Il tempo di Escher
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Il suo viaggio sta per cominciare, ed è deciso a svelare i misteri che pesano su di sé e sulla sua famiglia!
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Anteprima del libro
Il tempo di Escher - Gianluca Parola
Ringraziamenti
Prologo
Per quanto sia ridondante questo inizio, ebbene, c’era una volta…
Ma non era una notte buia e tempestosa, anzi, era una mattina soleggiata, un’alba estiva a Brux in mezzo ai campi di grano sui quali stava piovendo.
Eh sì, c’era il sole e pioveva sui labirintici percorsi tra l’oro e il profumo di terra umida…
Ma non perdiamoci! Probabilmente era quello che stava pensando la ragazza che; stava correndo, camminando, si era quasi fermata, su uno dei tanti sentieri.
Tutta coperta, avvolta nelle vesti stava la ragazza, tanto che non le si distinguevano bene le forme, ma di certo gli si notavano distintamente i due occhi chiari e lucidi sotto il grosso cappuccio grigio. Abitava in una delle piccole casette di pietra e legno fuori dal paese vicino alla collina.
Suo marito non era in casa e suo figlio stava per nascere. Mancava ancora un mese gli aveva detto il medico del paese, ma ci sono cose che una madre può capire e un dottore che ha letto tutti i libri del mondo no. Lei era lì, a metà strada per il villaggio, o almeno, sperava di esserlo.
Le parve di sentire per un attimo aria di neve: fredda, secca, profumata. Ah che nostalgia la neve, le ricordava qualcosa. Le doglie però si stavano facendo sempre più ravvicinate, ricordandogli una cosa ben più incombente.
La giovane ragazza si accasciò sul ciglio della strada, tra i ciottoli, appoggiata ad un diroccato muro a secco, sotto una delle tante rigogliose piante che delimitavano i campi. Chiedeva aiuto a Dio, che doveva essere distratto. «Beh di sicuro ha sempre molti impegni.» Intervenne una voce.
Chi gli aveva letto nel pensiero? A quanto pare a dispetto delle divinità non era così distratta un’anziana zingara col viso segnato dal tempo stranamente dipinto di bianco che comparve all’improvviso, o meglio, per la ragazza comparve all’ improvviso.
Magari stava semplicemente passeggiando… o forse Dio non era poi così indaffarato?
Si, Dio, certo…
La zingara aiutò la giovane donna a partorire, ma le diede un monito, cioè che i bambini nati nei giorni in cui piove e c’è il sole hanno una strana percezione del tempo e del mondo.
Questo bambino in particolare avrebbe cambiato in mondo ma solo il caos avrebbe potuto dire se nel bene o nel male…
La ragazza ringraziò la donna per l’aiuto e le chiese il nome, non disse che non credeva a queste leggende gitane, ma rispose solo che l’avrebbe cresciuto bene, forte e giusto.
La zingara stava per accennare all’ Akaito
. L’anziana non poté nemmeno iniziare a parlare che madre e piccolo si addormentarono esausti, li coprì e poco dopo sparì.
Magari non letteralmente, ma di questa cosa nessuno è certo, nessun’ altro era presente.
Il padre del piccolo stava arrivando a cavallo.
Era andato nella biblioteca del villaggio cercando un libro per comprendere meglio come funzionava il miracolo della nascita.
Era la sua ossessione, comprendere meglio.
Tornò verso casa galoppando come un forsennato, con attaccato dietro con un sistema di lacci e assi il vecchio carretto di legno che ad ogni sussulto del mezzosangue perdeva un pezzo.
Correva come se lo sentisse dentro che il suo primogenito giungeva alla vita.
Li trovò.
Con la delicatezza che solo un uomo che è appena diventato padre ha li raccolse, sfiorò lo stanco viso della moglie, quello del bambino e li adagiò sul carretto.
Il piccolo, il loro primo figlio Jon, era nato. Dopo aver dato qualche raccomandazione al suo cavallo ed aver ricevuto le congratulazioni da quest’ultimo li riportò al sicuro all’asciutto.
Anche anni dopo continuò a giurare che il cavallo gli avesse fatto davvero i complimenti, il cavallo non disse mai il contrario.
I
Escher stava attraversando la piazza camminando, i sanpietrini erano umidi e scivolosi aveva già rischiato di cadere un paio di volte. Perciò cercava di stare attento e al tempo stesso tenere un’andatura disinvolta.
Doveva andare a discutere, a pianificare con il suo vecchio maestro di scuola, l’unico che in quel paese poteva aiutarlo in quel momento, probabilmente, o quanto meno la persona più adatta.
Il vecchio campanile di mattoni rossi faceva da sfondo, così come il suono delle antiche campane di ottone che rintoccavano le sette del mattino echeggiando per le vie del paese.
La torre dell’orologio era nell’ esatto centro e proiettava la sua ombra durante il giorno come una meridiana sulle panchine di legno che circondavano la piazza.
A Escher era sempre piaciuto che la scuola fosse lì, adorava passare in piazza alla mattina, era quasi sempre piena di vita.
Gli anziani alla locanda stavano già bevendo il loro secondo o terzo calice di bianco sporco. La gente del suo paese più invecchiava prima beveva: gli adulti tra metà a fine giornata, i giovani la sera e gli anziani la mattina. Una inconscia divisione del giorno tacitamente rispettata.
Stava passeggiando o meglio quasi correndo per raggiungere il suo vecchio insegnante pensando ai futuri possibili programmi quando arrivò Paul, il biondo, all’ improvviso.
Le parole del suo migliore amico da mezzo addormentato gli arrivarono in faccia come uno schiaffo.
«Ehi Esch… come va?»
La prima risposta che gli passò per la mente fu «Come diavolo vuoi che vada?»
Ma era il nervosismo a parlare, non lui, che invece rispose «Col tempo andrà meglio, mi sto preparando, tra poco, a giorni, ho intenzione di partire»
Paul si stupì «Davvero? Perché? Per andare dove?»
Quante domande… Forse sarebbe stato meglio davvero mandarlo al diavolo.
«Si, per la mia maledizione, voglio capire cosa mi succede… Perché mi succede…»
Paul leggermente intimorito disse balbettando «Cio-Cioè era un gioco no? Non è che quando sei felice c’è il sole e quando sei triste piove giusto? È stato un caso e noi con la fantasia avevamo creato questa storia no?»
Escher si stupì.
Erano ragazzini, lui era un ragazzino, nessuno gli aveva creduto in realtà?
«Pensa quello che vuoi, pensate quello che volete» Rispose stizzito.
«Esch so che ti senti responsabile per la morte di tuo padre… Cazzo dai… Tu non centri nulla!»
Si fermarono.
«Cioè, è normale che quando ci si diverte il tempo passi più in fretta e quando si è tristi non passi più, è normale che è più difficile gestirlo crescendo. Può essere che il meteo abbia fatto un po’ il matto negli ultimi due anni…»
Pensò un attimo, poteva davvero essere stato un caso? No, impossibile, una coincidenza può essere; ma non due, dieci, cento. Riprese a camminare sempre con Paul alle calcagna.
«Credi ciò che vuoi Paul»
L’amico non sapeva più cosa rispondere, si contorceva le mani.
«Ti credo, se hai bisogno di qualcosa dimmelo pure, mio padre, vuole sdebitarsi per quanto sia possibile… Se partirai allora aiuteremo tua madre per qualsiasi cosa quando tu non ci sarai»
Il giovane guardò Paul negli occhi per la prima volta da inizio conversazione.
«Siete due brave persone, passerò a salutarvi prima di partire, grazie»
Paul gli diede una pacca sulla spalla e se ne andò salutandolo chinando la testa.
Era arrivato alla scuola. John, il suo vecchio maestro, aveva un volto e un aspetto più decoroso rispetto la sera prima. Indossava di nuovo la sua giacca verde e nera a scacchi e la barba rossa era tornata curata come al solito, così come il riporto che ora si notava a malapena. Sorrise nel vederlo arrivare, stava mangiando una mela verde tanto lucida da sembrare finta e sfogliando degli appunti sul vecchio quadernetto di cuoio alla sua cattedra.
Escher prese una sedia e gli mostrò quanto trovato la sera prima.
Insieme a John che conosceva un po’ il mondo essendo originario di Velles, la capitale, stesero il programma di base del viaggio.
Il ragazzo aveva pochi indizi, sulla carta, in linea d’aria, la strada migliore per le due tappe che intendeva assolutamente fare, vale a dire Rotok e Xilan, sarebbe stata attraversare la foresta sorda, ma era troppo rischioso. Sarebbe potuto morire di fame, venir ucciso o perdersi anche con bussola e mappa e di sicuro non avrebbe trovato aiuto.
Optarono allora per il giro largo.
Da Velles prendere un treno per Santari la capitale della terra promessa. Il ragazzo fermò subito il suo vecchio insegnante. Cosa diavolo era un treno? Dopo che gli fu spiegato il ragazzo perplesso decise di proseguire la stesura del programma.
Sarebbe passato in seguito tra i villaggi del popolo eletto
a Nord per poi proseguire a Est come poteva.
C’era un battello sul fiume Ykes che lo avrebbe portato sino a metà della pianura di Verges.
John si fermò a fissare il ragazzo sicuro di una domanda che non arrivò.
Escher fece finta di sapere cosa fosse un battello, bloccando sul nascere ogni espressione di sorpresa fissando la mappa ed esclamando «Si, il battello e poi?» (E più o meno aveva intuito giusto, se era sull’ acqua era tipo una barca di sicuro) Anche se non aveva convinto John.
Poi sarebbe arrivato come poteva a Belfar la città gemella di Rotok ricostruita in una posizione strategica a qualche miglio dalla città fantasma, da qui doveva farcela da solo fino a Xilan a sud est. Avrebbe scelto sul momento il tragitto migliore facendosi consigliare.
Di Druden persino il suo insegnante non ne sapeva nulla.
Aveva abbastanza soldi da parte, grazie ai suoi genitori. Gli sarebbero bastati per l’andata o quasi, aveva anche un cavallo da vendere nel momento del bisogno. Era un buon cavallo da lavoro Rein, nel caso, lo avrebbe piazzato a buon prezzo.
Prima di andare ingoiò un po’ di orgoglio e chiese al suo insegnante del battello e di altre cose che poteva non conoscere che gli sarebbero potute tornare utili, quest’ ultimo accennò