Chitarra da cross
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Anteprima del libro
Chitarra da cross - Giuseppe De Vena
Il FOLK STADIO
Poldo ereditò la vocazione del cantautore da un suo nonno, che si chiamava - guarda caso - anche lui Poldo. Poldo il vecchio amava passare intere serate a raccontare al suo amato Poldino di accordi ormai in disuso come le mitiche settime diminuite. Gli narrava anche le sue storie di fiaschi e di fischi. Un racconto in particolare piaceva a Poldino, quello del leggendario Folk Stadio
e del suo creatore, l’enigmatico Cacinoni, chiamato anche: «A mezzanotte chiudo, sennò me becco la multa».
La vicenda si dipanò (il termine ‘dipanare’ piace allo scrittore di questo racconto, non vedeva l’ora di infilarcelo e adesso è felice) in un periodo buio per la musica impegnata. Nelle vie di Roma si respirava un’aria strana, mista a un vento di rivolta, che oltre a infiammare gli animi, infiammava anche le facce per gli schiaffi. Nel quartiere Parioli circolavano di notte ragazzi armati di chitarre, cantando a gola-squarciata canzoni di Jimmy Fontana. Spesso si scontravano con i ragazzi del quartiere Trastevere, che cantavano canzoni di Claudio Villa. Le risse a colpi di chitarre erano all’ordine del giorno. A Roma si stava facendo conoscere, a suon di ‘ballate’, un giovane talent scout molto ambizioso di nome Cacinoni. Egli vantava tra le sue scoperte musicali: un cantautore molto noto, Peppe Divano, creatore di musica ‘comoda’ e anche gruppi famosissimi come I galletti di Gallura
e I tarantolati di Castrovillari
, ma il suo fiore all’occhiello erano Le piattole di Bassano del Grappa
, che avevano venduto milioni di dischi.
Un pomeriggio Cacinoni fu convocato dal sindaco, il quale, preoccupato per tutti questi disordini, voleva il parere di un esperto su come sistemare le cose. Il Cacinoni, per ristabilire l’ordine pose come condizione che gli fosse concessa carta bianca e, dovendo fare pulizia, anche carta igienica. Il sindaco accettò. Non l’avesse mai fatto! In quattro e quattr’otto Cacinoni ordinò di costruire, nei pressi del Lungotevere, uno stadio da 80.000 posti, terminato a tempo di record, che chiamò ‘Folk Stadio’. Quando lo videro ultimato, tutti i romani esclamarono all’unisono: «Ma chi ca…spita te ce viè lì dentro?». Il Cacinoni con un sorriso beffardo pensò: «Verrete, verrete».
Tramite una capillare opera di propaganda, furono recapitati migliaia di ingressi-omaggio e incollati in ogni angolo della capitale - persino su tutti i possessori di una capoccia pelata - un manifesto in cui era scritto Domenica al Folk Stadio, folk happening con giovani cantautori e numerosi ospiti. Tutti gli assenti dovranno portare una giustificazione, altrimenti saranno cazzi loro!
. Firmato: Cacinoni.
In quella domenica inaugurale, il Folk Stadio era gremito in ogni ordine di posti. Cacinoni era euforico. Il servizio d’ordine formato da studenti della facoltà di chimica, rigorosamente fuori corso, controllava i biglietti. A Cacinoni, appassionato di chimica fin da bambino i chimici erano simpatici; alcuni di loro, dietro il bancone del bar preparavano cocktail a base di fulminato di mercurio e cicoria; Cacinoni si fece riempire il bicchiere e lo trangugiò d’un fiato. Rimase ‘impietrito’ alcuni istanti, poi sollevandosi in volo esclamò: «E’ perfetto!».
Al centro del manto erboso, sopra un palco, troneggiava un seggiolone da neonati; nella fretta dei preparativi avevano dimenticato di trovare una sedia per i cantautori, e da qui il ricorso al seggiolone del nipotino di Cacinoni. Su quel seggiolone avrebbero posato le loro chiappe gli artisti. L’inizio dello spettacolo fu annunciato dalle campane di San Pietro.
Nella scaletta di quella domenica, era previsto il concerto di due giovani cantautori romani nuove scoperte di Cacinoni: Er Ciofeca e Tony Palla, che da quando aveva iniziato a scrivere le prime canzoni, era stato ribattezzato T’appalla. Quest’ultimo sbucò dal sottopassaggio dello stadio, accolto da una fragorosa pernacchia, indossando il suo tipico abbigliamento di scena: maglione di pura lagna (un tessuto molto pregiato), pantaloni alla zuava marca Tino Valen, scarponi da montagna in pelle di leopardo e imbracciando una chitarra costruita appositamente per lui. La cosa che più si notava, però, erano i suoi capelli, tagliati amorevolmente dal padre con la sega a scoppio. T’appalla, al centro del palco, prima di cantare, volle benedire uno per uno tutti i presenti e poi intonò un peana in onore di Cacinoni. Quindi iniziò a cantare. Le prime venticinque canzoni, della durata di circa quindici minuti ciascuna, erano dedicate al suo nucleo familiare (T’appalla si definiva il cantautore dei valori del focolare). Cantò ancora un’altra trentina di brani dedicati ai suoi affetti più cari (zii, cugini e nonni), fino alla dodicesima generazione. L’esibizione terminò con scene d’isterica disperazione tra il pubblico. Solo Cacinoni applaudiva entusiasta.
Er Ciofeca, incerto sul vestito da indossare, fermò una ragazza e, facendole la mano morta, le chiese un parere. Quella, senza indugio, lo consigliò per il meglio. Er Ciofeca sbucò dal sottopassaggio vestito da satiro con tanto di corna, barba e occhialoni scuri (erano il suo segno distintivo), così i suoi parenti lo riconobbero immediatamente, e con una chitarra rubata all’Upim. Andò sul palco e, dopo essersi insaccato nel seggiolone, senza tanti preamboli iniziò a cantare. Er Ciofeca si definiva un cantautore del quotidiano, perciò le sue canzoni trattavano episodi di vita reale. Il primo brano, infatti, cantava la vita e le opere di Filiberto Mazzacurati, ragioniere di concetto alla Simmenthal, poi trasferito a un mattatoio nei pressi di Monte San Quallera. Il brano durò due mesi e sei ore, perché il Mazzacurati, durante il periodo di prova, si era beccato gli orecchioni e avevano dovuto metterlo in quarantena. Finita questa canzone, ne iniziò subito un’altra. Era la storia della vita di Salvatore Puddu, per gli amici Tottoi, operaio in un caseificio di Macomer. Non era arrivato ancora al quindicesimo anno di vita del Puddu - il quale aveva vissuto la bellezza di centocinque anni - quando scoppiò il finimondo. Il pubblico, stanco di queste canzoni che Cacinoni definiva ‘roba da pubblico colto’, iniziò prima a fischiare e a invocare il nome di Claudio Villa, poi vista la perseveranza di Er Ciofeca nel continuare, fece l’invasione di campo e cominciò a sfasciare ogni cosa. Il servizio d’ordine degli studenti fuoricorso, che tentarono di fermare la protesta di tutta quella massa di gente, fu preso a calci in culo sino a casa loro.
Cacinoni nel trambusto inciampò nelle corna del satiro Er Ciofeca, sbatté violentemente il capoccione e rimase svenuto tre giorni. Fu rimesso in sesto grazie alle cure di due giovani infermieri. Appena riaprì gli occhi, li squadrò e le sue prime parole furono: «Siete cantautori?».
Quelli risposero in coro: «No!». Cacinoni, che non amava essere contraddetto, schizzò in piedi e urlò: «Sì! Siete cantautori, anzi, vi dico che voi suonerete al Folk Stadio la prossima volta».
I due, conoscendolo di fama, capirono subito che non era il caso di insistere. Erano disperati e ripetevano piagnucolando: «Perché l’abbiamo curato così bene? E’ la prima volta che capita.