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Noi...Sempre
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E-book333 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Tre destini si congiungono in una storia drammatica. Tre persone

legate da una promessa. Un aiuto inaspettato. La speranza di redenzione? Giacomo Cortini è un ragazzo come tanti, la sua vita prosegue all’apparenza come quella di qualsiasi liceale ma i suoi trascorsi gli fanno apparire il futuro senza prospettive.

Lucia Cavilli è una ragazza sensibile, tiene un diario dettagliato sulla sua vita. Le piace un ragazzo ma non ce la fa a dirglielo. Un giorno si ritrova con un malanno che non riesce a controllare.

In un luogo oscuro vi è una piccola luce. Un tempo era una persona in carne e ossa, con sentimenti e speranze per il futuro. Vive, per una sorta di concessione di una misteriosa voce, nei sogni e nelle visioni di coloro che ha amato. Ha un obiettivo: aiutare e proteggere. Il tempo, però, scarseggia e deve sbrigarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2019
ISBN9788831639910
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    Anteprima del libro

    Noi...Sempre - Luca Pavolucci

    633/1941.

    Parte prima

    Memorie di Giacomo Cortini

    I

    «Dai andiamo! Muovi il culo! Sei troppo lento!»

    Era difficoltoso stare al suo passo.

    «Allora, pappamolla? Forza, siamo quasi arrivati!»

    Con le restanti forze riuscì a raggiungerla… ed eccola lì. La casa di campagna sotto i pini.

    «Certo che dovresti andare in palestra.»

    «Come sei allegra, oggi. Perché mi hai portato qui?»

    Con un sorriso smagliante, mi stava indicando l’albero di castagno del casolare.

    «Vai a vedere.»

    Mi avvicinai ma non riuscivo a distinguere nulla, c’erano delle scritte illeggibili e tutte sfocate. Cosa ci facevano qua? Che significato avevano? Non conoscendo la risposta, mi affidai all’unica persona che mi avrebbe potuto dare delle risposte.

    «Ehi, letterata! Cosa c’è scritto qui?»

    Continuando a puntare il dito, si mise a ridere.

    «Sei diventato dislessico? Leggi bene.»

    L’ultima frase la disse con tono quasi malinconico. Mi rigirai e questa volta potei notare una scritta chiara. Sulla corteccia dell’albero svettava la frase: Ti sei dimenticato? scritta con un rosso scarlatto. Spaventato incominciai ad indietreggiare e voltandomi mi ritrovai a tu per tu con un’Angela oltraggiata.

    «Ti sei dimenticato, vero?»

    «Cosa?»

    Dal nulla si levò una sedia, che andò a posarsi a pochi centimetri da me, sotto al ramo del castagno.

    «Non mi lasci altra scelta, dunque.»

    Il volto di Angela s’incupì. Con passo deciso si stava dirigendo verso l’albero.

    «No!»

    Era apparso un cappio, pendeva dal ramo come un serpente.

    Mi stavo precipitando verso di lei per fermarla ma qualcosa mi afferrò e mi spinse indietro. Velocemente, provai a protrarmi verso Angela ma la mia mano la oltrepassò e caddi in avanti. Qualcosa non andava! Il terreno cominciava a tingersi di tonalità grigie e nere e le foglie cadevano, come se la gravità fosse aumentata all’improvviso. In ognuna di esse campeggiava la scritta Ricordati e poi … il buio.

    «Aiutami! Ti prego, Jake! Ricordati!»

    Le lacrime le sgorgavano dagli occhi, nell’aria si sentivano solo i suoi singhiozzi.

    «Aiutami! Ti supplico!»

    Ero paralizzato, incapace di qualsiasi movimento. Mi sforzavo, attingendo a tutta la mia forza ma invano. Era come se qualcuno mi stesse trattenendo. Sentivo il cuore battere a mille e incominciavo a respirare affannosamente. Angela raggiunse l’albero di castagno e salì sulla sedia. La corda si mosse da sola e si annodò al collo, stringendolo sempre più.

    «Jake! Ti ho sempre» la sedia cadde e il cappio diede un forte strattone.

    Infine lei rimase lì, immobile, lo sguardo vuoto e la bocca spalancata. Mi guardai le mani, grondavano sangue e lacrime.

    «No… no...»

    Una voce roca squarciò quell’infinito silenzio, con le sue risatine inquietanti…

    «E’ tutta colpa tua! Tu l’hai costretta a questo! La promessa, Jake! E ora, svegliati! Svegliati!»

    «Svegliati! Mamma! Papà!»

    Michele?

    «Giacomo! Cosa è successo?» mamma e papà entrarono di corsa in camera.

    «Si è messo a dire cose strane e poi ha incominciato ad agitarsi ed urlare.»

    Michele, mio fratello, era di fronte a mio padre.

    «E’ solo un incubo. Rilassati, siamo qui.» disse mia madre mentre mi accarezzava i capelli.

    «Solo un incubo? È peggio! E questa volta non è solo il mio subconscio, come dice lo psicologo!»

    Mio padre guardò mia madre, poi con uno sguardo rassegnato si avvicinò a me, prendendomi la testa tra le sue grosse mani.

    «Giacomo… guardami, ti prego. Devi smetterla di pensare ad Angela. Dai, vieni con noi in salotto. Parliamo un po’, ok?»

    Scesi la rampa di scale e li seguii in soggiorno. Papà si stava sedendo nella sua poltrona di velluto, azzurro cielo, mentre mamma sostava davanti alla porta della cucina. Con un cenno, mio padre mi fece sedere nel divano.

    «Ti preparo una tisana.»

    Mamma era entrata in cucina e stava preparando la tazza, mio padre si premette due dita sulle tempie ed iniziò il suo discorsetto.

    «E' difficile. Capisco che tu e Angela eravate molto uniti ma devi cercare di andare avanti. Sei quasi arrivato alla fine delle superiori e con non poca fatica. Questi incubi, a mio parere, sei tu a generarli… quasi come se ti volessi punire. Chiederò allo psichiatra di farti aumentare il dosaggio dei farmaci e dobbiamo aumentare la frequenza degli incontri dallo psicologo. Domani… inizi il quinto anno. Ti supplico, Giacomo, almeno il diploma, poi potrai fare quello che vuoi. E un’altra cosa: dovresti ricominciare ad uscire, e non stare rinchiuso in camera tua a pensare di continuo.»

    Mamma ritornò con la tazza fumante e me la porse, forse anche troppo bollente. Si sedette accanto a papà.

    «Giacomo, tuo padre ha ragione. Ti prego… smettila di punirti.» Una lacrima le rigò il viso.

    Soffiai nella tisana e ne presi un sorso.

    «Sono molto dispiaciuto, davvero. Vi ho delusi e…»

    Papà si alzò dalla poltrona e, con un sorriso, mi mise una mano sulla spalla, mentre mamma si sedette vicino a me e mi baciò la fronte.

    «Non ci hai delusi. Siamo fieri di te, sappilo sempre.»

    Mamma e papà volevano stare alzati… sospettai per controllarmi ma, visto che sarebbero dovuti andare al lavoro a breve, li convinsi a ritornare a letto.

    A poco a poco finii la mia tisana. Stanco, mi diressi nella mia stanza dove vidi Michele seduto nella poltrona da ufficio. Era di spalle e non appena chiusa la porta, si alzò di scatto.

    «Come stai?»

    «Potrebbe andare meglio.»

    «Ti va di parlare?»

    «Non tanto, in realtà. Andiamo a letto, abbiamo scuola.»

    Mi ero appena messo seduto sul letto, quando Michele mi prese la manica del pigiama e sedette vicino a me.

    «Ascoltami. Non sei più lo stesso da più di un anno.»

    «Credimi, non parleresti così, se ti trovassi nella mia stessa situazione.»

    «Hai ragione ma lei non c’è più. Devi continuare con la tua vita e non ritornare al passato.»

    «Mi hai stancato, vado a dormire in sala.»

    Mi avviai alla porta e, appena toccai la maniglia, sentii un lungo sospiro di Michele.

    «Ti chiedo scusa… è solo che sono molto preoccupato per te… io… Non hai neanche detto a mamma e papà delle tue allucinazioni. Almeno con lo psicologo…»

    «Sì… con lui, sì.»

    Michele, sconfortato, abbassò la testa, poi si mise una mano sulla fronte.

    «Io sono qui per te. C’è mamma, c’è anche papà. Io rivoglio il mio fratellone: quello che giocava con me ai videogiochi, quello che mi portava al campo di calcio con lui e i suoi amici, che mi dava del cretino

    Non pensavo che Michele tenesse così tanto a me. Aprii la porta della stanza e la varcai.

    «Tranquillo. Da me il cretino lo riceverai sempre.»

    Richiusi la porta alle mie spalle e, senza fare rumore, mi diressi in salotto. Mi sedetti nella poltrona di papà. Ero da solo.

    Dimenticare… Non ce la facevo. Lei era tutto per me.

    Ricordo tutto… sin dal primo giorno.

    II

    Era il 1999, a quei tempi frequentavo la 2° elementare. Ero il classico bambino che si divertiva a giocare con il Game Boy e scambiare le figurine dei Pokémon. Avevo solo tre amici, due di loro frequentavano la mia stessa classe e uno lo si vedeva solo nei weekend. Ci chiamavano I Fantastici 4 o … i 4 scansafatiche. I nostri passatempi preferiti erano giocare ai videogame e andare al campo da calcio, dietro casa. I primi giorni di novembre, le maestre ci dissero che avremmo avuto un nuovo compagno di classe, all'inizio del nuovo anno.

    Con le lezioni il tempo passò in fretta e, senza neanche accorgermene, arrivò l’inverno e con esso le vacanze natalizie.

    Era il 28 Dicembre e, dopo aver giocato tutta la mattina con mio fratello, squillò il telefono di casa. Francesco, uno dei miei amici, m’invitava, insieme a Manuele e Simone, alla collina Selvi a giocare a palle di neve. Felice, andai dai miei genitori, i quali furono entusiasti di acconsentire. Il viaggio fu breve, l'unica difficoltà, trovare il parcheggio. Mio padre, che normalmente non si arrabbia, si era alterato in più occasioni, con mamma che cercava in ogni modo di calmarlo.

    Quando, finalmente, trovammo il posto auto, ci incamminammo alla volta della collina innevata.  Appena misi il piede sulla neve fresca sentii delle urla che provenivano dalla cima della collina ma, essendo il luogo pieno di persone, non ci feci caso. Sentendo chiamare il mio nome guardai in alto e vidi i miei amici a metà strada nella collina, che mi facevano cenno con la mano di raggiungerli. Senza neanche pensarci due volte, iniziai a correre nella loro direzione ma qualcosa mi teneva bloccato, una mano nella spalla. Quando mi girai vidi mio padre sorridente.

    «Vai piano e non farti male. Sai le regole, vero?»

    «Sì, papà. Lasciami andare.»

    Detto ciò fui libero di raggiungere gli amici.

    «Da quanto siete arrivati?»

    «Lo sai Jake che abito qui!»

    In effetti Manuele abitava, quasi, di fronte alla collina Selvi, negli appartamenti a schiera oltre la strada. Si avvicinò a me e mi diede un destro sulla spalla.

    «Io sono arrivato adesso». Francesco si sistemò gli occhiali.

    «Simone?»

    «Non è ancora arrivato.»

    Per ingannare l’attesa iniziammo a tirarci le palle di neve. Dopo un quarto d’ora arrivò anche Simone, sembrava triste. Scese da un’auto grigia e s'incamminò verso di noi.

    «Ecco la lumaca!»

    Come sempre, Manuele non riusciva a trattenersi e iniziò a correre verso Simone. Io e Francesco fummo costretti ad inseguirlo. Simone ci attendeva, sembrava un cane bastonato.

    «Manu… io … non dovevo venire.»

    «Perché?»

    La situazione di Simone la conoscevano tutti: la madre era morta cinque anni prima, il padre aveva iniziato a bere pesantemente e lo si vedeva spesso ubriaco. Per questo motivo Simone cercava, in ogni modo, di nascondere i lividi, ma era impossibile non notarli.

    «Ti ha picchiato?»

    «Sono riuscito a convincerlo, m-ma…». Simone, a stento, tratteneva le lacrime.

    «Non ci potevi chiamare?»

    «Mi ha accompagnato una vicina di casa. Angela non voleva venire… ma…  siamo riusciti a convincerla.»

    «Chi è Angela?»

    «E’ la figlia della vicina. Abitano di fianco al nostro appartamento.»

    «Dov’è?»

    Simone ci indicò la pianura con il dito ma c’era troppa gente e non la si riusciva a vedere.

    «Non voleva venire ma i suoi genitori hanno insistito.»

    «Dai! Andiamo tutti!»

    Manuele fece un urlo a pieni polmoni, il braccio teso come se da un momento all’altro dovesse gridare Carica!. Con tono serioso, Francesco cercò di riportarlo alla realtà.

    «A spaventarla?»

    «Simo, ci andiamo tu ed io! Voi aspettateci qui! Non iniziate senza di noi!» 

    «Non ti preoccupare, Manu! Sei sicuro, Fra?»

    «Se andiamo tutti la spaventiamo, Jake.»

    Francesco non si scomponeva mai, era considerato il saggio del gruppo. Ad un certo punto vedemmo Simone, Manuele e tre figure scendere da una macchina ed incamminarsi su per la collina innevata.

    Manuele fu il primo ad arrivare. Con il suo solito sorriso smagliante ci stava indicando le tre persone dietro di lui.

    «Siamo tornatiiii! E abbiamo compagnia!»

    Notai subito una bambina tremante, dietro ad una signora. Poi la vidi meglio: i capelli nero corvino ricci, gli occhi di un verde brillante e un visino molto snello, portava gli occhiali, una tuta da sci color rosa pastello e scarpe da neve di colore rosso. La mano era ancorata a quella della madre. Le si poteva leggere benissimo la paura e una forte timidezza.

    «Ciao, sono Mara, la mamma di Angela. Dai tesoro, saluta.»

    Lei si nascondeva dietro alla madre fino a quando ella non riuscì a mettercela di fronte. Teneva il viso basso:

    «C-c-c-ciao, io… ehm… Mamma, andiamo a casa?»

    «Su, amore. Non essere timida. Divertiti e fatti nuove amicizie, ok?»

    La madre cercò di divincolarsi dalla stretta della figlia e dopo vari tentativi, aiutata anche dal marito, riuscì a lasciarcela. Partiti loro, Manuele le si avvicinò.

    «Sei timida, eh? Tranquilla, una giornata con noi e ti faremo tornare il sorriso! Io sono Manuele, per gli amici Manu! Sono bello, sono intelligente e sono bello!»

    Come sempre Manuele doveva, a tutti i patti, fare lo spavaldo della situazione.

    «Buono, cavaliere. Abbiamo una principessa da salutare, prima». Adoravo il sarcasmo di Francesco.

    Iniziò pian piano a fare le presentazioni.

    «Ciao, io sono Francesco. Il cavaliere di buona speranza è Manuele. Simone lo conosci già e lui è ...»

    Appena indicò me, Angela sembrava ancora più intimorita. Era arrossita e stava sudando, gli occhiali le si erano appannati.

    «… Giacomo. Vuoi venire a giocare con noi? Ti piace giocare a palle di neve?»

    Angela rimase in silenzio, lo sguardo sempre basso. Dopo un po’ parlò con una foce flebile, quasi un sussurro:

    «N-n-non p-p-possiamo giocare a q-q-qualcos’altro?»

    Allora mi venne un’idea: <

    Angela si pulì gli occhiali con i guanti.

    «S-sì mi piace. P-p-papà lo porta sempre q-q-quando andiamo in

    montagna.»

    Finalmente riuscivo a scorgere un accenno di sorriso.

    «Lo vado a prendere, aspettatemi!»

    Corsi da papà, intento a parlare con degli adulti, e gli chiesi se poteva andare a prendermi lo slittino che avevamo dimenticato in macchina. Borbottò qualcosa ma corse a prenderlo. Quando me lo porse, ritornai alla collina e, raggiunti i miei amici, Manuele me lo strappò dalle mani.

    «Ecco lo slittino! Andiamooo!»

    Stava correndo a perdifiato verso la cima della collina.

    «E’ una fortuna se aspetta». Francesco si mise una mano nella fronte.

    «Manu! Te lo vado subito a riprendere.»

    Mentre stavo per incamminarmi in direzione della cima, mi sentii trattenere la tuta. Voltandomi scoprii che era Angela, mi stava tenendo il braccio sempre con lo sguardo basso.

    «N-n-non ti… preoccupare… giochiamo… a qualcos’altro… v-v-va bene anche palle di neve… M-ma per favore… non tiratemele in faccia.»

    In quel momento il mio sguardo incrociò il suo. La sola vista di quegli occhi mi fece battere il cuore a mille.

    Il pomeriggio lasciò il posto alla sera. Erano le sei e, dopo tre ore di divertimento, in cui persino Angela si era sfogata, arrivò il momento di salutarci. Il sempre allegro Manuele, andò via con la sorella che era venuta a prenderlo. Francesco si diresse verso i suoi genitori e Simone aspettava Angela, per ritornare a casa.

    «E’ stato divertente! M-m-Manuele è sempre così?»

    «Sì, purtroppo.»

    «S-s-spero che ci vediamo ancora… a-a-a giocare!»

    Per l’imbarazzo chinò talmente tanto la testa, da far cadere gli occhiali nella neve fresca.

    «Stai attenta...» glieli raccolsi. «Tieni…»

    Da lontano si incominciavano ad udire delle voci che chiamavano Angela.

    «Grazie. Mamma e papà mi stanno chiamando… io vado… c-c-ciao Giacomo!» E corse in direzione dei suoi genitori.

    Ero immerso nei miei pensieri quando sentii una mano nella spalla. Feci un balzo dalla paura. Quando mi voltai vidi papà.

    «Ehi campione! Andiamo a casa?»

    Mamma ci raggiunse, con Michele in braccio. Si avvicinò e mi tastò la fronte.

    «Andiamo. Sei sudato e non voglio che ti ammali.»

    Il mio fratellino era molto provato dalla giornata e si stava lamentando.

    La giornata finì tra una pizza ed un cartone animato. Nel letto non riuscivo a prendere sonno, continuavo a vedere quel sorriso e quegli occhi.

    L’anno scolastico incominciò il 9 di gennaio. Nell’immenso corridoio della scuola, vidi Angela con i suoi genitori. Lei non sembrava sentirsi a proprio agio, la vedevo pallida, si aggrappava alla mano del padre. Suonata la campanella, tutti cominciammo ad entrare nelle rispettive aule. Raggiunsi il mio banco, nella sezione 2b, tirai fuori l'astuccio nuovo ed un quaderno.

    La maestra Maria entrò di fretta e posò il registro sulla cattedra, infine si mise di fronte alla classe.

    «Buongiorno bambini.»

    «Buongiorno maestra Maria!» intonammo in coro.

    La maestra era anziana, le si potevano vedere le rughe. Era sempre allegra e coinvolgeva molto i suoi alunni. Ancora oggi la ricordo con molto affetto.

    «Spero che abbiate trascorso delle belle vacanze di Natale! Dopo mi racconterete tutto… uno alla volta. Prima però date il benvenuto alla vostra nuova compagna di classe: Angela Ciani.»

    Lì per lì non entrava nessuno poi, penso aiutata dai genitori, varcò l'uscio e si mise vicino alla maestra. Indossava un grembiule blu, lo zaino rosa sul davanti e viola ai lati. Era rimasta immobile, con lo sguardo fisso a terra. Non si era ancora tolta il cappotto e sembrava in procinto di scappare da un momento all’altro. La maestra le si chinò davanti.

    «Forza, Angela. Presentati.»

    Lei riusciva solo a stare a testa bassa, non muoveva un muscolo.

    «C-c-c-ciao a tutti, mi chiamo Angela e… ehm...»

    Seguì un lungo silenzio, fino a quando la maestra le accarezzò la testa.

    «Va bene Angela, tranquilla. Vai pure al tuo banco. È quello vicino a Lucia, in fondo… Lucia, trattala bene. Conto su di te.»

    Lucia era una brava bambina ma spesso era bullizzata dalle perfettine o, come le chiamerei ora, le snobbine che la facevano cadere con gli sgambetti e la deridevano. Di carattere era molto simile ad Angela. Io e Lucia ci conosciamo dai tempi dell’asilo. Ho sempre cercato di difenderla dalle bulle e di aiutarla il più possibile ma quelle, ogni volta, mi etichettavano come Il fidanzatino della sgorbia. Per me non è mai stata una sgorbia, anzi: i capelli biondi sempre ben pettinati, gli occhiali blu, un visino dolce, era sempre gentile e disponibile… mi piaceva stare in sua compagnia. Angela percorse i banchi fino ad arrivare al suo.

    La maestra Maria richiamò l’attenzione su di sé.

    «Ora, prima di tutto: come sono andate le vacanze di Natale? Babbo è passato? Cosa vi ha portato? Iniziamo da… Agniezka.»

    Lei, con uno sbuffo, si alzò dal banco. Annia era la capoclasse ma anche la più bella delle mie compagne di classe. Aveva capelli biondi ricci fino alle spalle, indossava occhiali da vista color fucsia ed era dotata di un corpo snello ben fatto e di un’intelligenza sopra la media. Era una snob, cambiava di frequente abbigliamento e spesso si mostrava altezzosa sia verso di noi sia nei confronti delle insegnanti. L'essere la capoclasse aumentava la sua boria.

    «Beh… io e il mio babbo siamo stati in montagna fino a domenica. Babbo Natale mi ha portato vestiti nuovi, tre Barbie, gli sci e tre paia di scarpe.»

    «Quanti regali. Sei stata una brava bambina.»

    Con uno sguardo spocchioso e spavaldo, si rivolse alla maestra.

    «Non brava… la migliore.»

    La maestra, ogni volta, ci rimaneva male… però aveva le mani legate.

    «Ehm… ok… Ora passiamo a Tommaso.»

    La maestra Maria ci interrogò tutti, fino a che non arrivò il momento di Angela.

    «Dicci, Angela: cosa hai fatto durante le vacanze di Natale? E Babbo Natale?»

    Anche lei si alzò dalla sedia ma la timidezza le impediva di guardare la maestra.

    «I-io mi s-sono appena trasferita qui. Babbo Natale mi ha regalato libri e quaderni nuovi.»

    «Da dove ti sei trasferita, tesoro?»

    «D-d-da Bologna. Papà ha trovato lavoro i-in questa città e ci siamo trasferiti.»

    «Ti piace la nostra cittadina? Cos’hai visto?»

    Un piccolo sorriso le solcò le guance, il suo sguardo si posò prima su Manuele, poi su Francesco ed infine lo rivolse verso di me.

    «S-sono a-andata a g-giocare a p-palle di neve e…»

    «Ti sei fatta nuovi amici?»

    Continuando a sorridere, finalmente trovò il coraggio di guardare in faccia la maestra.

    «Sì.»

    «Ottimo! Ora passiamo ai compiti. Perché li avete fatti, vero?

    Manuele, cominciamo da te.»

    «Io li ho fatti, maestra Maria!»

    «Davvero?»

    «Beh… quasi tutti.»

    Le giornate seguenti passarono in tranquillità. Angela faceva fatica ad ambientarsi, grazie anche al ‘sostegno’ delle perfettine. Ogni tanto la vedevo con Lucia a parlare vicino alle scale che davano all’entrata della scuola.

    Non ho ricordi nitidi del periodo delle elementari, tranne quel 14 Febbraio del quinto anno.

    Fu il giorno in cui, sotto il banco, mi ritrovai un biglietto, un cartoncino rosa adornato da cuoricini, con una scritta: Giacomo sei speciale! Buon San Valentino! Ti va di metterti con me? Si o no?

    Ogni anno, sempre un bigliettino e sempre la stessa calligrafia. Chi poteva essere?

    «Un bigliettino?»

    «Sì. Chi me lo avrà scritto? Voi avete visto qualcosa?»

    Francesco ci pensò a lungo, prima di rispondere.

    «Mi pare di aver visto Angela entrare in classe e uscire poco dopo con un succo di frutta.»

    «Vado a chiederglielo.»

    Come sempre, Angela stava parlando con Lucia vicino alla panchina. Quando le raggiunsi, sbiancarono in viso.

    «Angela, scusa. Ti posso chiedere una cosa?»

    «S-s-sì.»

    «Vieni con me?»

    Lucia la stava trattenendo dalla manica del grembiule.

    «Puoi dirlo anche a me? O è un segreto?»

    «No, non è un segreto, Lucia. Ho trovato questo...»

    Dalla tasca, tirai fuori il cartoncino colorato.

    «… sotto il mio banco. Francesco ha detto che ha visto te, entrare in classe. Sei stata tu Angela?»

    Fissavo Angela, tanto da non rendermi conto che Lucia si era messa a piangere.

    Sì, lo avevo messo io sotto il tuo banco, ma…

    «Stupido!»

    Una Lucia sconvolta scese dalla panchina e corse dentro la scuola. Confuso e disorientato guardai in direzione di Angela.

    «Cos’è successo?»

    «Io… ecco… io…»

    Anche lei volò giù dalla panchina e la rincorse. Da quel giorno, entrambe, non mi parlarono più. Quando capii cosa avevo fatto, nel giorno del suo compleanno, volli scusarmi con Lucia. Lei continuava a dirmi di non pensarci più, ma vidi che le scendevano le lacrime.

    Avevo promesso di non farti piangere… mi dispiace, Luci. Avevo fallito.

    Passò un anno e iniziarono le scuole medie che io ricordo con tristezza. I contatti con Manuele e Francesco s’intensificarono, anche perché ogni due settimane c’era almeno una verifica. Simone lo si vedeva solo nei fine settimana. Le medie furono

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