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L'ultimo ebreo
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E-book309 pagine4 ore

L'ultimo ebreo

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Info su questo ebook

L’ultimo ebreo è un romanzo che ha gli ingredienti tipici del noir e del thriller, ma si svolge in due universi paralleli, immaginando un mondo in cui la Seconda guerra mondiale è stata vinta dai nazifascisti e lo sterminio degli ebrei è arrivato a compimento. Ambientata nel 1958, la trama si impernia su due protagonisti principali, l’uomo accusato di essere l’ultimo ebreo, un italiano, e il maggiore nazista che gli dà la caccia. La fuga dell’ultimo ebreo parte da Berlino e si conclude in una Roma mussoliniana, con una rivelazione che scompagina le certezze iniziali. Nella seconda parte, Sotto la casa, l'incubo nazista si ripresenta ai nostri giorni, in un differente universo, più simile a quello in cui viviamo: i giovani di un centro sociale occupano un vecchio casolare abbandonato, ma scopriranno che quell’edificio nasconde molti segreti e molti misteri. In chiusura del volume, un saggio di Fabio Giovannini sull'ucronia (le situazioni storiche alternative, diverse da quelle realmente avvenute) nella letteratura e nell'immaginario.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2021
ISBN9791280075178
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    Anteprima del libro

    L'ultimo ebreo - Ivo Scanner

    1999.

    PRIMA PARTE

    Il corpo di Marlies è inondato dalla luce dei lampioni, che passa attraverso le veneziane. È nuda, coricata a pancia in giù sul piumone del letto a due piazze. Fuori, come sempre a Berlino, la temperatura è gelida e il freddo sembra rendere ancora più immobili le prime ore del giorno. Ma in casa il riscaldamento permette di stare tranquillamente spogliati.

    Dall’esterno vengono rumori familiari. Le bandiere con la svastica dei palazzi vicini sventolano emettendo il consueto suono di stoffa sbattuta dal vento. Una squadra di SS marcia facendo risuonare ogni passo sull’asfalto pulito.

    Marlies si allaccia il reggiseno con abilità e ancora seminuda accende il televisore. Il notiziario riassume i titoli del giorno. I nuovi progetti per la conquista dello spazio, dopo il primo satellite artificiale tedesco lanciato a febbraio, e soprattutto i preparativi per le celebrazioni del compleanno di Adolf Hitler. Il 20 aprile 1958 tutto il Terzo Reich, e il mondo intero, festeggerà quella data straordinaria, la venuta alla luce del più grande degli uomini.

    Guardo Marlies seduta sul bordo del letto, le braccia lungo il corpo. Mi sono affezionato alla voglia rossa che ha sulla spalla, mi sono affezionato ai suoi capelli biondi. Ma lei è una ragazza strana. Sembra sempre imbambolata quando si mette davanti allo schermo. Anche adesso non toglie gli occhi dal televisore. È il momento di Fatti tedeschi, il programma dedicato ai casi umani del Reich. Marlies non si perde mai la replica che va in onda ogni mattina all’alba. Non capisco cosa le piaccia di quella stupida trasmissione. Un uomo è seduto a un tavolino da bar e parla con il conduttore. Racconta le sue disgrazie, le sue sofferenze. Quando ha finito, ecco apparire l’ospite di turno. Un dirigente del partito, un ministro, un sottosegretario, a spiegare che il suo caso sarà risolto quanto prima. Applausi. Lacrime. Tutto va bene, il Reich è perfetto, la vita qui è meravigliosa.

    Io vado, dico a Marlies. Lei non solleva nemmeno lo sguardo dal televisore. La nuova puntata di Fatti tedeschi è più importante. Io do un’occhiata al termometro, fuori dalla finestra. Ancora sotto zero.

    Appena esco dal portone mi accoglie un grande cartello colorato su cui campeggia il ritratto del Führer a mezzo busto. In tutti i negozi le foto del Führer si affacciano dalle vetrine. Da quando quattro anni fa è arrivata la televisione, gli schermi bombati delle tv sono esposti nei negozi e la gente si ferma a guardare i telegiornali. Però Marlies ha voluto un televisore in casa, tutto per sé, nonostante il prezzo proibitivo. Marlies non può fare a meno di quelle piccole immagini bianche e nere che si muovono e parlano.

    Sono belle le albe di Berlino, tra i grandi palazzi lucidi di pioggia che si trasforma sempre più velocemente in nevischio. Cammino nelle strade di questa città che non mi appartiene, rassegnato. Per me è un giorno triste. Oggi è il mio giorno per superare la visita. E so che a ogni angolo c’è un agente della Gestapo che può fermarmi. So che non mi posso fidare nemmeno della gente ben vestita incurante della neve, a cui è abituata. Io, invece, non sono abituato a questo freddo e a questa neve, perché io non sono tedesco.

    Ora passo sotto un altro cartellone pubblicitario. C’è un tizio con un grosso naso, una barba ispida e uno zucchetto nero, avvolto nel fumo di un sigaro. A fianco, ha una scritta in caratteri gotici: Gli ebrei fumavano. Non imitarli. Se è vera la voce che gli ebrei uccisi venivano bruciati nei forni, questo slogan è davvero macabro.

    Continuo a camminare, stringendomi il cappotto per difendermi dal gelo del mattino. Poi, tra tutti i palazzi di Prinz-Albrecht-Strasse riconosco subito l’edificio del RSHA, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, i suoi muri di pietra luccicante, le file di finestre severe. Sotto la vigilanza sgarbata di alcuni poliziotti una lunga coda di persone comincia a muoversi verso l’ingresso del palazzo. Il censimento ariano continua e molti non sono stati ancora visitati, a molti non è stato dato il documento definitivo che attesta di non avere sangue ebreo nelle vene, previsto dall’Ufficio centrale per la disebreizzazione. Sono gli ultimi, quelli che non hanno superato il questionario inviato per posta e che necessitano di una visita e di un interrogatorio di persona. Come me.

    La campagna sull’ultimo ebreo va avanti da quasi un anno. Hanno messo una taglia, hanno pubblicato studi per dimostrare che ne mancherebbe solo uno. Uno soltanto, e la razza ebraica sarà sparita. Ma non sanno chi sia, né dove sia. L’unica cosa che raccontano è che vive in Germania. È una trovata propagandistica, ne sono certo. Come fanno a sapere che ne è rimasto soltanto uno? Come possono sostenere che c’è un solo ebreo se non ne conoscono il nome? Ma la gente ci crede, e questo è quello che conta. Purtroppo per me.

    Resto in fila per un paio d’ore, prima all’esterno, poi dentro al palazzo. Quando arrivo finalmente allo sportello principale iniziano le domande.

    Professione? Operaio specializzato. Stato civile? Celibe. Alle mie spalle sento il mormorio soffuso delle altre persone in coda.

    Adesso andate allo sportello H.

    Un poliziotto mi afferra bruscamente per un braccio, con la mano guantata della polizia statale, e mi spinge verso un’altra fila di cappotti grigi, in una grande sala vicina. Supero le code di tanti altri sportelli e arrivo allo sportello H.

    Vorrei fumare, ma ovunque sono appesi cartelli con il profilo nero di una pipa attraversato da una barra rossa. Da quando il Führer ha lanciato la grande campagna antifumo in nessun locale pubblico è più consentito accendersi una sigaretta, in nessun ristorante, nemmeno nei parchi. Sui pacchetti hanno applicato delle strisce listate a lutto con la scritta: Il fumo uccide. Fumare, ormai, è considerato un atto eversivo, una dimostrazione di dissenso. Ma le compagnie del tabacco sostengono il Partito nazionalsocialista, e così non viene vietata la vendita di sigarette, ma solo deplorato l’uso.

    Ora attendo che mi chiamino. La fila prosegue lenta. Appena sentono il loro nome dall’altoparlante sopra lo sportello, tutti spariscono dietro una porta proprio lì a fianco, dove è affissa una grande H in stampatello. Un infermiere dal volto cupo indirizza la gente verso quella porta.

    Sento che il tempo non passa, non passa, non passa. Mi faccio distrarre dal rumore dei tram, giù in strada, l’unico suono oltre il bisbiglio delle persone in fila.

    Guardo quegli uomini e quelle donne incolonnati. Vedo il timore nei loro sguardi, la rassegnazione. Tutti a capo chino, tutti attraversati dalla paura di non ottenere i documenti.

    Finalmente, anche per me l’attesa si conclude. Alle 13 e 40 l’altoparlante gracchia il mio nome: Renzo Renna. Anche io varco la porta con la scritta, anche io, ora, entro nella stanza del primo esame. Su un manifesto a colori, l’immagine di un soldato indica con il dito puntato un tavolino su cui sono ordinatamente impilati dei questionari. Prendo un foglio e mi siedo di fronte a un medico. In silenzio, leggo rapidamente le domande. Incrocio le braccia sul petto. Vorrei guardare fuori, vedere l’esterno, affacciarmi a una finestra: ma la stanza del primo esame non ha finestre.

    Resto fermo, così, fino a che il ronzio di un campanello mi scuote. Ormai deve essere pomeriggio, e mi rendo conto di non aver pranzato. Sono immobile, seduto davanti a quel foglio pieno di domande e vuoto di risposte. Ma so che devo rispondere.

    Sono le 15 quando sento il ronzio di un altro campanello. Il questionario è completato. Due infermieri mi portano in un lungo corridoio, fino a un ascensore. Fortunatamente nel corridoio ci sono alte finestre, e posso dare un’occhiata fuori, alle strade dove l’asfalto è ancora più nero per la pioggia e il nevischio sciolto.

    Secondo piano, dice uno degli infermieri senza aggiungere altro e io salgo sull’ascensore, solo, e premo il tasto con il numero 2. Quando apro le porte della cabina, mi trovo in un salone affrescato. Nei dipinti, uomini a torso nudo arano campi e scavano buche, donne con il fazzoletto sul capo gettano sementi o allattano bambini. Sono tutti biondi, tutti muscolosi, tutti con l’espressione volitiva di chi sta costruendo un nuovo Reich.

    Sulle panche allineate lungo i muri, gli individui seduti sono molto diversi da quelli illustrati nei grandi affreschi. Saranno almeno trenta persone, tutte a testa bassa, molte hanno i capelli neri, si tormentano le mani, fissano il pavimento, silenziosi e preoccupati. Non sono biondi, non sono muscolosi, non sono operosi e volitivi. Sono solo spaventati.

    Chissà se Marlies sta ancora guardando la televisione, penso per un attimo.

    A poco a poco i miei colleghi di sventura passano oltre la porta, in fondo al salone. Un’infermiera dal seno prominente, con i capelli biondi stretti sulla nuca da un fermaglio, li guida verso piccoli banchi dove dovranno compilare altri test. Questa volta ci controllano l’intelligenza. Gli esperti americani che collaborano con il Reich hanno preparato dei quiz per misurare il nostro QI. Gli ebrei, dicono, sono scaltri, ma non sono intelligenti come gli ariani. E se non passi questa prova sono guai.

    Alle 16 è il mio turno. Mi accomodo tra cinque uomini seduti nei loro banchi, chini sui test. Rifletto bene, prima di scrivere le risposte, ogni errore può essere irrimediabile. Mi distrae la frase che campeggia su una parete: Nessuno ha il diritto di considerare la salute una materia personale e privata. La terapia deve essere somministrata nell’interesse della razza e della società. Leonardo Conti. Qualche italiano, come il dottor Conti, è diventato famoso qui in Germania.

    Dopo mezz’ora ho finito. Quale sarà la diagnosi? Ariano? Tendenze ebraiche ereditarie? Sospetto ebreo?

    Adesso è il momento del colloquio, il passo finale prima della visita medica. Sono seduto davanti a una scrivania. Dall’altro lato mi fissa un dottore. Non ha espressione, non ha sorriso. È serio e indaga con le pupille dietro due occhiali rotondi. Assomiglia a Himmler.

    Nella vostra famiglia ci sono stati dei parenti ebrei?

    No.

    Herr Renna, vedo che vostra mamma si chiamava Sara. Era ebrea?

    No, assolutamente.

    E tra i vostri antenati c’è un bisnonno materno di nome Davide. Davvero la famiglia di vostra madre non ha sangue ebraico? Non vi preoccupate di confessare: vi ricordo che se siete un sangue misto di primo o di secondo grado non rischiate niente, se non piccole restrizioni sui diritti di proprietà e di matrimonio.

    No, vi assicuro che non ci sono ebrei nella mia famiglia.

    Il medico mi guarda dubbioso.

    D’accordo… Siete circonciso?

    Naturalmente no, rispondo.

    Quando esco dalla stanza, vedo che il gruppo di persone in attesa è meno affollato. Si avvicina la visita medica. Devo trovare una soluzione. L’infermiera dal seno prominente ora è senza camice bianco. È in divisa della Kripo, la polizia criminale. Il nero le dona.

    Mi mettono su un altro ascensore, e questa volta il tasto che devo premere è il numero 3. Un uomo altissimo in uniforme delle SS mi accoglie appena apro le porte. Siete al terzo piano. Seguitemi. Ha i capelli rasati quasi a zero, ma capisco che sono biondi, biondissimi. Ha un torace alto e muscoloso, che evidenzia la divisa, è bello, è giovane: ed è sicuramente ariano. Gli ariani sono affascinanti, lo ammetto. Senza mai guardarmi in viso mi fa strada verso l’ennesima stanza. Non mi guarda perché potrei essere un subumano, un essere contaminato da sangue ebraico. Fino a che non supero l’ultima prova sono un sospetto. Non faccio che fissare l’orologio, perché adesso il pericolo si avvicina sempre di più. Ho paura, sono teso, pronto a prendere decisioni ultimative per la mia vita. La lancetta dell’orologio arriva sulle 17.

    Il terzo piano è diverso dagli altri che ho attraversato. Sembra una clinica, o forse un carcere. Su un corridoio stretto sfilano porte tutte uguali, con una finestrella a grate. Potrebbero essere celle, ma potrebbero essere semplici stanze ministeriali, oppure reparti di un assurdo ospedale. Il biondo in uniforme si ferma accanto a una delle porte. Capisco che devo entrare.

    La camera in cui accedo è molto più grande di quanto immaginassi mentre percorrevo il corridoio. È una specie di aula universitaria: scende a gradinate fino a una cattedra, dove siede un uomo impettito, con la schiena inarcata come se fosse a una parata militare. I banchi delle gradinate sono tutti vuoti e i miei passi rimbombano nell’aula mentre mi avvicino alla cattedra. È un’aula sontuosa, aquile di bronzo stendono le ali ai quattro capi.

    C’è un dossier tra le mani dell’uomo, con il mio nome sulla copertina.

    Herr Renzo Renna, siete italiano... Io amo l’Italia. Vengo ogni estate in vacanza sulla vostra riviera. Sono certo che non siete voi, l’ultimo ebreo. Sarà qualche polacco, probabilmente. Spero che lo trovino presto, però. Come sapete, l’eliminazione degli ebrei è stato il programma più importante del nostro Reich e io sono orgoglioso di aver fatto la mia parte. Adesso che ne è rimasto solo uno, dovrò cambiare lavoro… Non appare nessun sorriso sul volto dell’uomo.

    Mi accorgo soltanto ora che accanto alla cattedra c’è un lettino con le gambe di metallo, coperto da un sottile lenzuolo bianco.

    Spogliatevi, Herr Renzo Renna. Il medico mi porge un sacco di tela. Mettete qui i vestiti, prego.

    Prendo il sacco, ma non lo apro. Se mi spoglio sono perduto. Tengo il sacco fra le mani, senza muovermi. Passo i polpastrelli sulla svastica scolorita, leggermente in rilievo, che orna la tela. Devo agire. Devo scappare. Come raggiungerò l’ascensore senza essere fermato?

    Il medico è chino sul mio dossier, non si è ancora accorto che non mi sto spogliando.

    Ora.

    Con uno scatto imprevedibile tutti e due i miei pugni intrecciati lo colpiscono sul volto. Gli occhiali gli si frantumano sulla faccia, la sorpresa ha impedito all’uomo di reagire. Lo colpisco ancora, una, due, tre volte, gli sbatto la testa contro il piano della cattedra. Non ha fatto un gemito, non ha avuto il tempo di rendersi conto di nulla. Il mio dossier è tutto schizzato di sangue.

    Il medico deve essere armato, come tutti quelli che lavorano per il RSHA. Frugo sotto le sue ascelle, poi alla cintura: c’è una pistola Mauser. La prendo. Il mio dossier sporco di sangue mi fa senso, ma devo farlo sparire. Lo getto nel sacco di tela.

    Adesso devo uscire da questo palazzo maledetto. Risalgo la scalinata dell’aula, mi apposto dietro la porta. Non sento alcun rumore. Mi affaccio sul corridoio. In fondo c’è una donna in camice verde che si dirige verso una stanza sulla destra. Aspetto che la donna scompaia.

    Non c’è nessuno nel corridoio, non si sente un rumore. Mi sembra quasi un gioco, per un momento, questa fuga. Un gioco amaro. Lentamente, misurando i passi per non farmi sentire, vado verso il fondo del corridoio, dove si accede all’ascensore. So che, probabilmente, troverò il giovane nazista biondo che mi ha accolto al terzo piano. Infatti è là, immobile, alto, fermo davanti all’ascensore, con le braccia incrociate sul petto e il mento proteso. Gli hanno insegnato a mantenere quella posizione, nei lunghi addestramenti. Ma anch’io ho fatto dei lunghi addestramenti, in Italia.

    Camerata, potete aiutarmi?

    Vedo che il biondo mi guarda con sospetto mentre mi avvicino. Il sacco di tela dove ho messo il mio dossier copre la pistola che impugno nella mano destra.

    Cosa fate qui?, mi chiede con tono inquisitorio.

    Ormai gli sono vicino, e lo attacco. Con un solo colpo del mio sinistro. Grazie, Lodovico, per avermi addestrato nei campi della Gioventù Italiana del Littorio!

    Il nazista è caduto sulla passatoia rossa che dall’ascensore porta fino all’ingresso del corridoio. Ormai sono quasi salvo, ci sono quasi riuscito. Entro nell’ascensore, che è ancora al piano. Ora ho la certezza di essere a un passo dalla fuga. Eppure proprio in quel momento, all’improvviso, ho paura. Resto nell’abitacolo dell’ascensore senza premere i pulsanti, il panico mi blocca. Mi tremano le mani. Che giornata orribile! Aspetto che il tremito sia passato. Ogni secondo è un rischio in più. Finalmente riesco a muovere le dita e sospiro di sollievo appena schiaccio il pulsante del piano interrato. Spero che sia meno pericoloso trovare un’uscita nel sotterraneo del RSHA che al piano terra, pieno di guardie. Come sembra lento, quest’ascensore!

    Quando la cabina si ferma con uno scatto metallico, spalanco il cancelletto e mi trovo in uno stretto passaggio dai muri grigi e ruvidi. Qui devono esserci i magazzini e forse gli archivi dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich. Ma si dice anche che ci siano le prigioni della polizia segreta. Il sotterraneo è deserto. Non posso crederci. È stato così facile, in fondo. Passo tra porte che potrebbero nascondere delle celle. Sul lato sud da una grata vedo un cortile, poi mi accorgo di una porta in ferro con una grossa chiave. Apro. Dà su un vicolo esterno.

    Sono salvo. Salvo?

    Dove mi rifugerò? Quanto tempo ci vorrà prima che mi scoprano e comincino a braccarmi?

    Nel vicolo c’è un bambino che gioca, da solo, con della neve sporca. Sono le 17 e 20.

    1

    La sede dei Cacciatori è a ovest di Berlino, in fondo alla grande zona verde del Grunewald, forse la più bella foresta nell’area della città. Per raggiungerla, si percorrono strade separate dai boschi solo da alte reti elettrificate. Attorno case in abbandono, semidistrutte dai bombardamenti della guerra, sono state lasciate in macerie a imperituro ricordo di quella tragedia. Spesso, in quei luoghi, ritorna la vita, quando i giovani dell’Hitlerjugend vengono condotti in pellegrinaggio a osservare le memorie della guerra vittoriosa. Ma questa sera ci sono solo ombre lì intorno, spezzate dai fanali delle moto sidecar che aprono la strada a una grande Bentley blindata.

    Il corteo di luci sferza con i fari il buio del Grunewald e le finestre senza vetri delle rovine. Come occhi di lupo, le luci corrono verso Villa Wannsee,¹ che dopo la guerra è stata ribattezzata Palazzo dei Cacciatori. Affacciata sul lago, la Villa è molto nota a Berlino. Là si riuniscono i Cacciatori, là vive il loro capo. Là si svolgono riunioni politiche, ma anche feste danzanti.

    In questo tardo pomeriggio berlinese, la Villa è in piena attività. Si prepara un party in maschera. Le cameriere puliscono ogni stanza, i cuochi seguono gli ordini militareschi dello chef, i maggiordomi approntano gli ultimi dettagli per ricevere gli ospiti. Il personale militare, invece, è come sempre all’erta per l’arrivo del Maggiore. Si dispongono in semicerchio di fronte al portone principale della Villa, appena sentono il rumore dei motori in lontananza.

    Superato un cancello, l’auto e le moto imboccano il breve viale alberato che porta all’ingresso di Villa Wannsee, tra rami resi scheletrici dall’inverno e siepi ornate da putti di marmo. L’edificio a tre piani mostra le sue grandi vetrate, che illuminano debolmente il viale con la loro luce.

    Dopo aver girato attorno a un’aiola circolare, la Bentley si ferma davanti al portone, sotto un piccolo colonnato. Dall’auto scende un uomo in divisa, a capo scoperto. Ha i capelli più lunghi dei militari che lo accolgono al portone. Capelli lisci e biondi, talmente biondi da essere quasi bianchi, pettinati all’indietro. Il volto è pallido, reso ancor più latteo dal colore della capigliatura e dal contrasto con i piccoli occhiali neri, rettangolari, che indossa nonostante sia già buio.

    Il suo volto è molto conosciuto nel Reich, è il volto del Maggiore Kurt König, capo indiscusso dell’Einsatzgruppe Fänger, i Cacciatori, i responsabili dell’esecuzione degli ebrei in tutto il mondo.

    Heil Hitler!, esclama un ufficiale salutando a braccio teso, appena König è di fronte al portone di Villa Wannsee. Camerata König, vi devo parlare urgentemente.

    Seguitemi nel mio ufficio.

    König e l’ufficiale attraversano l’atrio e salgono la scala tonda sulla destra che porta ai piani superiori. Due file di camerieri e cameriere fanno loro largo. Il personale di servizio è in grande agitazione, per la festa in maschera che tra poco sarà ospitata a Villa Wannsee, una delle tante iniziative conviviali che König ha voluto promuovere, da quando la villa sul lago è diventata la sua residenza, oltre che la sede dei Cacciatori. I piani superiori sono tranquilli, ma nelle sale del piano terra i maggiordomi e le donne delle pulizie lavorano incessantemente.

    Sul corridoio al secondo piano si affacciano sette porte. Nell’ultima, entrano i due militari del Reich. Il Maggiore König si siede dietro la scrivania scura e ordinata, nella grande stanza che ha trasformato in ufficio. Il suo gatto bianco gli corre subito incontro, accoccolandosi vicino alla sedia. Un’intera parete della stanza è occupata da un enorme scaffale chiuso da ante scorrevoli di legno scolpito. Dietro alla scrivania, un arazzo sbiadito mostra combattimenti medioevali tra guerrieri e draghi.

    L’ufficiale resta in piedi, rigido davanti al capo dei Cacciatori, i talloni vicini come a una parata militare, il torace eretto quasi a tendere i bottoni della divisa. Sa che con il Maggiore bisogna mantenere sempre un comportamento disciplinato, mai arrogante: deve essere il Maggiore a dominare e i suoi interlocutori a essere dominati.

    Camerata König, credo che l’ultimo ebreo sia stato identificato.

    Le sopracciglia di König si inarcano, un sorriso sarcastico gli appare sulle labbra e per un attimo chiude le palpebre, come per assaporare una vittoria attesa a lungo. Dal cassetto destro della scrivania estrae un pacchetto di sigarette Sulima, ne prende una, senza provare a offrirne all’ufficiale: sa che non accetterebbe, preoccupato di sembrare critico con le misure antifumo volute da Hitler. L’accendino d’argento emette una fiammella bluastra, mentre l’ufficiale continua il suo resoconto.

    Purtroppo, Maggiore, l’ebreo è latitante. Sappiamo il suo nome. Si tratta di Renzo Renna, un italiano di 36 anni residente a Berlino, che si trovava nella lista del ministero. Stamattina si è recato all’Ufficio centrale per la sicurezza, dove doveva sostenere i test e la visita, ma ha aggredito un medico e un militare, poi è fuggito.

    Portatemi la pratica su questo Renzo Renna, dice brusco il Maggiore.

    L’ho qui con me, Herr König. Ecco il fascicolo dell’ebreo.

    Sfogliando le carte, racchiuse in una cartella gialloscura su cui campeggia un’aquila, König continua a sorridere tra il fumo della sua sigaretta. Poi si appoggia rilassato allo schienale della sedia, chiude il fascicolo e intreccia le mani.

    Questo è tutto quello che sapete?

    "Al momento, sì. Riteniamo che l’ebreo si trovi ancora in città. Il Führer in persona ha chiesto che della cattura vi incarichiate voi, camerata König. Potete immaginare quanto sia importante che il giudeo venga eliminato prima del 9 novembre. Non ci sarebbe miglior omaggio per il Führer che permettergli l’annuncio della soluzione definitiva del problema ebraico, durante il suo discorso a Norimberga. Pensate, nello stesso giorno festeggiare il ventesimo anniversario della Notte dei cristalli e annunciare che il mondo è judenfrei! Solo dieci anni fa un evento del genere ci sarebbe apparso impossibile. Invece la distruzione totale del cancro ebreo è a un passo dall’essere raggiunta. E molto, come sapete, è dovuto proprio a voi, camerata König, e ai vostri Cacciatori. Se voi e i vostri uomini non aveste individuato e ucciso gli ultimi 3.000 ebrei, oggi non saremmo così vicini al successo."

    Non li ho uccisi. Li ho puniti.

    L’ufficiale si blocca, ascoltando quelle parole pronunciate con tono brutale. Ma conosce bene il maggiore König, sa come la pensa. Tanti tedeschi la pensano così, convinti di aver compiuto una grande missione in favore dell’umanità: eliminare il degradante ebraismo aveva salvato il mondo dalla decadenza.

    Maggiore, quando prevedete di avere il giudeo sotto il vostro controllo?

    König ora gioca nervosamente con un piccolo fermacarte di bronzo a forma di pipistrello, mentre si porta la sigaretta alle labbra.

    Presto. Ne sono sicuro. L’indice del Maggiore è puntato verso l’ufficiale, ora. "Il 9 novembre è lontano, ci riuscirò molto prima. Chiudete le frontiere dei vecchi stati. Ripristinate i controlli ai confini. Voi sapete che io sono sempre stato contrario all’Unione nazionalista europea, dopo la guerra. Ci siamo fatti pilotare dai plutocrati, che volevano la moneta unica. Ora l’ultimo ebreo rischia di sfuggirci proprio per colpa delle frontiere aperte. Sarebbe

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