lacero, ma che una volta doveva aver visto tempi migliori; facendo attenzione a incastrarla nel groviglio dei suoi folti ricci neri, poi continuò a lavorare. Era importante non destare sospetti. Ma si accorse che Anatoli lo stava guardando e Mufasa sentì il terrore crescergli dentro. Cosa avrebbe fatto il ragazzo? Lo avrebbe denunciato? Continuò a fissarlo cercando di capire le sue intenzioni.

    Come tutti i giorni, quando il sole cominciava la sua lenta discesa verso ovest, striando il tappeto blu del cielo di venature arancioni e le cicale iniziavano la loro melodia, Mufasa finì il suo turno di lavoro, raccolse il piccone, la ciotola dei viveri e s’incamminò verso l’uscita.

    I minatori si misero ordinatamente in fila, aspettando il proprio turno di ispezione. Mufasa lasciò da parte gli utensili e fece altrettanto. Le mani tremavano, costringendo il minatore a incrociarle al petto e quelle, per la tensione, si aggrapparono disperatamente alla tunica impolverata. Anatoli lo precedeva e ogni due passi in avanti si fermava, voltandosi a guardarlo. Mufasa sentiva rimbombare il ritmo forsennato del suo cuore e mano a mano che si avvicinava al controllo, la bile risaliva lenta su per le budella che nel frattempo si erano aggrovigliate per la tensione.

    Le guardie, intanto, erano pronte per passarli in rassegna. Controllavano meticolosamente tutti, facendo svuotare le tasche e togliere le scarpe, anche per il turbante stessa cosa. Anatoli aveva passato il controllo, ma non era andato via, lo stava aspettando. Possibile che volesse tradirlo? Eppure lo aveva trattato sempre come un figlio… Mufasa si mise di fronte alla guardia che salutava regolarmente, quella gli abbozzò un sorriso di rimando. Le mani trasudarono quel poco di liquidi che ancora gli rimanevano in corpo, ma ormai doveva rischiare il tutto per tutto. Guardò al di sopra della spalla della guardia e finalmente vide sul volto di Anatoli un abbozzo di speranza. Anche il ragazzo stava pregando per lui.

    Alcuni minatori venivano invitati, pungolati dai fucili delle guardie, a spogliarsi completamente perché alcune volte erano state rinvenute pietre persino nelle parti intime.

    Mufasa sperava di evitare un controllo così minuzioso. Cominciò a srotolare il turbante con lenta pigrizia, sperando che l’altro non notasse i rivoli di sudore che scendevano dall’attaccatura dei capelli fino al collo; d’un tratto cominciò a non esser tanto sicuro che le gambe avrebbero retto il peso del suo corpo diventato sempre più pesante per l’ansia che si era caricato addosso. Ora la pietra si reggeva solo per l’effetto ragnatela dei capelli ricci dell’uomo, non avvezzi a essere districati facilmente. Il minatore cercò di non creare scossoni alla sua capigliatura.

    L’uomo in divisa lo perquisì e Mufasa allargò braccia e gambe per permettergli di indagare a fondo sulla sua persona, ma un acceso diverbio, scaturito tra due minatori che stavano discutendo per un piccone, distrasse la guardia. Mufasa approfittò della confusione, avvolgendo velocemente il turbante, prese scarpe e vestiti e si allontanò dall’entrata della miniera.

    Ce l’aveva fatta!

    Quella era stata la parte più difficile.

    Sapeva benissimo che non era permesso nessun traffico personale di pietre e chiunque fosse stato sorpreso a rubare avrebbe subìto l’amputazione degli arti. Purtroppo era successo in passato e difficilmente qualcuno osava ribellarsi, visti i numerosi accattoni con i moncherini che si aggiravano nei villaggi.

    Mugabe, presidente dello Zimbabwe, aveva attuato una strategia governativa ben precisa, affidando il controllo delle miniere a un’azienda di proprietà dello Stato, che aveva i diritti esclusivi di esplorazione e sfruttamento.

    Ventitré anni prima, Mugabe aveva portato il Paese all’indipendenza. Era stato sicuramente la speranza di un futuro migliore per molti, aveva incrementato le produzioni di tabacco e mais, fatto prosperare il commercio della carne proveniente da giganteschi ranch e aumentato le estrazioni nelle miniere di rame, oro, diamanti, smeraldi e pietre dure.

    Però questa ondata di prosperità finì presto, quando il presidente decise che era ora di iniziare una grande riforma agraria: concesse ai veterani della guerra d’indipendenza la rivendicazione delle terre dei bianchi, anche se, purtroppo, non avevano alcuna capacità commerciale né lavorativa. L’idea era quella di ridistribuire i terreni alla maggioranza dei neri emarginati.

    Sei milioni di contadini affamati di terra avrebbero finalmente avuto la meglio su tremila ricchissimi coloni bianchi, sostenuti dal governo britannico.

    Ma non era facile, dopo secoli di colonialismo, abituare i contadini neri a essere finalmente padroni della propria vita e della propria terra. Così, Mugabe venne accusato di aver portato il proprio Paese alla rovina, verso una guerra civile.

    Il clima politico cambiò e andò precipitando sotto una feroce intimidazione, che portò all’uccisione e alla reclusione di molti oppositori del regime.

    Da allora l’economia venne gestita direttamente dal governo, comprese le miniere, che furono sottoposte a un rigido protocollo, mettendo in atto severi controlli a chiunque entrasse e uscisse dalle cavità del sottosuolo.

    Durante il cammino sulla strada di ritorno, Anatoli non aveva proferito parola, limitandosi a seguire Mufasa due passi dietro di lui. Il ragazzo era scalzo e impolverato, ma i suoi occhi vispi e neri avevano ripreso luminosità. Si manteneva costantemente a distanza dall’uomo che venerava come un padre.

    Mufasa procedeva spedito, perso nei suoi pensieri, e gli tornarono in mente tutti gli anni in cui, in passato, aveva subito angherie e soprusi di ogni genere. Era considerato, dai seguaci di Mugabe, un oppositore del governo, perché si era rifiutato di votare la lista di rappresentanza del presidente.

    Così, lui e la sua famiglia si erano visti privare del cibo donato dalle associazioni internazionali e destinato alle popolazioni delle zone rurali. E ora, erano costretti, poveri e affamati, in un micro appezzamento di terra arida ai margini della savana.

    L’unico lavoro che Mufasa poteva fare era presso le miniere, dove la manovalanza era sempre ricercata.

    Immaginò il colore della gemma che gli avrebbe donato fortuna. Sarebbe andato via dallo Zimbabwe, magari al nord, in Egitto, dove sperava ci fossero migliori condizioni di vita.

    Mufasa si sentiva vittorioso, era riuscito a eludere la perquisizione e ora, durante la notte, era ripartito dal villaggio e si stava dirigendo verso la capitale Harare, dove un amico gli aveva detto che c’era la possibilità di contattare un americano, trafficante di pietre preziose. Il ragazzo non demordeva: continuava a seguirlo ostinatamente, nonostante Mufasa gli intimasse di andar via.

    Le miniere distavano dalla capitale Harare diversi chilometri, ma Mufasa e Anatoli sembravano avere le ali ai piedi. Costeggiarono il Matusadona National Park, stando bene attenti a non incappare nelle guardie.

    Il parco aveva preso il nome dalle dolci colline con il lago Kariba a nord e i fiumi Ume e Sanyati a sud.

    Due elefanti grigi erano intenti a bere da una pozza, dove l’acqua era resa bigia dall’ombra di un fico, che si rifletteva su di essa. I due pachidermi guardarono pigramente le due figure umane che si aggiravano furtive lungo la pista di fango, ma continuarono imperterriti a bagnarsi con le loro proboscidi, tirando su fanghiglia melmosa e spalmandola sul dorso.

    Il sole stava ormai scomparendo all’orizzonte in un infuocato tramonto che si stagliava in un cielo immenso, colorando il parco di sfumature marroni. Le ombre cominciarono ad avanzare, insieme ai suoni ovattati della natura e per poco Mufasa non andò a sbattere contro uno gnu, che, immobile, si stava gustando quel meraviglioso spettacolo. Cercavano entrambi di camminare adagio, nascondendosi fra le ombre dei cespugli, bisognava che fossero cauti perché la visibilità era ridotta.

    Dopo un’ora di cammino erano arrivati quasi al limite del parco, a poca distanza dalla città, quando videro davanti a loro una scena che li lasciò pietrificati.

    Sapevano di dover attendere, solo la pazienza li avrebbe premiati. Si acquattarono dietro un grande masso e aspettarono. Il ragazzo aveva gli occhi arrossati per la stanchezza, ma era terrorizzato dalla scena. Si strinse a Mufasa che lo abbracciò teneramente. In fondo non gli dispiaceva avere compagnia, Anatoli lo guardò con venerazione, commuovendosi per quel gesto paterno.

    A due metri da loro, sotto la maestosa circonferenza di un’acacia, un branco di cinque leonesse era intento a finire di cenare. Sembrava la carcassa di un impala o qualcosa che gli somigliava molto. Brandelli di pelle erano sparpagliati un po’ ovunque fra le cinque fiere, che mangiavano di buon gusto emettendo brontolii e piccoli ruggiti di soddisfazione.

    I due fuggitivi speravano di essere sottovento, cercando di evitare che le bestie si accorgessero della loro presenza. Riuscivano a percepire il rumore dei battiti del loro cuore e speravano che quel martellare incessante non arrivasse all’udito delle leonesse.

    Rivoli di sudore imperlavano la fronte di Mufasa, ma si impose la calma e cominciò a respirare lentamente. Poi si posizionò davanti al ragazzo e con movimenti studiati della mano riuscì a calmare la sua ansia.

    Finalmente, dopo una lunga attesa, i due viandanti proseguirono il tragitto, tirando un sospiro di sollievo.

    Arrivando alle porte della città, le luci dei falò in lontananza avvertivano i viaggiatori che il loro tragitto era finito e che avrebbero potuto rifocillarsi in uno dei tanti tuguri, dove il fumo dei calumet si fondeva con l’odore acre del profumo a basso costo delle prostitute, pronte a vendersi per pochi spiccioli. Molte di esse erano affette da sifilide e alcune dall’aids, la piaga del mondo africano.

    Mufasa aveva sentito milioni di volte gli occidentali, volontari delle missioni, che predicavano alla gente.

    Scatole di preservativi venivano distribuite tra la folla accorsa ad ascoltare; i volti degli uomini però non sembravano consci di ciò che gli veniva detto e ridevano nell’aprire e nel provare fra le mani i profilattici. Gridolini di ilarità scoppiarono fra i gruppetti che si formavano a mano a mano che veniva loro spiegato l’utilizzo.

    Mufasa se ne era andato pensando a quanto fossero ipocriti i bianchi: volevano ripulirsi la coscienza, cercando di arginare malattie che loro stessi avevano fatto prosperare. Ora volevano che il popolo africano non mettesse più al mondo figli, figli d’Africa nera.

    La città di Harare era avvolta da un

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1