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Anarres 3
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E-book263 pagine3 ore

Anarres 3

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Fantascienza - rivista (235 pagine) - Ursula K. Le Guin: tributi e dialoghi - James Tiptree book club - Primo Levi e la critica - Tolkien, il folklore e la fantasy - Franz Fühmann - Scienza, magia e fantascienza - Recensioni


Questo numero di Anarres è unificato dall’attenzione verso dialoghi letterari e culturali, interazioni tra testi, fasi storiche, tradizioni nazionali.

Innanzitutto, è un dialogo collettivo e transnazionale quello intrapreso con Ursula K. Le Guin da chi ha partecipato al forum dedicato al suo ricordo, da Raffaella Baccolini a Eleonora Federici, Carlo Pagetti, Salvatore Proietti, a prestigiosi ospiti internazionali come David Ketterer, Joseph McElroy e Tom Moylan.

Brian Attebery, riprendendo dalla biologia il modello dei mitocondri, presenta la SF, in particolare quella delle donne, come un “book club”, libri che cooperano scambiando motivi, concetti, omaggi, e che si rendono possibili a vicenda, le revisioni anche modi per dare nuova vita alla memoria di testi e scrittrici (e scrittori) precedenti. E i book club sono molti, dagli Inkling alle reti testuali di autrici che coinvolgono Le Guin, Tiptree, Fowler, Atwood, Russ, Haraway, fino alla scena odierna.

Roberta Mori legge il rapporto di Primo Levi con la critica italiana contemporanea, rivelatore sia di inattese consonanze sia di tanti preconcetti: ma davanti al dialogo sovente negato, Levi ne instaura uno con la SF che leggeva.

Anche quello tracciato da Alessandro Fambrini per Franz Fühmann, importante voce anche fantascientifica nel dissenso della Germania Est, è un dialogo possibile con figure inglesi e americane come Pohl & Kornbluth e Naomi Mitchison.

La conversazione è letteralmente la forma scelta dal compianto Riccardo Valla, in collaborazione con Antonino Fazio, per parlare dell’intrico concettuale costituito da scienza, magia, religione, fantascienza, fantasy.

Scrivendo su J.R.R. Tolkien, Proietti ipotizza una visione giustificata dai riferimenti teorici alla forma intrinsecamente dialogica del folklore, leggendo apertura e incompiutezza come intrinseche alle sue affabulazioni – una strada seguita da una parte della fantasy statunitense d’oggi.

Con recensioni di Fazio, Proietti, Giovanni De Matteo e Daniela Guardamagna.


Salvatore Proietti insegna Letterature anglo-americane all'Università della Calabria, ed è direttore di Anarres. Fra i suoi lavori più recenti, la cura di Henry David Thoreau, Dizionario portatile di ecologia (Donzelli 2017), e saggi su Samuel R. Delany (Leviathan, A Journal of Melville Studies, 2013) e sui conflitti razziali in Philip K. Dick (in Umanesimo e rivolta in Blade Runner, a cura di Luigi Cimmino et al., Rubbettino 2015), e una panoramica storica della SF italiana (in Science Fiction Studies, 2015), oltre alla riedizione della traduzione di Paul Di Filippo, La trilogia steampunk (Mondadori 2018).

LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2019
ISBN9788825408126
Anarres 3

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    Anteprima del libro

    Anarres 3 - Salvatore Proietti

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    Editoriale

    di Salvatore Proietti

    Ad Anarres, Ursula K. Le Guin ha lasciato un ultimo regalo, nel contatto con Brian Attebery per l’articolo qui tradotto: per questo, e tanto altro, il più sentito ringraziamento. Figlia di antropologi della generazione che per prima aveva teorizzato e praticato l’osservazione partecipante, Le Guin è stata un’antropologa rispettosa delle alterità, attenta all’ascolto delle storie che le sue creazioni fantastiche avevano da raccontare – e ci ha trasmesso un esempio etico nella narrativa e nella critica.

    Anche in Italia, ad aprire la strada ad approcci seri alle culture popolari sono stati innovatori democratici dell’antropologia come Ernesto de Martino (e Gianni Bosio, e Giulio Angioni – e pensiamo agli studi sui vampiri di Vito Teti, o sulla musica e sulla SF/F di Alessandro Portelli, storico orale oltre che americanista, e anche all’attenzione verso la fantascienza, da sociologo, di Paolo Jedlowski). L’osservazione partecipante implica disponibilità a imparare dagli altri mondi (learning from other worlds, diceva il titolo del Festschrift dedicato qualche anno fa a Darko Suvin), non un esame dall’alto mirato solo a riaffermare la posizione di potere dell’analista: gli esploratori positivisti-colonialisti davanti ai nativi come la rigida gerarchia del canone (e/o di a priori ideologici) davanti a forme culturali diverse, lontane dai parametri di attribuzione del capitale culturale. Anche per questo in Italia sono state le lingue e letterature straniere, per cui lo studio dell’alterità è la ragion d’essere, più di altri campi, ad accogliere i generi popolari senza pregiudizi.

    Perché la SF/F ha una storia tutta sua, storie tutte sue, nella scrittura e nei media visivi, reti di voci, scuole, presenze, istituzioni che a partire dalla loro autonomia intrecciano dialoghi con altri ambiti culturali. Forse, per dirla con Carlo Ginzburg, storico delle culture subalterne, quella della fantascienza è una micro-storia, importante perché fornisce un punto di vista differente da quelli dominanti. Ma forse, da molto tempo, sono culture e letterature minori come la SF, come dice Rosi Braidotti (e sul suo recente Il postumano dovremo tornare), a essere particolarmente preziose.

    Quei pregiudizi non sembrano del tutto superati in Italia. Se i richiami a invarianti astoriche sono (speriamo) residuali, troppo spesso si trovano, in termini liquidatori, generalizzazioni e semplificazioni estetiche (sull'invenzione linguistica, sui protocolli di fruizione, sulla commercialità anche di classici troppo sospetti) o politiche (che vedono ovunque forme di manipolazione) – la negazione dell’idea stessa di una specificità dei generi, della loro storia e del loro studio, che rivela e talora rivendica il rifiuto di una posizione partecipante.

    Questo numero di Anarres, senza volerlo, è diventato qualcosa di molto simile a un volume a tema, unificato dall’attenzione verso dialoghi letterari e culturali, interazioni tra testi, fasi storiche, tradizioni nazionali.

    Brian Attebery ci offre, in un intervento solo apparentemente informale, uno dei più importanti contributi teorici degli ultimi anni. Riprendendo dalla biologia evolutiva il modello dei mitocondri, Attebery presenta la SF, e in particolare quella delle donne, come un book club, libri che cooperano scambiando motivi, concetti, omaggi, e che si rendono possibili a vicenda, le revisioni successive anche modi per dare nuova vita alla memoria di testi e scrittrici (e scrittori) precedenti. E i book club di cui ci parla sono molti, al plurale, da quello di mutuo sostegno e lettura degli Inkling fino alle reti testuali di autrici donne in un dialogo che riconosce e sottolinea l’esistenza della tradizione (ignorare l’uno significa cancellare l’altra), reti che coinvolgono Le Guin, Tiptree, Fowler, Atwood, Russ, Haraway e tantissime altre, fino alla scena odierna – e indietro fino a Virgilio, in una collaborativa euforia dell'influenza che è il contrario delle ansie e angosce dell'individualismo agonistico di una canonicità tutta macho.

    Ovviamente, è un dialogo collettivo e transnazionale quello intrapreso con Le Guin da chi ha partecipato al forum a lei dedicato, con ospiti prestigiosi per cui rimandiamo alla presentazione.

    Nel saggio di Roberta Mori, giovane studiosa dal rigore esemplare, si legge il rapporto di Primo Levi con la critica italiana contemporanea, rivelatore sia di inattese consonanze sia di tanti preconcetti. Allora potremmo provare a estendere il discorso del book club: davanti al dialogo sovente negato, la SF di Levi ne instaura uno con gli autori che leggeva (dagli amici Vacca e Calvino a Brown, Clarke, Huxley, a italiani come Domenico Garelli, o al collega chimico Sandro Sandrelli che ospita un suo racconto su Interplanet, e che avrebbe tradotto anche Tiptree), ed è tutto da esplorare quello con la fantascienza degli autori di origine ebraica, a partire da Sheckley e Vonnegut – un dialogo che continua negli omaggi contemporanei, da C.C. Finlay a David Mitchell e Lavie Tidhar, e anche Le Guin

    Anche quello tracciato da Alessandro Fambrini per Franz Fühmann, poco tradotto ma importante voce anche fantascientifica nella cultura del dissenso della Germania Est, è un dialogo possibile con figure inglesi e americane come Pohl & Kornbluth e Naomi Mitchison; una ricerca in rete ne rivela la partecipazione a una rete intertestuale che abbraccia altri dissenzienti vicini alla SF come Christa Wolf, Stefan Heym e Günter Kunert, o come Johanna e Günter Braun che sono fra i suoi modelli, e il critico Franz Rottensteiner che in Austria si occupa di lui, nell’immediato e in anni seguenti, sulla sua rivista.

    Il dialogo è letteralmente la forma più volte scelta da Riccardo Valla in collaborazione con Antonino Fazio, per parlare dell’intrico concettuale costituito da scienza, magia, religione, fantascienza, fantasy – sollevando dubbi, interrogando testi, senza conclusioni definitive: un buon esempio di metodo scientifico. Questo è probabilmente l’ultimo inedito di un rimpianto pioniere della critica italiana, leguiniano insigne e figura centrale nella scena del fantastico, anche nella promozione di nuove voci.

    Scrivendo su Tolkien, il mio articolo prova a ipotizzare una visione più aperta, giustificata dai suoi riferimenti teorici alla forma intrinsecamente dialogica della narrazione folklorica, leggendo apertura e incompiutezza come intrinseche alle sue affabulazioni. Su questa strada dialogica ha scelto di incamminarsi almeno una parte (non casualmente, composta soprattutto di autrici) della fantasy statunitense d’oggi.

    A loro volta, le recensioni riguardano libri che si sono occupati, in modo diverso, di fantastico e fantascienza tracciandone linguaggi, percorsi collettivi (dal femminismo all’icona marziana al rapporto con la cultura scientifica) o individuali (ancora Levi, su cui auspichiamo l’interesse prosegua), con un dovuto omaggio all’opera fondativa di Carlo Pagetti; e, in qualche caso, ripercorrendo gli usi ideologici delle narrazioni non mimetiche.

    Negli ultimi anni, altri volumi sono stati altrettanto rispettosi, dalla carrellata storica di La fantascienza nella letteratura araba di Ada Barbaro (Carocci 2013); a quella tematica su animal studies e fantastico latinoamericano in Raccontare gli animali di Emanuela Jossa (Le Lettere 2012); alla presenza (mitocondriale?) di classici inglesi come Coleridge e Defoe – presenze fra le tante, tutte meritevoli di future ricerche – in Ballard in Oltre la fantascienza: Paradigmi e intertestualità nella narrativa di J.G. Ballard di Valentina Polcini (Aracne 2013); o la recente, pionieristica esplorazione post-coloniale di Other Worlds and the Narrative Construction of Otherness a cura di Esterino Adami, Francesca Bellino e Alessandro Mengozzi (Mimesis 2017). Insieme agli studi su cinema e televisione, nei migliori tra i quali è forte il lascito di Franco La Polla, oltre ai fumetti ora il mondo dei giochi, troppo spesso oggetto di pregiudizi, sta diventando soggetto di seria analisi. Anche ai media non scritti speriamo di rivolgerci in futuro.

    Insieme alle nuove presenze nel comitato scientifico, colgo l’occasione per rivolgere un ringraziamento alle traduttrici che in tutti questi numeri hanno prestato la loro opera per Anarres: anche il loro entusiasmo e la loro competenza rendono possibile una rivista dal profilo sempre più internazionale.

    Il club di lettura di James Tiptree Jr.; ovvero, una teoria mitocondriale della letteratura

    di Brian Attebery

    traduzione di Roberta Berlingò

    Precedenti all'organismo di cui sono parte, e allo stesso tempo mantenendo la loro autonomia di azione, i mitocondri offrono un utile modello per l'intertestualità della SF/F, e specialmente di quella delle donne. Il dialogo fra testi, e tra chi li scrive e legge, può essere riconosciuto e valorizzato al meglio soltanto se si consente alle comunità sorte dalla pratica della scrittura e della lettura di compiere il suo ruolo. La cancellazione della SF delle donne è funzione della cancellazione di questi sforzi collettivi, azioni che spesso vanno oltre nozioni autoritarie del controllo autoriale; in effetti, alla bloomiana angoscia dell'influenza, tutta al maschile, si sostituisce un'euforia dell'influenza che, frutto della scrittura delle donne, consente una permanenza anche agli autori maschi omaggiati e riscritti.

    Il presente saggio è stato letto come keynote speech conclusivo del 2016 James Tiptree Jr., Symposium: A Celebration of Ursula K. Le Guin, svoltosi alla University of Oregon, a Eugene, 2-3 dicembre 2016, ed è stato pubblicato con il titolo The James Tiptree Jr. Book Club; or, A Mitochondrial Theory of Literature sulla rivista online Tor.com (dic. 2016). Ringraziamo Brian Attebery per averci concesso di tradurlo, e per la sua collaborazione nella compilazione della bibliografia. [SP]

    Probabilmente sarà necessario il mio intero intervento per spiegarne il titolo. Parlerò dei mitocondri, ma non ancora. Per prima cosa, i club di lettura. Un po’ di mesi fa, ascoltando un podcast di Lightspeed Magazine, ho sentito un racconto dal titolo The Karen Joy Fowler Book Club, di Nike Sulway. Di Sulway avevo letto e mi era piaciuto molto il romanzo Rupetta, vincitore del premio Tiptree, ed ero affascinato dal titolo della storia, un riferimento diretto a The Jane Austen Book Club (2004), che è uno tra i miei dieci romanzi preferiti di Karen Joy Fowler. Non appena ho iniziato ad ascoltare la storia, ho capito immediatamente come interagiva con l’opera di Fowler, non solo nel titolo ma anche nel paragrafo iniziale. Inizia così:

    Dieci anni fa, Clara aveva frequentato un seminario di scrittura creativa condotto da Karen Joy Fowler, e quel che Karen le aveva detto era: Viviamo in un mondo fantascientifico. Durante il seminario, Karen Joy continuava a dire: Parlerò dei finali, ma non ancora. Tuttavia Karen Joy non aveva mai trovato il tempo di parlare dei finali e Clara aveva lasciato il seminario con la sensazione di esservi rimasta sospesa dentro, in attesa, trattenendo il respiro. (Sulway Karen)

    Il che è assolutamente tipico di Karen e indubbiamente intenzionale. Tuttavia, la storia di Sulway prende una serie di pieghe diverse e inaspettate che la collegano non solo con Fowler – e indirettamente con Jane Austen attraverso il titolo – ma anche con James Tiptree, Jr. Clara e il resto del suo club di lettura, a quanto sembra, non sono umani, sebbene abbiano nomi, case, giardini, e club di lettura, ma sono rinoceronti. Sono gli ultimi rinoceronti, che vivono una graduale estinzione. La causa dell’estinzione non viene mai nominata, ma siamo chiaramente noi, poiché nel racconto il mondo reale esiste, come uno sfondo distorto. Il bracconaggio e l’indifferenza umana hanno già sterminato i rinoceronti neri occidentali nella storia reale e sono in procinto di farlo ad altre sottospecie. Nella storia di Sulway lo humor è intrecciato in maniera inestricabile con la rabbia e con una profonda tristezza, e anche questo è assolutamente tipico di Karen Joy Fowler, ad esempio in una storia dal titolo What I Didn’t See.

    La storia di Fowler ha vinto un premio Nebula, suscitando lo sdegno di un certo numero di uomini (ma non di donne, che io sappia) perché non era veramente fantascientifica. Tuttavia lo è, o per lo meno dialoga con la fantascienza, e la scrittrice con cui sta avendo una chiacchierata intensa e alquanto dolorosa è Tiptree, di cui riecheggia nel titolo il classico The Women Men Don’t See (1973). Nella storia di Tiptree troviamo la giungla, il razzismo, gli alieni e donne che si chiamano fuori dal sistema patriarcale. Anche Fowler lo fa, tranne per il fatto che il suo continente è l’Africa piuttosto che la Meso-America, e che i suoi alieni sono nati sulla terra. Sono gorilla di montagna. La storia tratta di una spedizione per cacciarli, con la motivazione, stranamente confusa, di far sembrare i gorilla meno formidabili – e perciò con meno probabilità di esser massacrati – mostrando che perfino una cacciatrice donna è in grado di abbatterne uno. Ciò suggerisce un altro collegamento con Tiptree, o meglio con la donna che era l’alter-ego di Tiptree nel mondo reale, e con la biografia scritta da Julie Phillips, James Tiptree, Jr.: The Double Life of Alice B. Sheldon (2006). Phillips inizia la sua biografia con un’immagine dall’infanzia di Sheldon:

    Nel 1921 nel Congo belga, una bambina di sei anni proveniente da Chicago con un elmetto da esploratore sui ricci biondi cammina in testa a una fila di portatori nativi. Sua madre le cammina accanto, tenendo un fucile e la mano della figlia. (1)

    I genitori di Sheldon erano esploratori che avevano portato la figlia con sé, forse con motivi simili a quelli degli esploratori nella storia di Fowler: far sembrare l’esotico meno rischioso e più in pericolo. Questo non impedì al gruppo di uccidere: elefanti, leoni, e cinque gorilla (sebbene avessero la licenza per meno della metà di quel numero). La biografia di Phillips include una foto di Mary Hastings Bradley, la madre di Sheldon, in posa con guide native e una pistola. Phillips sottolinea che la stessa spedizione nella quale vennero uccisi i cinque gorilla – assieme al libro che Bradley scrisse al riguardo, On the Gorilla Trail – fu un punto di svolta nel sentimento popolare nei confronti delle grandi scimmie, portando alla creazione di riserve per la fauna selvatica, allo scopo di proteggere i gorilla e altre specie.

    Dunque la storia di Sulway ci invita a leggerla assieme a molti altri testi: un romanzo e un racconto di Karen Fowler, una storia e una biografia di Alice Sheldon, e il memoir della madre di Sheldon. Ma non è tutto. Il romanzo di Fowler è anche, ovviamente, immerso nell’opera di Jane Austen. Si può leggere The Jane Austen Book Club come ha fatto mia moglie, inframmezzandone i capitoli con la rilettura dei relativi romanzi di Jane Austen, e probabilmente è il modo ideale per leggerlo. Il libro di Fowler sta in piedi da solo, ma così dove sarebbe il divertimento? L’avanti e indietro del dialogo fra testi è molto più ricco, più problematico e più significativo. E non chiama in causa solo Austen: attraverso uno dei personaggi, il libro ci invita a leggere Connie Willis, Nancy Kress, e specialmente Ursula K. Le Guin, che è sempre un consiglio eccellente.

    Intervistata nel 2004 su What I Didn’t See, Fowler menziona alcune delle sue ispirazioni, che includono non solo The Women Men Don’t See di Tiptree, ma anche, dice,

    un saggio di Donna Haraway che contiene una sorprendente affermazione, […] che nei primi anni Venti, un gruppo fu condotto nella giungla dall’uomo che dirigeva il Museum of Natural History di New York, e che il suo scopo era che una delle donne uccidesse un gorilla. Era dell’opinione che i gorilla fossero visti sempre di più come una selvaggina eccitante e pericolosa, e che essi fossero in realtà molto gentili, e che se una donna ne avesse ucciso uno, il brivido sarebbe scomparso. Quindi il suo piano era proteggere i gorilla facendo sembrare la loro uccisione come una cosa che qualsiasi ragazza poteva fare. Questo mi affascinava (e mi riempiva di sgomento), ma un paragrafo più giù, rimasi estremamente sorpresa leggendo che una delle donne che avevano preso parte alla spedizione, una delle due donne da lui scelte per interpretare quella parte, era la madre di James Tiptree. (Lawrence)

    Verso la fine della storia di Fowler, il narratore commenta che, dopo gli omicidi e la sparizione di uno dei suoi membri, gli esploratori erano tutti noi, completamente fuori di noi stessi (185). Così la storia di Fowler non solo guarda indietro, verso l’infanzia di Tiptree, e di lato, verso la scienza femminista di Haraway, ma anche avanti (in una specie di viaggio nel tempo), verso la biografia di Tiptree, pubblicata un paio d’anni dopo, e il proprio romanzo We Are All Completely Beside Ourselves (2013), che non sarebbe apparso prima di quasi un decennio.

    Potete immaginarlo come un raduno di testi che la pensano allo stesso modo: una sorta di club i cui membri sono libri. Immaginateli incontrarsi per fare gossip, condividere idee, e lamentarsi insieme di come il mondo li stia ignorando o li stia interpretando male. Non vorrei forzare troppo questa metafora – potreste fare una piccola pazzia, agghindarli di cappelli da sole e dar loro piattini di biscotti e bicchieri di vino – ma l’idea di un club per soli libri mi aiuta a vedere come i riferimenti interni funzionano all’interno delle storie di cui parlavo.

    Il tradizionale termine retorico per questa pratica è allusione. Negli elenchi degli artifici letterari, solitamente trovereste il termine subito dopo allegoria. L’implicazione è che le connessioni trans-testuali siano soltanto un modo per abbellire un testo. È quello che le persone generalmente pensavano anche della metafora, fino a quando George Lakoff e Mark Johnson hanno detto (sto parafrasando) Fermi! Questi non sono solo ornamenti. La metafora è un modo di pensare. L’intuizione di Lakoff e Johnson è che la metafora sia parte del nostro equipaggiamento mentale di base. Il loro libro Metaphors We Live By (1980) mi dà il permesso di fare due cose: una è cercare aspetti cognitivi fondamentali nella pratica di riferirsi ad altri testi; l’altra è cercare ulteriori metafore per descrivere questa operazione, poiché termini non metaforici come riferimento, allusione, e anche l’intertestualità di Julia Kristeva, sono ingannevolmente astratti.

    Una cosa che manca in questi termini è la funzione sociale della letteratura: il modo in cui i testi si collegano con persone così come con altri testi. Ci plasmano e ci ispirano, e dipendono da noi per essere portati in vita. La mia metafora del club dei libri non ha persone al suo interno, ma quei libri non si metteranno in circolo da soli. E la circolazione è parte centrale dell’intertestualità. Ecco perché abbiamo movimenti e revival letterari: per tenere i testi davanti a noi, così che ci si possa riferire a loro o comunque farli rimanere in uso. E, davvero, è il motivo per cui esistono critici e studiosi come me. La nostra funzione principale è continuare a ricordare i grandi libri che sono là fuori e insegnare come vedere quella grandezza. Siamo sia cheerleader che guide turistiche. Ogni opera letteraria che riteniamo importante ha avuto una quota di entrambi i ruoli. Senza Melville a condurre il tifo, non avremmo visto Hawthorne come un genio oscuro. La poesia modernista aveva bisogno di Ezra Pound e I.A. Richards per guidare i lettori nell’apprezzamento. Così il club dei libri è anche un club degli amanti dei libri, il che significa che la mia metafora è collassata nel letterale, ma non completamente. I club di lettura reali tendono a esser formati prevalentemente da donne, ma il Critical Establishment Book Club (scritto tutto in maiuscolo) tende a essere in prevalenza fatto di uomini. E gli uomini hanno una stupefacente capacità di dimenticare o sottovalutare le donne.

    Molti anni fa Joanna Russ scrisse How to Suppress Women’s Writing (1983), che appartiene al club dei libri di cui vi ho parlato, poiché è un altro modo per parlare delle Donne che gli Uomini non Vedono. Inoltre, fa riferimento esplicito a scrittrici come Vonda N. McIntyre, Ursula K. Le Guin, Suzy McKee Charnas,

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