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Il ragazzo che sussurrava alle onde
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E-book345 pagine4 ore

Il ragazzo che sussurrava alle onde

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Info su questo ebook

Il ragazzo che sussurrava alle onde, è una storia piena zeppa di amore declinato in tutte le sue forme: amore materno, amore amicale, amore passionale. L'indole nobile e sincera di Marco regala al lettore una prospettiva in cui anche dalle delusioni più cocenti, se si affronta tutto con forza e lealtà, ci si può rialzare e diventare ancora più forti di prima.

L'amore vince su tutto, nulla è più vero per Marco, un ragazzo giovane sì, ma che riesce a dare vere e proprie lezioni di vita a chi è più grande di lui.

La passione per uno sport sincero, la lealtà verso gli amici, l'amore incondizionato per la famiglia, rendono questo romanzo un vero e proprio scalda-cuore, da leggere per ritrovare la fiducia nei buoni sentimenti.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2019
ISBN9788831610780
Il ragazzo che sussurrava alle onde

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    Anteprima del libro

    Il ragazzo che sussurrava alle onde - Marco Siani

    633/1941.

    PREFAZIONE

    Marco ha diciannove anni, è un ragazzo coscienzioso, pieno di sani valori e bravo a scuola.

    Frequenta l’ultimo anno di liceo e ama il mare con tutto se stesso, elemento in cui si sente perfettamente a suo agio.

    Nella bellissima Amalfi, la sua città Natale, Marco pratica windsurf da una vita: ogni mattina, prima di andare in classe, il giovane campano si tuffa nel Tirreno lasciando a riva pensieri, preoccupazioni o problemi.

    Solo lui e il mare, che parla al ragazzo la sua lingua di onde e salsedine, che lo culla in un ventre materno, protetto dalle carezze del vento e dall’abbraccio dell’acqua.

    Marco, col suo corpo scolpito dallo sport, non è solo un bravissimo ragazzo, ma è anche bello come un dio greco. Tutti lo amano, a cominciare da Ester, la giovane e dolcissima madre di Marco.

    Ester è una donna coraggiosa e forte, ma la cui tenerezza non è stata scalfita dalle disavventure della vita: quando il figlio aveva solo quattro anni, infatti, il padre di Marco, capendo di non essere tagliato per il ruolo di genitore, abbandona la donna e il bambino senza nemmeno volarsi indietro, lasciando Ester sola.

    La fortuna della donna e del piccolo è Bruno, il papà di Ester, nonno di Marco, rimasto vedevo anzitempo, che diventa un vero e proprio pilastro nella vita dei suoi più grandi amori: figlia e nipote.

    Poi c’è Luigi, l’inseparabile Gigio, amico fraterno del diciannovenne; i due stanno sempre insieme, uniti contro ogni avversità, complici oltre ogni dire.

    Questa vita che parrebbe idilliaca, un bel giorno, però, subisce un’incrinatura: Marco, che prima di recarsi a scuola si dedica al windsurf ed è solito lasciare la tavola nel parcheggio del suo liceo, ritrova la sua attrezzatura completamente distrutta.

    Chi ha mai potuto fargli una cosa tanto crudele?

    Chi lo odia a tal punto da distruggergli una tra le cose più preziose?

    Tornato a casa in lacrime, Ester e Bruno cercano di rincuorare il giovane che, in preda a uno sconforto totale, non riesce a darsi pace per quanto accaduto.

    La sua grandissima sensibilità lo porta a farsi delle domande e chiudersi nel guscio di una delusione fortissima, che rischia di togliergli il sorriso.

    Se infatti il ragazzo, fino a poco prima, sognava di partecipare alle Olimpiadi di windsurf, ora i suoi sogni sono in frantumi, proprio come la sua bellissima tavola e la sua vela.

    Bruno, non riuscendo a sopportare di vedere il nipote in quello stato, non esita nemmeno un secondo a ricomprare al nipote un’attrezzatura nuova di zecca.

    Se l’umore di Marco cambia radicalmente non appena il giovane può cavalcare di nuovo le onde, un altro fulmine a ciel sereno squarcia la tranquilla quotidianità: questo fulmine ha il nome di Licia Mantovani.

    Licia è la bellissima professoressa di Filosofia del ragazzo, una donna di trentaquattro anni, avvenente, colta e sensuale come mai Marco ne ha conosciute.

    Il diciannovenne campano venera la professoressa torinese come fosse una vera e propria dea, la ama nel segreto del suo cuore, ma pensa che la donna non lo consideri nemmeno.

    Quando un pomeriggio, durante una visita a Paestum, la bella insegnante si lascia andare a un bacio passionale col giovane studente, si innescano una serie di violente reazioni emotive da parte di entrambe.

    Da quel momento la vita di Marco non sarà più la stessa: l’amore travagliato e complicato tra lui e Licia, i duri allenamenti per gareggiare alle Olimpiadi di Miami, incomprensioni e colpi di scena – talvolta dolorosi – dominano questo romanzo che porta alta, anzi altissima, la bandiera dei buoni sentimenti.

    Il ragazzo che sussurrava alle onde, infatti, è una storia piena zeppa di amore declinato in tutte le sue forme: amore materno, amore amicale, amore passionale. L’indole nobile e sincera di Marco regala al lettore una prospettiva in cui anche dalle delusioni più cocenti, se si affronta tutto con forza e lealtà, ci si può rialzare e diventare ancora più forti di prima.

    L’amore vince su tutto, nulla è più vero per Marco, un ragazzo giovane sì, ma che riesce a dare vere e proprie lezioni di vita a chi è più grande di lui.

    La passione per uno sport sincero, la lealtà verso gli amici, l’amore incondizionato per la famiglia, rendono questo romanzo un vero e proprio scalda-cuore, da leggere per ritrovare la fiducia nei buoni sentimenti.

    1

    Era una splendida giornata di fine inverno e su Amalfi, la perla della Costiera, splendeva un caldo sole, il cielo terso e sgombro di nubi dava il benvenuto al nuovo giorno. Le prime luci dell’alba conferivano alla repubblica marinara una bellezza ancestrale di quelle che avrebbero ispirato i grandi poeti greci. Osservare Amalfi all’imbrunire o al sorgere del sole, mentre la foschia della notte arretrava, era impagabile per qualsiasi occhio umano.

    La piccola repubblica marinara era silente, per strada non si vedeva e non si udiva nulla. Lungo la costa, un occhio attento avrebbe potuto scorgere qualche patito del surf o giovani e meno giovani che per mantenersi in forma prima di iniziare una nuova lunga e faticosa giornata amavano passeggiare per le viuzze del comune costiero. Se la giornata meteorologica prometteva bene, il mese in corso invece non garantiva ancora certezze climatiche, marzo, dei dodici mesi del calendario, era quello definito dai pescatori locali il mese pazzo. Lo etichettavano così perché nell’arco della stessa giornata il tempo cambiava più e più volte. Il giorno che precedeva il 10 marzo, ad esempio, c’era stato un violento temporale, venti fortissimi avevano soffiato lungo la costa e il mare ancora una volta aveva fatto la voce grossa.

    Le città dislocate lungo il litorale sono abituate a vivere e a rispettare il mare, per molti costituisce fonte di reddito e di sopravvivenza, tanti infatti ad Amalfi vivono di turismo estivo; il mare, le splendide spiagge, ma anche la pesca con il suo indotto contribuiscono al mantenimento di molte famiglie stanziali. Il piccolo comune della Costiera che però ne battezza il nome conta poco più di cinquemila abitanti, eppure la sua bellezza ammaliatrice le è valso uno degli apprezzamenti più grandi che un essere umano avesse potuto fare. Le Corbusier, una delle più influenti figure della storia dell’architettura contemporanea, vedendola aveva affermato: Non è possibile, ma esiste.

    Erano dunque le prime luci del mattino, e Marco stava scendendo le scale di corsa come spesso faceva quando il mare era carico e le onde erano pronte per essere cavalcate. Erano appena le cinque e mezza e il ragazzo correva verso l’auto, scalzo come spesso gli capitava. Sul tettuccio della Citroen c’era già la tavola da windsurf ad aspettarlo. A bloccarlo furono le urla della madre:

    Marcooooooo!!! Le scarpeeeeee.

    Il ragazzo si era bloccato, aveva guardato a terra, eh sì, la mamma aveva ragione, aveva alzato gli occhi al cielo ed era corso in casa. Sull’uscio, la donna scuoteva il capo.

    Hai ragione, ti prego, non aggiungere altro.

    Mentre correva, entrando, aveva giunto le mani a mo’ di preghiera. Le scarpe erano ai piedi della sedia. Ester le aveva riposte con cura prima di urlare verso il figlio. Marco aveva diciannove anni, nonostante la giovane età per lui la vita era scandita da ritmi precisi, il mare all’alba, soprattutto quando arrivavano le forti mareggiate, la scuola, frequentava infatti l’ultimo anno del liceo scientifico Marini-Gioia di Amalfi, il pomeriggio mare e studio. La sera, distrutto da una interminabile giornata, crollava intorno alle undici. Spesso la madre lo rimproverava, per la donna la vita del figlio era troppo carica di impegni, il suo giovanotto in fondo aveva solo diciannove anni. Ester voleva che uscisse di più, che si divertisse di più, ma le sue prediche, i suoi richiami dovevano fermarsi innanzi al volto felice del figlio quando doveva correre verso il mare, per lui il mare era tutta la sua vita, tutti i suoi sogni e tutti i suoi incubi traevano la linfa vitale dalle acque del mar Tirreno. Per Marco il mare era il suo ambiente naturale, la sua tana, la sua casa.

    Marco, spiegami com’è possibile che tu esca in strada senza portare con te le scarpe. A piedi nudi in mezzo alla strada. Ma com’è possibile che non te ne sei accorto. Sta diventando una costante, figliolo. Inizio a preoccuparmi.

    Il ragazzo sorrise alla mamma, sapeva che la donna si scioglieva innanzi al suo sguardo allegro. È vero che il grande e compianto Pino Daniele aveva cantato che ogni scarrafone è bell’a mamma soja, ma Ester sapeva bene che suo figlio era davvero bello, alto un metro e ottanta, il fisico scultoreo modellato dalle infinite nuotate nel mare cristallino della repubblica marinara, gli occhi azzurri come quelli del cielo, i capelli biondi come i raggi del sole e ondulati come le onde del mare. Quando lo osservava non poteva non vedere se stessa declinata al maschile.

    La donna aveva avuto il suo unico figlio a soli ventun anni, da giovanissima lo aveva cresciuto e amato come solo le mamme sanno fare. Per Marco lei era stata l’alfa e l’omega della sua esistenza, il padre, infatti, a soli cinque anni dalla sua nascita, con una moglie giovanissima, aveva capito di non essere tagliato per il ruolo di marito e di genitore e così era andato via e non aveva voluto avere più alcun contatto con il figlio. L’unica sua presenza era certificata dall’assegno di mantenimento che l’uomo mensilmente erogava alla ex moglie.

    Hai ragione ma’, però u sai che quann c stann l’onde u’ mar m’ chiam.

    Parla italiano, Marco, ti prego che quest’anno hai anche la maturità.

    Il ragazzo infilò le scarpe, si alzò, si avvicinò alla mamma e la baciò sulla guancia.

    Ti voglio bene, mamma.

    Ester gli accarezzò il viso.

    Anche io, ma non farmi preoccupare. Tutta colpa di tuo nonno, ma mi sente, o se mi sente.

    Stai tranquilla, ci so fare con le onde, io e il mare siamo una sola cosa. E lascia stare il nonno.

    E certo, pappa e ciccia tu e papà.

    È il mio mito, lo sai.

    Lo so, lo so e tu sei il suo. Adesso vai, fai attenzione.

    Il ragazzo corse via, aveva lo zaino della scuola sulle spalle, i vestiti che avrebbe indossato dopo aver domato le onde del mare in un sacchetto, la sua seconda pelle, ovvero la muta, quella l’aveva già indossata.

    Ester attese sull’uscio che l’auto scomparisse alla sua vista. Marco e il mare erano un tutt’uno da quando ancora bambino il nonno lo aveva iniziato al surf. Aveva appena cinque anni, era un cucciolo di uomo, e l’acqua era diventata la sua casa. Ricordava quando nonno Bruno era arrivato con in mano quella piccola tavola da surf, una tavola che veniva venduta proprio per far giocare i bambini che cercano di imitare gli adulti fino a quando non si stufano e la gettano via in attesa di un nuovo gioco. Marco invece l’aveva custodita gelosamente, addirittura ci parlava con la sua piccola tavola da surf, l’aveva trattata con cura e garbo come se fosse stata la cosa più preziosa che avesse avuto in dote. Crescendo aveva cambiato diverse tavole, ma non ne aveva mai buttata via una. Il ragazzo le conservava in garage, le custodiva tutte, le pareti della pertinenza erano divenute una sorta di museo del surf. Ne mancava solo una, la sua prima tavola o, come l’aveva battezzata lui, Ripplet, che in inglese significa piccola onda. Ripplet infatti era custodita gelosamente nella sua cameretta, e ancora oggi, a diciannove anni, Marco parlava con Ripplet e nelle lunghe notti insonni sognava in sua compagnia su come riuscire nel suo grande sogno. Diventare il surfista numero uno al mondo, capace di dominare le onde e il mare più di Poseidone. Abitava a pochi metri dal mare, la lunga distesa d’acqua era la sua vita e lo accompagnava 365 giorni l’anno, adesso era lì innanzi alla maestosità di uno degli elementi della natura meno controllabili dall’uomo, innanzi a un mistero che nemmeno comprendeva, eppure quando era lì a pochi passi dall’acqua avvertiva il sangue fluire nelle sue vene in modo diverso, era come se scorresse al contrario, i suoi gangli nervosi erano rilassati e tesi allo stesso tempo. Marco aveva un immenso rispetto per il mare e aveva paura di quelle enormi onde. Ricordava sempre quello che il nonno gli aveva detto da bambino:

    Mi raccomando figliolo, rispettalo e temilo.

    Lo aveva adagiato su Ripplet e con una mano accarezzava il mare.

    Ricorda, Marco, che è la paura della morte a farti vivere. Se crescendo vorrai dominare il mare, lasciati guidare dalla paura, sarà lei a infonderti il coraggio necessario per dominare le onde e per sapere quando inchinarti innanzi a un potere che nemmeno conosciamo.

    Marco era pronto, adorava quando dopo un violento temporale arrivavano le forti mareggiate, quando il mare era in subbuglio, quando i titani si scagliavano contro Poseidone lui si sentiva al di sopra degli dei, e dominare il mare gli conferiva il dominio sulle onde e sugli elementi della natura. Adorava le mareggiate perché capitava spesso che non fosse il vento a dettare il movimento propulsivo della vela e quindi a consentirgli di cavalcare la tavola, ma era il mare, erano le onde a generare l’azione principale e quindi a scandire i movimenti della tavola e la spinta del vento era solo di accompagnamento dandogli un ulteriore slancio verso il potere assoluto sulle acque in tempesta. In America la chiamavano wave riding, ovvero per loro che erano abituati a cavalcare le onde degli oceani una sorta di surf da onda con la vela, che era destinata solo a contribuire alla spinta complessiva.

    Marco era in acqua, aveva lasciato che il mare avvolgesse nel suo abbraccio la tavola, in quei secondi avvertiva il distacco fisico dalla sua amata e ne bramava il ricongiungimento, nuotando la raggiunse, salì a bordo della stessa, recuperando la vela con l’apposita cima di recupero facendo forza sui bicipiti, lasciò che la vela si issasse e così potesse prendere il largo, inclinò il corpo e con esso lasciò che l’albero si inclinasse verso poppa, in quel momento e solo in quel momento il diciannovenne assaporava il potere assoluto che la virata riusciva a dargli. Il potere assoluto che gli derivava dall’essere il dio del mare lo assaporava però quando con la sua tavola planava sulle onde, era in quel momento che la tavola da windsurf acquistava il massimo livello di velocità. C’erano due modi per effettuare la planata e così imprimere un cambio di direzione alla tavola, il primo consisteva nello spostare leggermente l’albero verso prua o verso poppa, nel secondo caso invece bisognava esercitare una leggera pressione con i piedi sulla tavola. Marco preferiva questa seconda opzione, i suoi piedi nel cuore della planata erano bloccati in quelle che venivano definite straps (ovvero cinghie fermapiedi), che erano posizionate sulla poppa della tavola, in questo modo il corpo di Marco entrava in perfetta armonia con il windsurf. Il ragazzo infatti manteneva la vela in una posizione arretrata rispetto alla tavola, cosa questa che gli consentiva poi di gestire al meglio la disposizione del peso del proprio corpo realizzando ciò che nel windsurf era semplicemente la perfezione, ovvero il centro velico era in perfetto equilibrio con il centro di deriva della tavola. Allora il corpo di Marco, la tavola e la vela erano un tutt’uno, un unico corpo e un unico suono a solcare il mare, a dominare le onde, il tutto a una velocità elevatissima.

    In quei momenti la mente del ragazzo azzerava tutti i pensieri, tutte le angosce, esistevano solo lui, la tavola e il mare, null’altro se non la concentrazione portata ai massimi livelli e la tensione plastica dei suoi muscoli che davano vita a un’armonia che forse nemmeno Dio aveva contemplato come così perfetta. Svegliarsi alle cinque e mezza del mattino non era complicato se la ricompensa  offertagli era il dominio sul mare, se la sensazione di onnipotenza legata alla concentrazione e al duro sacrificio quotidiano poteva valere per Marco le Olimpiadi. Nonostante ciò, il ragazzo era estremamente attento a non sforare nei tempi, come i vecchi marinai che senza orologi avevano imparato a stabilire le ore in base al sorgere e al tramontare del sole, così Marco rivolgendosi ad Apollo sapeva bene quando era ora di tornare a riva, di abbandonare il suo grande amore e correre a scuola.

    La muta bagnata era un altro problema non certo secondario da affrontare. Quando il sole riscaldava e il freddo non era così pungente, Marco si spogliava sulla strada, indossava i suoi vestiti e correva a scuola, nei giorni di pioggia o di freddo troppo acuto, il diciannovenne invece ricopriva i sediolini di buste e con la muta raggiungeva la scuola, correva in bagno e si cambiava dandosi un aspetto presentabile. A scuola Marco era noto come il surfista, ed era apprezzato sia dagli amici che dagli insegnanti. Il ragazzo era il centro nevralgico della classe eletto ad esempio dai docenti che ne apprezzavano la sua abnegazione e l’ottimo rendimento scolastico, eh sì, perché nonostante le sveglie all’alba e l’immensa passione per lo sport, il maturando non trascurava certo lo studio e i risultati che riusciva a conseguire erano eccellenti. Che si cambiasse al mare o nei bagni del liceo, Marco arrivava con la muta tra le mani e delicatamente la portava in classe, la riponeva su una sedia che gli era stata messa a disposizione e lasciava che la stessa si asciugasse con i raggi del sole o con il tepore dei riscaldamenti. Non avrebbe mai lasciato la muta da sola, se avesse potuto avrebbe portato con sé anche la tavola da windsurf. Avrebbe dovuto farlo quel giorno. Le ore di lezione trascorsero tranquille come sempre, in particolare Marco apprezzava le ultime due del mercoledì. Dopo aver affrontato le materie prettamente scientifiche, quindi le prime due ore di matematica e la terza di fisica, gli ultimi centoventi minuti della giornata erano dedicati allo studio della filosofia. Erano le ore che, unite a quelle di educazione fisica, il ragazzo preferiva. La docente di filosofia era giovanissima, a trentaquattro anni la professoressa Licia Mantovani era insegnante di ruolo del liceo scientifico di Amalfi. Aveva accettato quell’incarico facendo il percorso inverso a quello che la maggior parte dei suoi coetanei compiva nel corso della propria vita per dare seguito alle proprie aspirazioni lavorative. La donna, originaria di Torino, quattro anni prima aveva vinto il concorso che l’aveva poi dislocata nella piccola cittadina della Costiera Amalfitana. All’inizio, come tutti i vincitori di concorso, avrebbe preferito rimanere e proseguire il suo iter lavorativo in una delle regioni del Nord Italia, ma visto che seppur al contrario il treno era passato in direzione Sud, lo aveva colto al volo. Trasferirsi al Sud per lei non era stato semplice, non certo per questioni geografiche, ma perché oggettivamente per una ragazza che era nata e cresciuta in una città come Torino, grande e ricca di servizi, riadattarsi a una realtà decisamente più piccola, forse esageratamente più piccola, sembrava complicato. Le sue preoccupazioni durarono però ben poco, bastarono un paio di albe e altrettanti tramonti per spazzare via la nostalgia e le paure che l’avevano accompagnata durante il viaggio Torino-Salerno. In pochi giorni Licia si era follemente innamorata della città di Amalfi, e parlando con familiari, colleghi e amici del Nord non poté che definirsi felice e fortunata per la scelta fatta. Era arrivata a Salerno con l’idea di chiedere il trasferimento a Torino o nelle immediate vicinanze appena ciò fosse stato possibile, ma ormai aveva deciso, avrebbe visto come si sarebbero comportati i ragazzi prima di scegliere cosa fare della sua vita, pochi giorni avevano instillato in lei il dubbio, pochi mesi dopo i dubbi si erano diradati come le nubi nei cieli tersi della Costiera. Aveva avuto la fortuna di essere assegnata a un posto che non aveva nulla da invidiare al paradiso. Per quale motivo avrebbe adesso dovuto rinunciarci? Per nessun motivo e non lo avrebbe fatto. La vita a misura d’uomo, le piccole dimensioni di quello che era un vero Eden l’avevano rapita. Avrebbe vissuto nella Divina Costiera, perché i ragazzi del Sud erano come quelli del Nord, c’erano gli educati e gli scostumati, c’erano gli studiosi e gli indisciplinati, ma di tutti non poteva che dire una cosa. Questi ragazzi del Sud erano vivi, sprizzavano vita da tutti i pori e questo loro essere vivi era contagioso anche per lei. E poi c’era lei, Amalfi, come avrebbe potuto abbandonare ciò che ogni mattina e che ogni sera poteva godere dalla sua finestra? Svegliarsi e vedere ogni giorno dalla camera da letto della propria casa il sole illuminare il mare e le giornate dei cittadini della Divina era impareggiabile. E così Licia, quattro anni dopo essere arrivata ad Amalfi, ormai si definiva una cittadina della Costiera a tutti gli effetti. Le capitava di salire dai genitori e dagli amici quando la scuola era chiusa nei periodi delle festività natalizie o al massimo in quelle pasquali, ma non avrebbe lasciato la sua Amalfi in estate per nessun motivo al mondo, non che la città non fosse bella tutto l’anno, anzi, nei periodi in cui non c’erano i turisti, si poteva godere delle sue bellezze meglio di quanto si facesse in piena estate, ma da giugno in poi Amalfi diventava l’ombelico del mondo, il centro gravitazionale del turismo.

    Da mattina a sera la città era un fiorire di culture, lingue e dialetti di ogni parte del mondo, e poi c’era lui, il suo grande amore, a volte sereno, a volte agitato, ma sempre bellissimo e in grado di parlare al suo cuore. Si dice che il mare sia uguale in qualsiasi parte del mondo, per Licia non era così, il mare di Amalfi era il mare di Amalfi, quello di Salerno era di Salerno, quello di Cetara era di Cetara. Erano mari diversi pur trovandosi vicini l’uno all’altro, ecco, quello di Amalfi lo trovava semplicemente poetico, era come se quel mare declamasse i versi di Leopardi o di Pascoli, il mare dell’altra Costiera, quella cilentana, quella di Acciaroli per intenderci, era invece più un mare da letterati, alla Hemingway.... appunto. Era un mare quello del Cilento più narrativo, più descrittivo, bellissimo lo stesso, e poi, poi c’era quello di Paestum, Licia lo trovava più virile e più da conquistatori, più rude, ma anche e decisamente più mitologico. Il solo sguardo sui templi che dominavano la piana era per lei come un orgasmo. L’immenso piacere che lei provava nel vedere il tempio di Atena, quello di Nettuno e la Basilica la lasciavano semplicemente sgomenta. Dei tre, il più antico era senza dubbio proprio quest’ultimo, eretto intorno al 560 a.C., l’unico tempio che si era conservato così bene tra quelli che appartenevano alla cosiddetta prima generazione dei grandi templi in pietra. Lì dove tutto era nato, agli albori delle civiltà, lì dove la grande cultura antica aveva gettato i semi di tutti i saperi, di tutte le scienze e di tutte le conoscenze ora c’era lei. La professoressa ci veniva quasi ogni settimana, e mentre calcava il terreno che un tempo era solcato dalle vestali e dai sacerdoti innanzi a quella maestosità, la prima volta era caduta in ginocchio ammirandone con rispetto e devozione l’immensità posta innanzi a lei. Dei tre templi quello che lei preferiva era il tempio di Atena, l’unico del quale si sapeva con certezza a quale dea fosse realmente dedicato. Ecco, lei in quell’angolo di paradiso chiamato Campania notava la possibilità di lasciare sviluppare tutti i sensi dell’arte, eh sì, perché per lei ogni senso apparteneva a una o più discipline artistiche. Il tatto, ad esempio, era senza dubbio il senso della scultura, l’udito apparteneva alla musica, l’olfatto alla natura come con le ninfee di Manet, la vista apparteneva alla pittura, il gusto alla rara arte di apprezzare i sapori della vita. Forse era per questo motivo che i suoi alunni, o come li chiamava lei i suoi ragazzi cognitivi, l’adoravano così tanto. Aveva impostato con loro un metodo di insegnamento totalmente diverso da quello classico e questa cosa piaceva ai ragazzi e in particolar modo piaceva a Marco, che aveva elevato la professoressa di filosofia agli onori della santità.

    Quando parlava lei, per il diciannovenne era verità, vangelo, musica per le sue orecchie, pane per il suo cuore, ossigeno per la sua anima. Marco ricordava bene l’impatto con la docente di filosofia. Era avvenuto due anni prima. Il ragazzo frequentava il terzo anno del liceo scientifico e sapeva bene che avrebbe dovuto studiare anche la noiosissima filosofia, una materia che reputava interessante come partecipare a una via crucis il Venerdì Santo.

    A diciassette anni pensare di studiare il pensiero arcaico di Socrate e Platone non era certo uno stimolo alle sue giornate. Dovette ricredersi già il primo giorno. L’impatto con la prof Licia era stato esaltante per il ragazzo. Prima di tutto aveva innanzi a sé una donna bellissima, alta, magra, curatissima, con un paio di gambe da far invidia a una modella, uno sguardo tipicamente mediterraneo celato da

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