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La rampa sbagliata
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La rampa sbagliata
E-book393 pagine5 ore

La rampa sbagliata

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Info su questo ebook

La rampa sbagliata: La rampa sbagliata è un thriller esistenziale. La storia di due uomini (e una ragazzina) alle prese ciascuno con la propria vita: con quello che è stata in passato e con quello che è diventata oggi, adesso, stasera. È il racconto di come anche un cuore grande e una mente organizzata, alla lunga, possano essere sopraffatti da contrarietà ed elementi di disturbo che ne mettono a nudo debolezze e contraddizioni, minandone sentimenti e certezze. È l'incubo di chi ha puntato tutto sulla forza assoluta e illimitata dell'amore e degli affetti familiari ed è costretto a sperimentarne la fragilità e il tempo determinato. È la descrizione minuziosa del declino inesorabile cui può andare incontro la psiche umana di fronte al graduale sfaldamento di ciò in cui si sono investite le risorse emotive e mentali di tutta una vita. Ma anche il tentativo disperato di salvare tutto quanto si è cercato di costruire con grande sacrificio. A costo di ricorrere a condotte deplorevoli e compiere azioni inconfessabili...
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2019
ISBN9788830606685
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    Anteprima del libro

    La rampa sbagliata - Pantano Italiano

    dediCarla

    FALSO PROLOGO

    -Io ti conosco…

    Tre semplici parole.

    Sussurrate tra i denti, senza tono.

    Scappate via senza il permesso delle labbra socchiuse.

    Tutt’intorno, una cornice di assoluta impassibilità.

    Solo un’impercettibile accigliatura interrogativa, che le ha accompagnate nella fuga, smentendole clamorosamente.

    La cornice è il volto stanco, scavato dalle rughe della vita, di un anziano signore occhialuto.

    Ben piantato sulle gambe, dentro il suo impermeabile di ordinanza, si erge davanti al portone di un antico palazzo del centro cittadino.

    Fino a un istante fa è stato impegnato con quella che aveva prematuramente bollato come ultima fatica della sua giornata: riuscire a centrare la toppa con la chiave del portone di casa.

    Dopo aver litigato con la serratura per un tempo che gli è sembrato infinito, è stato costretto a desistere da qualche cosa che premeva fastidiosamente al centro della sua schiena.

    Si è girato a piccoli passi e si è fermato lì, carico di borse e valigette, con la chiave ancora in mano, ma senza tradire il minimo impaccio. Anzi, nella penombra della sera filtrata dalla pioggia, continua ad apparire come una figura piuttosto elegante, affascinante persino.

    Ostenta una disinvoltura ed una compostezza che, in situazioni del genere, potrebbe essere fraintesa e interpretata come provocazione. La flemma con cui ha ruotato su sé stesso, infischiandosene di quel pungolo misterioso che spingeva dietro, risulta quanto meno irritante.

    Davanti a lui adesso c’è il ragazzo che gli è appena sbucato alle spalle sotto casa.

    Bagnato fradicio, per via della pioggia torrenziale, se ne sta ritto in piedi, con la testa avvolta in una kefiah inzuppata, a meno di un metro da lui, respirando affannosamente e fissandolo con uno sguardo sconvolto, quasi come la sorpresa fosse la sua. In effetti non si era aspettato una reazione del genere: quel modo di voltarsi come se niente fosse lo aveva spiazzato, facendogli fare mezzo passo indietro. L’aggeggio nero che tiene in pugno e che fino a un istante prima, puntato contro la schiena del vecchio, lo faceva così forte, adesso gli scotta tra le mani.

    Il vecchio non batte ciglio: il suo corpo, in linea con il viso, non tradisce alcuna emozione.

    Ha stimato al momento non necessaria qualsiasi contromisura di fronte al giovanotto che ha davanti, neanche nel caso ininfluente che gli dovesse sovvenire di chi si tratti.

    Le lenti bagnate e l’oscurità, non gli consentono di vedere bene.

    Eppure una mezza idea di cosa sia quell’oggetto scuro che il ragazzo gli agita nervosamente sotto il naso, se l’è fatta.

    Intanto il tipo, davanti a tutta quell’indifferenza, ha avuto un rigurgito di aggressività: sbuffando, si è riavvicinato ed ha sollevato l’arma, facendola oscillare paurosamente.

    Ecco: gli ha appena sfiorato la punta del naso con la canna…

    Quel gelido fugace tocco innesca la prima involontaria risposta di quel fisico stagionato, apparentemente insensibile a tutto. L’espressione del volto rimane imperturbabile, ma dentro si scatena una qual forma di reazione. Al contatto diretto con la pistola, il cervello, forse per non essere da meno, richiama alle armi l’adrenalina (ormai in congedo da anni), che colonizza istantaneamente ogni diverticolo del corpo, facendogli rizzare tutti i peli. Persino quelli bianchi sul dorso delle dita, che adesso stringono la chiave di casa come se volessero stritolarla per non essere quella giusta o per non essere riuscita a fare il suo dovere per tempo.

    L’adrenalina invece il suo dovere lo sta facendo eccome. Solo nel cervello, curiosamente, non riesce ad entrare. Tradita forse anch’essa dalla chiave sbagliata. E anche scoraggiata da tutti quei cartelli di lavori in corso. L’intera massa grigia che si ritrova nella testa si è barricata in assemblea plenaria per porsi un’unica, banale, ma urgentissima domanda…

    CAP. I (uno)

    ACQUA

    Piove… Che importa?

    Il sole è tramontato già da un po’.

    Aggrappato al volante, ingobbito più del solito, un uomo sulla settantina sfida le intemperie incastonato in quel catorcio che continua a spacciare per automobile. Il suo viso sembra scolpito nella roccia di una montagna americana spelacchiata: un modesto presente a futura memoria di un passato di gloria.

    Gli occhi a fessura dentro gli occhiali sbagliati, la lingua appena fuori dalla smorfia della bocca, il grande naso appiccicato al parabrezza. Al di là del quale non si distingue granché. Profili liquefatti, aloni appannati di lampioni, riflessi deformati nelle pozzanghere. Qualche lustro fa ci avrebbe visto un quadro di D’Alì, ma adesso è già tanto che riesca ad intuire le sagome annacquate delle altre auto che lo superano da tutte le parti, per quel breve istante in cui entrano nel cono di luce dei vecchi fari del suo trabiccolo. Gli appaiono e scompaiono davanti come fantasmi. Anziché catene agitano lucine psichedeliche rosse e gialle, reclamando una precedenza che nessuno si è sognato mai di mettere in discussione. I tombini della città sono tutti intasati e ogni volta che attraversa un incrocio, i flutti minacciano di travolgere lui e la sua Panda, mandandoli entrambi in pensione una volta per tutte.

    È già tanto se riesco ad arrivare a casa stasera…

    Ci si mette anche il semaforo.

    Lui lo fissa per un po’, senza intenti intimidatori…

    Poi il cerchietto rosso va fuori fuoco e i pensieri vanno dove capita…

    Belli i tergicristalli.

    Netti, drastici ed esatti.

    Da una parte tutta l’acqua vecchia e dall’altra tutta quella che arriva.

    È la vita che tutti abbiamo sognato da ragazzi,

    quando stiliamo la prima lista delle cose buone e di quelle cattive e decidiamo,

    in un tripudio di coraggio e ingenuità,

    che d’ora in avanti ordineremo tutto quello che viene,

    o da una parte o dall’altra della barricata.

    È la svolta che tutti abbiamo provato a fare da adulti,

    quando, una volta sgretolata la barricata con le nostre stesse mani,

    ci siamo illusi di poterne innalzare un’altra sulle macerie della prima,

    lasciandoci alle spalle la bad company dei nostri errori

    e cominciando da zero una nuova vita virtuosa.

    Da una parte tutta l’acqua che è andata

    e dall’altra tutta quella che deve ancora passare sotto i ponti.

    CAP. II (due)

    FUOCHINO

    -Mamma, vado!

    Non ha neanche fatto colazione.

    Con lo zainetto sulla spalla e l’immancabile smartphone in mano, prende la porta ed è già in strada.

    I suoi occhi tormentano il touchscreen in attesa di un whatsapp e le sue dita sembrano volerlo stritolare, come se il messaggio potesse arrivare prima, spremendo forte…

    Il tizio si sta prendendo troppo tempo per risponderle e questo la sta facendo andare fuori di testa.

    Non può non essere sveglio a quest’ora, non sembra uno che marina la scuola…

    Sabato sera era stato così solerte ad offrirsi di accompagnarla a casa e adesso ci mette un secolo a rispondere a un semplice Cheffai?

    Questo weekend mamma era fuori e lei lo ha lasciato entrare, senza neanche tanta convinzione. A pensarci adesso l’aveva colpita la sua… gentilezza! Di solito li prendeva in giro i damerini, preferiva di gran lunga dare corda ai mezzi-delinquenti. Ma questo le era sembrato diverso: era, sì, fin troppo educato, ma aveva un che di misterioso che andava assolutamente indagato.

    Si erano seduti sul divano di casa a parlare di musica e di libri, avevano anche bevuto un po’, e alla fine lei si era addormentata sulle gambe di lui.

    La delicatezza con cui l’aveva tenuta in grembo, rimanendo a farle da giaciglio tutta la notte, era stata una meravigliosa rivelazione.

    Ma la cosa davvero sorprendente era stata che… non ci aveva provato!

    Un evento praticamente inedito in analoghe situazioni, nella sua breve e già accidentata carriera di adolescente…

    Anche scrivere per prima a un tipo (dopo una lunga noiosa domenica d’attesa) è una assoluta novità.

    Ma proprio quando è sul punto di pentirsi di questa pessima innovazione, il display si illumina, l’avviso risuona, il cellulare vibra…

    E vibra anche tutto il resto. Un piccolo calore le si propaga repentinamente dal ventre a tutto il resto del corpo. Per un attimo, ma è solo un attimo, perde il passo. Poi riprende il controllo, ad eccezione del cuore e del pollice che ormai battono all’impazzata. Quest’ultimo sul touchscreen, sollecitandolo ad aprire il fumetto verde:

    intendi prima o dopo il tuo msg? Sai com’è… direi che mi ha cambiato la giornata..

    Intendi… Intendi la fa impazzire!… In realtà tutto le piace esageratamente in questa vicenda. Se non si conoscesse direbbe di essere in preda a un’euforia che…

    Che non le si addice affatto (e qui giù il broncio)! Deve darsi immediatamente un contegno! A cominciare dal far passare un po’ di tempo prima di rispondergli… Che poi, nel caso in specie, ne occorre di tempo per trovare le parole giuste, quelle perfette, quelle esatte... E dopo sarà lui a farla aspettare, ancora per chissà quanto, prima di risponderle. E così via…

    Uno spossante tira e molla.

    Questo erano sempre stati i suoi compleanni: una festa da una parte e una dall’altra, di solito con un mese di ritardo.

    Papà, che lo sapeva, si era inventato di tutto per esserci anche quando la mamma organizzava la festa in casa diffidandolo dal presentarsi alla porta. Una volta lui le aveva chiesto di collegarsi un istante con Skype per farle gli auguri dall’ufficio e, dentro una confusione di palloncini e striscioni, si era fatto trovare con tutti gli altri (la nonna, gli zii, persino il fratellino…) urlanti tutti insieme il suo nome: dieci minuti, dieci, di baldoria assordante, poi un rapido saluto (per evitare qualsiasi intromissione, la mamma era sempre nei paraggi…) e clic, brusco ritorno al silenzio. Era stato così frastornante che se non fosse per una lacrima di gioia che aveva dovuto asciugarsi alla fine, non sarebbe neanche certa di averlo vissuto veramente.

    Ne è passato di tempo da allora…

    CAP. III (tre)

    FUOCO

    Zona industriale.

    File infinite di vecchi lampioni, con qualche soluzione di continuità.

    Nella controluce, una margherita miracolosamente sbocciata al centro di una strada costruita in mezzo al niente, viene sfiorata in rapida successione da due pneumatici roventi. Lo spostamento d’aria la scuote violentemente in una nuvola di goccioline sbrilluccicanti.

    Avrà modo di crescere ancora un po’ e farsi trovare più forte al prossimo schiaffo che la vita le riserverà.

    Comodamente adagiato al posto di guida, c’è un uomo che sembra ancora un ragazzo.

    Spinge al massimo la sua utilitaria blu attraverso uno dei tanti vialoni deserti del polo produttivo che fu.

    Appare rilassato, con quel sedile un po’ abbassato, il gomito del braccio sinistro appoggiato al rivestimento interno dello sportello e la sigaretta accesa tra le dita. Ha il capo leggermente reclinato per via dei capelli legati dietro, in quella specie di cisti che il suo bambino gli piazza in testa ogni volta che disegna papà.

    In realtà è molto teso e lo sguardo è concentratissimo sulla strada, come richiede una guida sempre al limite, tanto più di sera e sul bagnato. Lì il temporale è già passato da un’ora e se non fosse per le strade allagate e qualche ramo caduto dagli alberi, non ci sarebbe alcuna avvisaglia di ciò che lo aspetta in città.

    Dai finestrini leggermente aperti si gode lo sfrigolio delle pozzanghere sotto le sue ruote infuocate.

    Le urla di Kurt Kobain, che dalle casse della sua autoradio grida a tutti di andar via, echeggiano tra i capannoni deserti: si vede che la gente ha già seguito il suo consiglio…

    Adesso le sue narici possono percepire gli odori intrecciati dell’erba e dell’asfalto bagnati, che qui al sud sono meno godibili che altrove per colpa di un impietoso caldo umido che renderebbe soffocante anche l’eucaliptolo.

    È un odore desueto perché qui non piove mai.

    E proprio perché capita di rado, quella volta che capita il traffico va in tilt.

    Perciò dovrà trovare delle vie di accesso al centro alternative a quelle più battute.

    Non vuole assolutamente mancare il suo appuntamento.

    CAP. IV (quattro)

    NESSUNO AL MONDO, TONDO TONDO

    Che vuole ora questo?

    Si sta agitando. Non è da lui. Sono secoli che non gli succede di innervosirsi per qualcosa. O forse, che non gli succede qualcosa per cui innervosirsi.

    In realtà sono secoli che non gli succede qualcosa

    Anche se non lo da a vedere, il suo corpo sta riscoprendo la sensazione dimenticata del fremito e ogni suo vecchio muscolo guizza sotto la pelle, come le zampette non viste di un’anatra sotto la superficie immobile di uno stagno.

    La sua mente, invece, come appartenesse a qualcun altro, ha già avviato una fredda analisi: ha scartato l’ipotesi rapina (quel grugno ha l’aria troppo familiare…) e si è lanciata alla ricerca dell’eventuale colpa che può avere sulla coscienza, tale da portare a una situazione del genere.

    Non ha più nessuno al mondo, almeno per quel che gli risulta... Controlla: considerando che non ha una donna e non ha amici, gli risulta esattamente nessuno, tondo tondo.

    Chi può avercela con lui? E per quale ragione?

    A dispetto dell’urgenza del momento e del breve tempo effettivamente impiegato, è una scansione calma e lineare delle possibili malefatte compiute ai danni degli altri in tutta una vita. Ed ha un andamento costante, proprio come l’anatra di prima sul laghetto, attraverso quella sua vita specchiata che non ha mai conosciuto il disturbo neanche di un sassolino gettato per sbaglio.

    Di un sassolino forse no, ma un bel pezzo di tufo era quasi arrivato a lanciarlo una volta

    Dal fondo del suo cassetto dei ricordi arrugginito, affiorano alla superficie i cadaveri decomposti delle cose peggiori che può aver fatto in passato. Sono immagini sbiadite di persone...

    C’è un vecchio mezzo morto sull’asfalto... forse un incidentenon ricorda bene...

    Persone tristi, gente che mai prima d’ora avrebbe preso in considerazione di aver potuto contribuire ad intristire… O persone inspiegabilmente arrabbiate con lui, che invece, forse, avevano avuto le loro buone ragioni, da lui colpevolmente trascurate...

    Ma i suoi tentativi di gettare la rete per ripescare l’episodio incriminato vanno tutti a vuoto.

    Tra l’altro, al momento, il suo è un mare di memorie contaminato da piattaforme senza licenza che continuano a pompare, e riversare nelle acque, galloni di fifa nera.

    Avverte la lucidità venire sempre meno e continua a cercare disperatamente di inserire il vecchio caro pilota automatico per gestire i nervi.

    Ma qualcosa non sta funzionando a dovere. La sua collaudata impassibilità, che negli ultimi anni lo ha fatto andare dritto per la sua strada davanti alle più assurde avversità, stavolta sembra essere sul punto di sbandare.

    Nonostante gli sforzi, gli occhi sfuggono al suo controllo e, per un frangente interminabile, lasciano lo sguardo del suo dirimpettaio per posarsi sulla bocca dell’arma che tiene in mano.

    E che, ora che ci pensa, potrebbe far fuoco in qualunque momento.

    È adesso che la mente decide, di testa sua, di mettere da parte i flashback scombinati che lo hanno accompagnato fino a qualche minuto fa, per resettare tutto e permettere alla sua vita di scorrergli ordinatamente davanti da zero. Proprio come succede alle persone prima di morire!…

    Sente venirgli su un bel conato di panico, ma si ostina ad illudersi per un ultimo istante di poter ancora dominare la situazione.

    Restando calmo, pazientando ancora un po’, troverà il senso della cosa.

    D’altra parte, cos’altro vorrebbe fare: correre? Nemmeno si ricorda più come si fa.

    E pensare che una volta faceva solo quello...

    CAP. V (cinque)

    TUTTO (S)CORRE

    Corro.

    Sempre.

    Se tutte le maledizioni che mi tirano dietro gli altri automobilisti andassero in cielo sarei già morto da anni.

    Eterno, ma pur sempre riposo.

    E invece corro.

    Anche oggi.

    Poco importa che sia appena uscito di casa per accompagnare il bambino a scuola, o stia andando allo studio, o che sia di ritorno dal lavoro.

    In ogni caso corro: corro io, corre la mia auto, e insieme a lei corre la mia vita accanto a me, sul sedile del passeggero. In forma, di volta in volta, di un figlio, di una borsa per la spesa o di un pendrive con dentro il lavoro dell’ultima settimana.

    E corre la mia mente.

    Fin dalla mattina, da prima ancora di uscire di casa.

    Corre attraverso tutto quello che devo fare nella giornata di oggi.

    Scansiona tutto quello che non devo assolutamente dimenticare di portarmi dietro, mentre tutt’intorno impazza la baraonda della mattina tipica di ogni casa con bambini che si rispetti.

    È la lotta infinita tra oggetti di sempre e oggetti di oggi: il caffè sul fuoco contro la lampadina fulminata da cambiare, la bolletta da pagare contro le carte per la banca, lo zainetto del piccolo contro le cose da portare alla suocera, le chiavi dello studio contro la spazzatura (che se anche oggi mi dimentico di prenderla, stanotte esce dalla pattumiera e mi aggredisce nel sonno!…).

    -Corri in macchina che arrivo, piccolo!...

    Anche mio figlio corre.

    Prima uscendo di casa, poi in auto insieme a me, e persino arrivato a scuola, con i suoi compagnetti, sudando a rincorrersi fino al suono della campanella.

    Guardare la persona che amo prodigarsi entusiasta in quello che sta facendo, con tutta la sua pazza gioia.

    Questo per me è la felicità.

    Essere lì e riempirmi dei suoi momenti belli.

    Sentire di poter scalare le montagne in nome suo.

    Soffrire anche soltanto a non poterle stare accanto.

    E al solo non sapere quando la rivedrò, struggermi dentro.

    Questo per me è l’amore.

    Il sorriso disarmante del mio bambino mi trapassa il cuore ogni volta.

    Quello da parte di mio figlio è un affetto puro, una sorta di adorazione incondizionata.

    Ogni giorno lui e il suo papà cantano e scherzano in macchina per tutto il tragitto fino a scuola.

    È il loro pezzo di paradiso mattutino gridato in faccia al caos che incombe fuori dai finestrini.

    Qualunque cosa succeda intorno, al mondo ci sono solo lui e il suo papà.

    CAP. VI (sei)

    SCOPO PRESERVATIVO

    Il mio papà.

    La mamma non vuole che lo veda.

    La mamma non vuole che ci vada.

    Dice che vuole preservarmi da lui.

    E che se insisto faccio del male al suo povero cuore malato.

    Dice che può venire lui tutte le volte che vuole, ma poi quel giorno che deve venire dice no, che tanto… può venire tutte le volte che vuole!

    Dice che posso andare tutte le volte che voglio, ma poi quando glielo chiedo dice di no, che tanto… posso andarci tutte le volte che voglio!

    Così, la mattina prestabilita, se mi cola il naso, o spunta un’altra qualsiasi cosa da fare, o anche sono solo un po’ stanca (ma io non sono stanca!...), gli dice che oggi è inutile che venga. A volte lo rimanda indietro quando è già arrivato… Uffa!...

    Così, il giorno prefissato, se ho una feritina, o mamma ha un impegno, o anche solo si secca ad accompagnarmi, gli dice che se anche oggi non verrò a trovarlo non sarà mica la fine del mondo!…

    Ma la fine di un mondo sì.

    Tutto un mondo solo mio che vive nel mio cuore ed esce a far festa ogni volta che vado a trovare la famiglia di papà.

    È mio padre, è mio fratello, sono i miei nonni! Ma se la chiamo la mia famiglia mamma s’arrabbia. Lei ha una teoria tutta sua: dice che io ho solo una famiglia e che quella famiglia sono lei e papà. Neanche si parlano e quando si parlano è solo per farsi la guerra, ma sono loro l’unica vera famiglia che mi tocca di avere: un’unione incivile, una famiglia arcobalestra.

    … Eppure ogni volta io fantastico tanto sulle cose da portare a far vedere alla nonna, su una sorpresa da preparare a mio fratello, su tutto quanto si potrebbe fare una volta insieme: giochi, gite, cartoni, film, pigiama party, luna park…

    E ogni volta tutto svanisce: qualcosa si rinvia, il resto muore.

    Resta nel cuore e non ne esce più.

    CAP. VII (sette)

    IMMACOLATA CONCEZIONE

    -Non è giusto!

    L’urlo del ragazzo spezza l’impasse.

    -Non doveva andare così!...

    Con lo sguardo ha già fulminato il vecchio. Per la pistola non è ancora tempo. Tanto che, senza accorgersene, tutto preso dal suo sfogo, l’ha abbassata e la sta facendo volteggiare insieme ai gesti nervosi che accompagnano le sue parole.

    L’acqua che ormai bagna sia le sue mani che l’arma, schizza e si scontra con quella che insiste a cadere dal cielo, in un’esplosione di ossimori: tanti piccoli fuochi d’artificio che più acquei non si può…

    L’altro, anche se sembra non battere ciglio, aguzza impercettibilmente la vista per provare a scorgere i lineamenti del tizio che gli urla contro. Per quanto si sforzi, il buio, le lenti appannate, la pioggia e il volto coperto del ragazzo, gli impediscono di individuare alcunché di riconoscibile in quell’abbozzo sfocato di sguardo infuocato che gli è concesso di intravedere.

    Per ora dovrà affidarsi alle parole provenienti da dietro quella kefiah per cercare di capirci qualcosa.

    -… Io mi faccio il mazzo tanto per mandare avanti tutto come si deve… e poi arrivi tu!…

    Sulla sua espressione minacciosa irrompe una breve pausa di disprezzo, tutto il disprezzo di cui è capace, lo stesso che ha mosso le sue gesta fin lì.

    Un disprezzo profondo, quasi viscerale.

    Figlio (come tutti i disprezzi!) di convinzioni, per quanto incrollabili, pur sempre soggettive.

    Diventate conclusioni sommarie, obnubilate da una rabbia disperata.

    Il che sembra non spostare la cosa di una virgola.

    A nulla vale che a fare da contraltare alla sua condanna già emessa, ci sia una quantità infinita di cose che ancora non sa del suo uomo (una mancanza grave quanto uno scambio di persona, in situazioni del genere)!...

    Gli basta quello che sa… E gli preme solo di portare a termine la sua missione.

    Una cieca determinazione che affonda le radici nel terreno di una vecchia ossessione.

    La sua sacra concezione di famiglia felice, che nessuno, neanche quel vecchio, può intaccare.

    Una concezione che lui stesso non è mai stato capace di adattare agli eventi.

    Una concezione ormai anacronistica, visto l’avvicendarsi dei colpi della vita.

    Una concezione che pur tuttavia, nella sua testa, il tempo sembra aver lasciato immutata, intonsa… In una parola, immacolata…

    - …Tu …

    Il vecchio accetta definitivamente l’ipotesi di aver fatto qualcosa di veramente deprecabile di cui non ha più memoria, almeno a giudicare da quel tono così profondamente disgustato…

    -…Arrivi tu e, dall’oggi al domani, rovini tutto!… Tutto!!!... E proprio nel bel mezzo dei miei sforzi... Quando non sono neanche a metà dell’opera…

    CAP. VIII (otto)

    SENZA SOSTA

    Lascio il piccolo e corro a riprendere la macchina.

    Torno in strada, ma c’è troppa fila… troppo lenta… si direbbe ferma.

    La confusione è soltanto in discesa verso la città. In un certo senso (quello opposto) è una fortuna: con rito abbreviato, nomino la corsia opposta semideserta Mia Personale Preferenziale e sfilo la colonna di auto in pochi secondi. Alle rotonde mi ricompatto alla fila e poi via di nuovo (delinquente a piede) libero e contro senso, aspettando la prossima rotonda.

    E così fino a casa di nonna Piera.

    E tieni il bambino tutto il giorno, ed accompagnalo, e vallo a prendere, e stira la lavata, e cucina quella cosa, e vai a comprare quell’altra: in una famiglia con bimbo piccolo e genitori che lavorano, le cose da fare per una nonna non mancano mai.

    Un aiuto né dovuto né scontato, apprezzato ogni singola volta per il grande valore che ha.

    Una gratitudine incondizionata. Almeno quanto la disponibilità di quella santa donna.

    E giù ettari ed ettari di espliciti ringraziamenti.

    Destinati ad essere disseminati, nel tempo, da un numero crescente di silenziosi paletti…

    Mollo l’auto davanti a un passo carrabile, porto su sacche e sacchetti preparati dall’amoremio di cui ignoro il contenuto (per quanto ne so potrebbero anche essere pieni di cocaina ed io corriere inconsapevole di madre e figlia) e mi sto già scapicollando giù dalla discesa che mi porta verso la città. A ogni bivio, senza neanche rallentare, scelgo la strada che per l’ora che si è fatta e la contingenza odierna mi si prospetta più scorrevole. E in pochi minuti giungo allo studio.

    O per meglio dire sotto lo studio. Perché c’è da cercare parcheggio e quello, in centro città, ha poco a che fare con l’ora che si è fatta (a meno che non sia notte fonda) o con la contingenza odierna (a meno che non sia ferragosto). L’auto scalpita, tenuta a bada dal serpentone delle macchine che la precedono nel solito loop delle solite vie con il solito intento.

    I minuti diventano ore.

    La mente continua a correre a dispetto dell’andatura rassegnata del traffico: scremo il da farsi in base al tempo che sto perdendo e mi do delle priorità, a cominciare dal leggere le e-mail sullo smartphone.

    Si fa tardi, ma non posso scegliere di lasciare l’auto dove capita, sfidando le multe ogni giorno.

    Cerco un posto dignitoso, scartando quelli troppo sull’incrocio, troppo sulle strisce, o troppo su cose del genere. Ho davanti gente in cerca della stessa cosa che cerco io, così rallento al massimo per lasciare un po’ di spazio tra me e loro e allungo lo sguardo alla ricerca non di un posto libero… il posto libero non esiste, come Dio (e come Dio, se anche esiste, esiste per qualcun altro che mi sta davanti…), bensì di un segno più discreto di liberazione imminente di un pezzo d’asfalto: un’auto parcheggiata con gli stop accesi o la marmitta fumante, magari con dentro qualcuno al posto di guida… Persino un passante con le chiavi in mano può essere un indizio: un preavviso di sloggio!...

    Ma passa il tempo e giro a vuoto, aumentando il raggio rispetto alla meta.

    Che inevitabilmente si allontana sempre più.

    Così alla fine mi rassegno a lasciare l’auto (quasi) dove capita, anche se non lo faccio (quasi) mai.

    Lo studio è lontano, perciò allungo il passo per non accumulare altro ritardo.

    Anche se sono a piedi non è ancora tempo di smettere di correre.

    Marciapiedi o carreggiate che siano, vado diretto come un treno.

    Attraverso le piazze in

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