Il vizio del diavolo
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Anteprima del libro
Il vizio del diavolo - Enrico Luceri
Roveto
Ancora una volta per Edoardo, dallo zio Enrico
Una località di campagna dell’Italia settentrionale, la sera del 23 dicembre 2018
Forse ci aspetta una notte del tutto straordinaria
(L’arcano incantatore, regia di Pupi Avati)
La porta si apre ed entra l’ospite inatteso
(Ha un brivido) Questa frase mi faceva sempre paura, da bambina. L’ospite inatteso…
(L’ospite inatteso, di Agatha Christie)
1
Corinna si affacciò nel giardino dalla soglia del collegio. Gettò uno sguardo indifferente alla strada che serpeggiava verso la provinciale, al parcheggio deserto e infine più lontano, verso il muro di recinzione che separava una campagna piatta e desolata. A metà pomeriggio, il crepuscolo era già calato e il terreno oltre il muro era solo una macchia scura e compatta.
La ragazza s’incamminò sul sentiero lastricato di pietre umide, saltellando con un’allegria che non provava affatto. Alzò la testa verso il cielo, e lo vide coperto da nuvole grigie che le sembrarono gonfie di pioggia. Dopo un centinaio di metri, abbandonò il sentiero e le sue scarpe da ginnastica calpestarono terra bagnata e foglie fradice. S’inoltrò nel giardino, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, sbuffando fiato che svaniva in quel buio silenzioso. Già, così silenzioso che lei si fermò e pensò che perfino gli animali notturni tacevano. Il rumore delle auto sulla provinciale era solo un modesto ronzio, subito assorbito dalla distanza e dall’oscurità.
Corinna scrollò la testa e riprese a passeggiare nel giardino. Quando fu certa che la facciata del collegio fosse abbastanza lontana, sfilò le mani dalle tasche e frugò nella felpa, alla ricerca dell’accendino e del pacchetto di sigarette. Ne prese una con le dita tremanti per il freddo, la strinse fra le labbra e l’accese. Adesso camminava lentamente, immersa nei suoi pensieri. A braccia conserte, come avesse voluto proteggere il petto dal vento che si era levato tagliente e secco. Si voltò, ma solo dopo aver nascosto la sigaretta dietro la schiena, e fissò il collegio. C’erano solo un paio di finestre illuminate e a lei sembrarono due occhi socchiusi in un viso impassibile. Il viso di chi riesce a mascherare con abilità le proprie emozioni, ingannando coloro che frequenta, nascondendo la propria vera indole, simulando sentimenti che non prova. A differenza di lei, ammise Corinna, ridacchiando nervosamente. Rimproverò la propria fantasia morbosa, girò le spalle all’edificio massiccio e s’inoltrò nel giardino, fumando con calma.
Il vento di tramontana le fece scorrere dei brividi lungo il corpo. Strinse la sigaretta fra le labbra, alzò il cappuccio della felpa, e scrutò la campagna, che ormai era a pochi passi da lei. Le sbarre sopra il muro le ricordavano quelle di una prigione, e la sua immaginazione volò confusamente fra le sequenze dei film che vedeva sul cellulare: ricordò un mostro mitologico di una serie fantasy strappare le sbarre come fossero stuzzicadenti, i protagonisti di una fiction noir evadere da un carcere su un’isola remota e gli adepti di una setta satanica di una pellicola horror nascondere il volto dietro il cappuccio di un saio porpora. Lo stesso colore della sua felpa, stabilì soddisfatta, e le medesime sensazioni di rabbia, sollievo e soffocamento che la tormentavano.
Corinna si fermò accanto al muro, finì di fumare la sigaretta e seguì il filo del fumo mentre era inghiottito dalle tenebre. Si chiese se anche la sua giovinezza sarebbe evaporata in fretta come quel fumo, e non seppe o non volle rispondere a se stessa. Gettò il mozzicone sul terreno e lo schiacciò con la scarpa, poi rimase ancora a braccia conserte a scrutare ciò che intuiva della campagna. Una distesa brulla, così scura che sembrava essere imbevuta del sangue di chi la coltivava, popolata da corvi che volavano in cerchio stridendo e sbattendo le ali con un rumore simile a un lamento. Di nuovo, la sgradevole certezza di essere condizionata dalle storie che vedeva ossessivamente sul display del cellulare. Già, ossessivamente. E cos’altro avrebbe potuto fare, sepolta da viva e da adolescente in quel collegio simile a un penitenziario? Abbassò le spalle, come se fosse stata assalita da una stanchezza improvvisa e infilò in bocca una caramella, che succhiò piano piano.
Quando la caramella fu ridotta a una sottile scaglia, la inghiottì e accostò le mani intirizzite alla bocca. Le unì a coppa, soffiò alcune volte e annusò il proprio alito, cercando con attenzione i residui dell’odore di tabacco. Quando fu convinta che fosse stato coperto da quello della menta, sospirò di sollievo e infilò le mani nelle tasche morbide della felpa. Suor Carmela avrebbe riconosciuto l’odore, anzi il puzzo, come lo chiamava lei, della sigaretta anche a distanza di qualche passo, e Corinna non aveva voglia di sentire la consueta litania sui danni del fumo nei polmoni di una ragazza di quattordici anni, e tantomeno ascoltare la predica di suor Ester sui vizi come anticamera del peccato. Quel pomeriggio, Corinna non avrebbe avuto la forza di sopportare l’ennesimo litigio con le due suore, che detestava ogni giorno di più.
La ragazza si appoggiò al muro ruvido e sbirciò il cellulare. Nessun messaggio di posta elettronica, nessun sms e nemmeno una chiamata o una chat di WhatsApp attiva. Ripose il telefono, che stava per sfuggirle dalle mani rigide per il freddo. Imprecò a bassa voce e sentì crescere dentro di sé una malinconia così profonda da scacciare per un attimo anche la rabbia con cui conviveva da tempo. Chi avrebbe mai potuto pensare a lei in un pomeriggio simile, a due giorni da Natale? Nessuno. Né i suoi compagni di classe, che adesso erano a casa con le loro famiglie e parlavano di regali, feste e dei menù delle cene. Cioè di cazzate, concluse lei. E neppure gli insegnanti, opachi e indifferenti come le stelle che vedeva spuntare fioche fra le nuvole grigiastre. Parenti non ne aveva, dopo la morte della mamma. Suo padre non sapeva chi fosse e nemmeno le autorità erano riuscite a scovare qualche zio o cugino lontano che potessero assumere la sua tutela fino alla maggiore età. Bella vita di merda! Corinna pestò i piedi sul terreno melmoso e strinse le mani a pugno dentro le tasche. Forse avrebbe potuto scriverle o telefonarle qualcuno di quegli amici, ammesso che questa parola avesse senso con nomi senza volto e voci senza età, con cui condivideva i giochi di ruolo in Internet. Giochi di guerra, dove lei spesso uccideva e ancora più di frequente finiva ammazzata. Mai, però, per sua sbadataggine o per un errore di mira: sempre per colpa del compagno occasionale con cui usciva di pattuglia. Certo, perché lei, Corinna, non sbagliava mai la mira e soprattutto non esitava a sparare. Non aveva provato alcuno scrupolo o rimorso, o rimpianto, a sparare a figure che sia pure per gioco rappresentavano altri esseri umani. Doveva farlo, altrimenti loro avrebbero ammazzato lei. Non era in realtà un gioco di ruolo, concluse Corinna, ma solo una gara per decidere chi di loro possedesse il maggior istinto di sopravvivenza. Comunque, decise, meglio quei nomi senza volto ed età, che le espressioni ciniche e ipocrite dei suoi coetanei, che la disprezzavano o, peggio ancora, manifestavano qualcosa di simile alla pietà perché lei era una povera orfana, affidata alla tutela di preti e suore.
Corinna si chinò e afferrò un ramo, fece scorrere il palmo sulla sua superficie umida e ne saggiò la robustezza battendolo sull’altra mano. Cominciò a camminare senza fretta accanto al muro, lasciando sbattere il ramo sulle sbarre di ferro. Il rumore del legno che rimbalzava ritmicamente con un tintinnio metallico le conciliò qualche minuto di distrazione dai pensieri tristi che la ossessionavano e sembravano premere dentro la sua testa, come se volessero spaccarla e fuggire in aria, per scomparire nel buio come il fumo della sigaretta. La ragazza fu abbagliata dal flash di un ricordo: l’immagine di un film di fantascienza dove una creatura aliena si rifugia nella mente di una donna e quando ne ha succhiato energia vitale sufficiente, la fa esplodere in un diluvio di sangue per evadere e cercare un altro nascondiglio. Corinna masticò un paio di parolacce: forse aveva ragione suor Ester, le ore e ore trascorse china sul cellulare a vedere film horror o fantastici, con gli auricolari infilati nelle orecchie, le avevano davvero fritto il cervello.
Chiuse e riaprì gli occhi, sforzandosi di dimenticare quelle immagini, e subito dopo si domandò se il rumore del bastone sulle sbarre non fosse simile a quello del tam-tam dei pellirosse o di qualche popolazione aborigena o africana. Un messaggio lanciato nel cielo scuro. Un bengala che illumina a giorno solo per un attimo la campagna buia, prima di spegnersi del tutto, per sempre. Una lettera sudicia e strappata, infilata in una bottiglia e affidata alla misericordia del mare dalla spiaggia di un’isola deserta. Un segnale trasmesso da una posata sbattuta sulle tubazioni di un carcere, che avvisa i complici di tenersi pronti all’evasione. E cos’era lei, Corinna? Una naufraga precoce nell’oceano della vita, la prigioniera di un carcere chiamato per convenzione collegio, o una selvaggia primitiva nascosta fra i futuri dirigenti di una società borghese e convenzionale? Forse dentro di lei c’era qualcosa di ogni loro personalità, o chissà, di nessuna, e il suo destino seguiva ciecamente quello di tanti altri orfani sfortunati.
Corinna sapeva solo che quel destino era ingiusto e crudele, e che lei non aveva fatto nulla di male per meritare la condanna di essere reclusa fra preti e suore aridi e severi.
Fu in quel momento, che sentì il rumore.
La ragazza era appoggiata all’angolo del muro, dove piegava verso le tenebre e si confondeva con la parete nera della campagna. Tese le orecchie, abbassò il bastone e rimase in attesa, contando i secondi. Uno, due, tre, quattro… Di nuovo quel suono secco come un ramo spezzato. La spiegazione più razionale che seppe darsi fu che una raffica di vento più violenta delle altre avesse spezzato il ramo di un albero. La ragazza rimase immobile, mentre la tramontana fischiava gelida e s’infilava nel cappuccio e nelle maniche della felpa. Strizzò gli occhi per distinguere il profilo del collegio e quelle due finestre illuminate, che le sembrarono lontanissime, anche se si era allontanata solo di qualche centinaio di metri.
Un altro rumore, all’improvviso. Stavolta fu un suono sordo. Vicino, anzi vicinissimo. Forse il tonfo soffocato di qualcosa. Corinna pensò istintivamente che il vento avesse fatto precipitare una pigna nel fango. La ragazza si guardò attorno, ma vide solo la penombra che confondeva alberi e siepi. E alle sue spalle c’era il muro di cinta a dividerla dalla campagna scura e tetra.
«Merda!» esclamò Corinna a bassa voce. «Devo stare calma o finirò per credere ai fantasmi nel parco del film di ieri sera. Mi sento rincoglionita come se una dose di roba tagliata male m’avesse bruciato la testa. ’Fanculo sto’ maledetto giardino e il buio.»
Passò le mani sulla superficie scabrosa del muro prima di fare un passo avanti, e poi un altro e un altro ancora, con i lineamenti induriti dal freddo e dalla paura e il timore di inciampare in qualche buca scavata da un animale nel terreno umido. Camminava con prudenza, attenta a percepire il rumore più smorzato quando udì i rami di un albero alla sua destra scricchiolare con un crepitio che le ricordò quelle delle armi virtuali dei suoi giochi di ruolo su Internet.
Di colpo, il vento si levò ancora più impetuoso e scacciò le nuvole che nascondevano la luna. Una luminosità livida dilatò i profili degli alberi, rendendoli lunghi e filiformi come quelli dei cartoni animati. Poi una nuvola tornò a coprire la luna e il giardino diventò di nuovo una chiazza color inchiostro.
Un cespuglio a un metro da lei si mosse, e i rami sfiorarono la felpa della ragazza, che sobbalzò, e proseguì il suo cammino nelle tenebre, seguendo l’esile traccia luminosa di quelle due finestre simili a occhi che adesso sembravano ammiccarle, indicandole la direzione. Respirava rumorosamente, convinta che le raffiche di vento coprissero a malapena il rumore dei rami e dei cespugli. Corinna pestò una pozzanghera e gli schizzi d’acqua l’accecarono per un istante. Sputò un paio di parolacce e dovette rallentare perché sentiva il cuore in gola e il respiro corto. Spalancò con una spallata il cancello d’ingresso al giardino.
Una folata violenta agitò le cime degli alberi e gocce d’acqua fredda bagnarono il cappuccio e i suoi capelli. Imprecò ad alta voce e imboccò il sentiero di pietre reso ancora più scivoloso dall’umidità della sera, mentre frugava nella tasca dei pantaloni alla ricerca della chiave del portone. Adesso fra lei e la facciata del collegio c’era solo un centinaio di metri. Rischiò di cadere su una pietra coperta di muschio ma riuscì a mantenere l’equilibrio.
Corinna strinse i denti, saltò i pochi gradini e piombò sulla soglia. Infilò la chiave nella serratura con mani tremanti e spalancò la porta, ansimando e pregando suo malgrado. Prima di chiuderla, fissò le cime degli alberi piegate dal vento e i cespugli che una mano invisibile pareva strappare dal terreno.
Chi aveva spiato Corinna da quando era uscita in giardino al momento in cui era rientrata nel collegio, sorrise senza allegria. Abbandonò il suo nascondiglio dietro un albero, camminò chinando il capo accanto ai cespugli e la sua ombra si confuse con l’oscurità, come quella di un fantasma. La figura scivolò attorno al muro del collegio, e poi svanì, proprio vicino all’ingresso posteriore dell’edificio, ma nessuno avrebbe potuto affermare con sicurezza che fosse entrata oppure si fosse allontanata fino a confondersi di nuovo con gli alberi, in attesa di qualcosa o qualcuno.
Corinna appoggiò le spalle al portone, chiuse gli occhi respirando a fatica e abbassò il cappuccio della felpa. Stropicciò le mani e, quando i suoi occhi esplorarono l’androne, si sentì finalmente al sicuro. Subito dopo si accorse del silenzio. Anche il collegio pareva galleggiare in una bolla priva di voci, suoni e rumori. Perfino la pendola a fianco della scalinata che conduceva al piano superiore taceva. Probabilmente padre Castellani si era dimenticato di caricarla, ma quella banale coincidenza aumentò l’inquietudine che lei credeva di aver lasciato nel giardino, fra alberi e cespugli tormentati dalla tramontana.
La ragazza scrollò i capelli umidi e s’incamminò verso la cucina. Aprì il frigorifero, afferrò una lattina di birra e la bevve a garganella, sebbene fosse fredda e lei scossa da brividi lungo la schiena. Quando l’ebbe scolata, la schiacciò e gettò nel secchio della spazzatura, coprendola con altri rifiuti. Anche la sua abitudine di bere una birra ogni tanto era rimproverata da suor Carmela, e quella strega sarebbe stata capace di rovistare fra i rifiuti per trovare le prove di ciò che considerava un vizio.
Corinna si accucciò su una poltrona davanti alla finestra accostata e scrutò il giardino. Il vento era diminuito d’intensità fino a ridursi a una brezza tagliente come una lama, le nuvole grigiastre si erano saldate in un ammasso pronto a rovesciare sulla campagna un acquazzone torrenziale. Adesso i rami degli alberi e dei cespugli erano immobili. La ragazza socchiuse i vetri e tese le orecchie. Era certa di aver percepito un rumore sottile come uno scricchiolio dove il sentiero scompariva nelle tenebre, ma poteva essere stato un animale notturno che al risveglio era uscito dalla tana in cerca di cibo. Un predatore notturno, pensò lei, e ricordò che era lo stesso titolo