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La Bambina Perduta
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E-book476 pagine7 ore

La Bambina Perduta

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Info su questo ebook

Una famiglia perfetta nasconde torbidi segreti. Un assassino vuole che la verità venga a galla.
Abigail vive una vita perfetta con un marito attraente e ricco che stravede per lei e l'adorabile figlia di pochi mesi, Izzy. Ma qualcuno sa che lei nasconde un segreto inquietante e inizia a mandarle messaggi minacciosi da un numero anonimo. Cos'ha da nascondere Abigail?
In un'altra cittadina, un insegnante scompare in circostanze misteriose e un milionario viene trovato morto nei pressi del lago vicino a cui viveva.
Per l'ispettrice Robyn Carter non c'è un nesso ovvio tra le vicende dei due uomini finché Izzy non verrà rapita in un parcheggio. Il suo istinto le dice che il rapimento di Izzy è in qualche modo legato ai due casi su cui sta indagando, ma l'ultima volta che ha agito d'istinto le conseguenze sono state tragiche. Quindi, per risolvere il caso e riconquistarsi un posto nelle forze dell'ordine, Robyn dovrà per prima cosa imparare di nuovo a credere in se stessa, perché ora si trova alle prese con un assassino spietato e se non lo fermerà in tempo… una bambina morirà.
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2019
ISBN9788855310932
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    Anteprima del libro

    La Bambina Perduta - Carol Wyer

    Capitolo 1

    Robyn Carter sedeva nella sua Polo argentata vecchia di cinque anni, aspettando che il portone si aprisse. Non poteva passare il tempo facendo cruciverba o leggendo, perché doveva essere pronta all’azione. La videocamera giaceva sul sedile del passeggero di fianco all’involucro vuoto di una barretta alla frutta e noci.

    La sua preda, Terence Smith, era all’interno del civico cinquantadue di Rosewood Avenue, e lei doveva incastrarlo al più presto. Terence aveva richiesto un indennizzo all’assicurazione per un presunto infortunio sul lavoro mentre sollevava barili al pub. Qualcosa nella sua richiesta di risarcimento aveva fatto insospettire la compagnia assicurativa, che aveva chiamato la R&J Associate per investigare sulla validità della rivendicazione.

    Era in quell’auto dalle sette, a fissare il portone. Molto del suo lavoro consisteva nel vagabondare fuori dalle case o dai posti di lavoro, e a volte poteva essere talmente noioso da inebetire ma a lei non dispiaceva. Aveva il tempo dalla sua parte e una gran pazienza. Aveva migliorato le sue abilità in polizia.

    Controllò l’orologio, un regalo per il suo sedicesimo compleanno da parte dei suoi genitori, che a quell’epoca erano disperati per la sua totale mancanza di cognizione del tempo. Dal design molto semplice, con un quadrante bianco e delicate lancette d’oro, era precisissimo. Non l’aveva mai lasciata a piedi. Grazie a lui, Robyn aveva saputo l’ora esatta in cui i suoi genitori erano stati falciati via da un camionista ubriaco mentre portavano a spasso il loro golden retriever, Rufus. Aveva saputo quando il dottor Mahmoud le aveva dato la notizia che era incinta e persino a che ora era rientrata nell’hotel a Marrakesh, fremendo per dire del bambino al suo fidanzato Davies che lavorava nell’intelligence militare. Non era ancora tornato da un incontro con un informatore che conosceva l’ubicazione di diverse cellule militanti, e lei aveva aspettato con ansia, immaginandosi la sua espressione quando gli avrebbe dato la notizia. Aveva anche saputo il momento in cui il telefono aveva squillato e una voce bassa le aveva detto che Davies era stato ucciso in un’imboscata appena fuori città. Quell’orologio aveva cristallizzato anche il momento in cui aveva abortito la minuscola vita dentro di lei. Tutto ciò sembrava avvenuto un secolo prima. Era cambiata molto da quei giorni. Sovrappensiero, accarezzò il cinturino in pelle e controllò l’ora. Erano le nove e trenta esatte quando l’uomo uscì dalla sua abitazione.

    Robyn era parcheggiata a una trentina di metri più avanti. Ross, il suo collega, era fermo con il muso dell’auto nella direzione opposta, così da avere l’uomo sotto tiro sia che fosse andato a destra o a sinistra.

    Robyn afferrò la videocamera dal sedile e spinse il pulsante rec. Terence Smith era sulla cinquantina, tarchiato e con una calvizie incipiente. Fischiettava, con un’aria da sbruffone, dirigendosi verso la sua Ford Mondeo. Una volta raggiunta, le chiavi gli scivolarono di mano, finendo sulla strada con un tintinnio. Con un balzo si piegò per raccoglierle, prima di aprire la portiera e saltare dentro l’auto. «Beccato» mormorò mentre lo riprendeva entrare nel veicolo senza segni di mal di schiena o problemi di movimento.

    Robyn pedinava l’uomo da una settimana e lo aveva già filmato andare al supermercato e uscire con due grosse buste della spesa piene, che aveva infilato nel bagagliaio senza alcuno sforzo.

    Ripose la videocamera. Era arrivato il momento di seguire Terence. Immaginò che si stesse dirigendo al Mucky Duck, un sordido pub nel paese vicino in cui lui lavorava come barista part-time. Magari avrebbe potuto persino coglierlo in flagrante mentre cambiava un fusto. Anzi, sicuro. L’auto di Terence le passò accanto e lei avviò il motore della Polo, pronta a seguirlo a distanza di sicurezza.

    A differenza dei pedinamenti per scovare mariti infedeli, raccogliere prove per una richiesta di risarcimento all’assicurazione poteva richiedere settimane di appostamenti, se non mesi, per ore e ore di fila. Robyn accettava la noia inevitabile di questi casi, focalizzandosi solo sul risultato. Era una donna orientata agli obiettivi. Avrebbe incastrato quel tizio a prescindere dal tempo che ci sarebbe voluto per raccogliere tutte le prove. Sorpassò una Toyota Prius che andava a passo di lumaca e si infilò dietro la Ford Mondeo. Non si preoccupò di essere vista. Aveva perfezionato la sua abilità camaleontica. Né lei né la sua auto anonima attiravano attenzione. Il cruscotto si illuminò quando ricevette una chiamata.

    «Ehi, Ross.»

    Una voce irruvidita da anni di fumo borbottò: «Pare tu abbia vinto di nuovo. Torno in ufficio e lascio a te gestire questa faccenda.»

    «Okay, nessun problema. Ci sentiamo dopo.»

    «No, dopo no. Stanotte devo pedinare Robert Brannigan. Sua moglie ha chiamato in ufficio dicendo che stasera lui uscirà con degli amici, ma lei pensa che incontrerà la sua nuova amante. Ha accennato a indizi inconfutabili come i nuovi jeans e il nuovo dopobarba. È già successo in passato. È molto sospettosa.»

    «Buona fortuna. Non è il mio lavoro preferito, quello.» Odiava dover dire ai clienti che avevano ragione e inviare per mail le foto dei loro partner in situazioni compromettenti, sapendo che questo li avrebbe lacerati di dolore.

    «Il lavoro è lavoro. Ci si indurisce dopo un po’, anche se a guardare Robert Brannigan, sarei davvero sorpreso se avesse una relazione clandestina. Deve essere uno degli uomini più brutti del pianeta, chi vorrebbe scoparselo?»

    «Le donne sono attratte dal potere. Forse è questo il motivo. Pensa a tutte quelle star e a quei politici brutti che hanno fidanzate splendide. Robert è un consigliere locale. Scommetto che c’è qualcuna che si accende di desiderio all’idea di lui che prende decisioni importanti riguardo ai dissuasori di velocità o allo smaltimento dei rifiuti e non vede l’ora di gettarsi tra le sue braccia.»

    Ross colse la sua ironia e sbuffò, d’accordo con lei. «Sarà per quello. O magari qualche vecchietta vuole farsi dare il tesserino per poter parcheggiare più vicino ai negozi.» Rise al pensiero. «Okay, ci sentiamo domani. Ti auguro di farti un barile di risate al pub.»

    Ross agganciò, lasciando Robyn a scuotere il capo per la pessima battuta. Ross non era uno da lunghe conversazioni. Era suo cugino e aveva una decina di anni più di lei, era quasi sui cinquanta. Aveva un viso amichevole, a volte, con folte sopracciglia che danzavano sopra occhi verdi divertiti, ma di solito il suo era un volto ordinario. I capelli scuri con qualche spruzzata di grigio avevano vita propria e, per quanto li pettinasse, gli andavano da tutte le parti, dandogli un’aria incolta e indefinita. L’aspetto era però ingannevole, in quanto nascondeva un cervello fino e un occhio attento.

    Robyn provava un enorme rispetto per lui. Le era stato accanto quando era tornata nel Regno Unito dal Marocco ed era l’ombra di se stessa. Il suo uomo e suo figlio le erano stati portati via così in fretta che la sua mente e il suo spirito erano andati in pezzi. Aveva bisogno di tempo per guarire. Aveva preso un periodo di aspettativa dalle forze di polizia, un lavoro che fino a quel momento aveva amato molto. Ross e sua moglie Janette si erano presi cura di lei spingendola a tornare a vivere e, nel concreto, Ross le aveva proposto di unirsi per un po’ alla sua agenzia di investigazioni private, finché non fosse stata in grado di affrontare un futuro nelle forze dell’ordine. Era l’ancora di salvezza di cui aveva bisogno, perciò aveva iniziato a lavorare con lui. Il lavoro era vario ma non troppo duro, gli orari erano terribili e le impedivano di avere una vita sociale di qualunque tipo e per la maggior parte del tempo non doveva parlare con nessuno. In pratica, era il lavoro perfetto per lei.

    Guardò dallo specchietto retrovisore: la Prius era scomparsa dalla vista e di sicuro aveva creato una fila di macchine dietro di sé. Si stavano avvicinando al Mucky Duck, perciò rimase indietro e aspettò che Terence Smith mettesse la freccia per entrare nel parcheggio. Robyn lo superò e parcheggiò più avanti lungo la strada. Controllò il telefono, assicurandosi che fosse pronto per registrare, attese dieci minuti poi afferrò il suo taccuino, una penna e si diresse verso il pub.

    Dietro al bancone, Terence stava chiacchierando con una ragazza sulla ventina, che indossava un trucco pesante e un vestito che la madre di Robyn avrebbe definito una cintura per gonna. Per un attimo il pensiero andò ai suoi genitori e alla risata effervescente di sua madre. Entrambi si erano goduti la vita e la loro casa era sempre stata colma di risate. Robyn aveva avuto un’infanzia molto felice, ma non poteva soffermarsi sul passato in quel momento. Scosse il capo per schiarirsi le idee e si avvicinò discreta al bancone, da dove Terence le lanciò una rapida occhiata.

    «Cosa ti porto, tesoro?» domandò.

    «Succo d’arancia» rispose lei. Lui annuì e si voltò. L’aveva appena notata. Era troppo preso dalla conversazione su un cliente che ci aveva provato con la sua giovane collega.

    «Porco bastardo! E scommetto che era pure sposato con annessi e connessi» commentò Terence versando il succo d’arancia.

    Lo appoggiò sul sottobicchiere di fronte a Robyn. «Due sterline e cinquanta, cara. Grazie» disse, prendendo le monete che lei aveva spinto verso di lui e spostando l’attenzione su altri due nuovi clienti che lo stavano salutando a voce alta.

    «Ehi Smithy? Ci sei ancora per la partita di sabato?»

    «Certo che sì» rispose Terence. «Sono sicuro che sarà il solito massacro. Quei ragazzi di Sandtown sono dei bastardi fuori di testa. Scommetto che proveranno a farci un culo così. Ed è più probabile che vogliano prendere a calci noi invece del pallone. Comunque mi sto allenando.» Fece un sorrisetto compiaciuto mostrando i bicipiti tirati. «Ho sollevato trenta chili, oggi. Sarò pronto a gonfiarlo di botte, quel coglione del mediano. Giuro che gli spacco il naso se prova a fare qualcosa ‘sta settimana. L’ultima volta è entrato sulle gambe di Gazza di proposito ed è ora di pareggiare i conti.»

    Nessuno degnò Robyn di uno sguardo. Il suo telefono era sul bancone e lei scribacchiava qualcosa sul taccuino riguardo a una presentazione e al pensare senza limiti. Se qualcuno avesse sbirciato avrebbe pensato che si stesse preparando per una riunione. Nonostante fosse alta quasi un metro e ottanta, i suoi stivali senza tacchi indossati sotto jeans scuri abbinati a una felpa grigia con cappuccio, non avevano nulla che attirasse attenzione. I capelli color castano topo le ricadevano in avanti nascondendo il viso privo di trucco, e i grossi occhiali dalla montatura scura celavano i penetranti occhi blu. Quando voleva, Robyn sapeva rendersi invisibile. Era un’abilità che aveva perfezionato negli anni e le era sempre riuscita bene. Anche dopo averla incontrata, nessuno era in grado di descrivere il suo aspetto. Era nelle media, e per quel che la riguardava, questa era la copertura migliore per un investigatore privato o, a volte, per un ispettore di polizia dello Staffordshire.

    Gli uomini continuarono a scambiarsi insulti e parlare di calcio, mentre Terence Smith se ne andò sul retro. Tra la conversazione precedente e le foto Robyn aveva abbastanza prove per incastrarlo, perciò decise di lasciarlo stare per il momento. Il caso che aveva costruito contro di lui era già altamente incriminante. La partita di sabato avrebbe fornito l’ultima prova definitiva e, una volta in possesso delle foto di lui in campo, avrebbe consegnato tutto alla compagnia assicurativa che avrebbe preso i provvedimenti necessari. Ingollò il succo d’arancia e lasciò il bar senza che nessuno la notasse.

    Una volta nella Polo, controllò le registrazioni. La voce di Smith era chiara e sarebbe stata una prova perfetta. Si guardò nello specchietto retrovisore e sorrise senza allegria alla sua immagine riflessa. La donna anonima dal largo naso aquilino e il viso pallido, che la fissava, poteva avere dai trenta ai cinquant’anni. In pochi secondi si liberò degli occhiali, tolse la parrucca e legò i lunghi capelli castani in una coda di cavallo. Lo stomaco si lamentò apertamente, ricordandole che non aveva mangiato nulla tutto il giorno. Robyn ascoltava raramente i brontolii del suo stomaco. Non era interessata a mangiare o a bere. Quello di cui aveva bisogno era una seria ondata di endorfine.

    * * *

    La palestra era vuota, a parte i soliti fissati sempre presenti anche a quell’ora. Robyn si domandava se lasciassero mai la palestra. A qualsiasi ora arrivasse, che fossero le sei del mattino o le nove di sera, le stesse tre persone erano lì a sollevare pesi o correre sui tapis roulant a testa bassa, con la musica che pompava nelle orecchie. Lei aveva sì bisogno di scaricarsi, ma almeno riusciva ad allontanarsi da quel posto e mantenere un lavoro. Quei ragazzi si sarebbero messi a piangere se qualcuno avesse detto loro che non potevano allenarsi.

    Lasciò cadere l’asciugamano sul bordo frontale del tapis roulant e fece un po’ di stretching per sciogliere il corpo. Era rimasta incastrata in quella Polo troppo a lungo e il suo collo scricchiolò quando lo stirò piano da una parte e dall’altra.

    Salì sull’attrezzo e impostò un’andatura normale. A Robyn non piaceva iniziare subito veloce. Come tutto nella sua vita, anche l’allenamento era misurato, lento e costante. Avrebbe aumentato l’intensità quando il suo corpo sarebbe stato pronto. Scivolò in un ritmo cadenzato, ignorando il suo riflesso nello specchio e la coda di cavallo che andava su e giù. Anche se era giusto guardarsi per aggiustare la postura quando si sollevavano pesi, non le piaceva farlo mentre correva. Perciò, si mise pigramente a osservare le altre persone. In un angolo, una donna sui quaranta stava facendo dei crunch stesa su una grossa gym ball. Tricia era divorziata e intenzionata ad attirare su di sé quanta più attenzione maschile possibile. Aveva speso tutta la liquidazione avuta con il divorzio in liposuzione e protesi al seno e ora andava in palestra tutti i giorni da sei mesi. Adorava indossare i top più succinti e gli shorts in Lycra più inguainanti. Fece un cenno del capo a Robyn. La donna parlava solo con i membri maschili della palestra.

    Robyn aumentò la velocità del tapis roulant. A differenza degli altri, lei non ascoltava la musica quando si allenava. Voleva che i suoi sensi fossero sempre all’erta.

    Tricia fini i suoi crunch e ammirò la sua immagine riflessa prima di dirigersi verso l’uscita, dove si fermò a chiacchierare con un istruttore, Dean. Insegnava kick-boxing e aveva anche alcune classi di aerobica intensiva. Robyn preferiva le lezioni di spinning, dove si allenava su una bici statica per sviluppare la capacità di resistenza. Era un’attività che non incoraggiava chiacchiere e convivialità – almeno non per come l’affrontava Robyn, che portava a poco a poco la resistenza al massimo pedalando a tutta velocità, motivata dal suono pompante della musica e dalle grida d’incoraggiamento dell’istruttore.

    Quando si allenava per le gare di triathlon, combinava lo spinning e il sollevamento pesi con lo jogging e le pedalate di chilometri sulla sua bici da corsa – un modello italiano con il telaio in carbonio. In quel momento non si stava sottoponendo a un allenamento così intensivo, e si concedeva un po’ di indolenza.

    Robyn apprezzava il suo corpo: l’aveva aiutata a superare cose orrende e in cambio lei se ne prendeva cura. Aveva il fisico di una atleta ben allenata, muscolosa, tonica e pronta a ogni evenienza.

    Una vocina le domandò piano se era questo ciò che era diventata, niente più che un robot che si allenava, faceva rifornimento e lavorava più ore possibili. La zittì e corse più veloce sul tapis roulant, chiedendosi se avesse prove a sufficienza per incastrare Terence Smith per frode. In quel caso avrebbe avuto bisogno di un altro lavoro di cui occuparsi per distrarsi dalle voci che sentiva e dal dolore che minacciava di sopraffarla. Correndo, si concentrò sul ronzio confortevole dell’attrezzo che stava usando. Le endorfine iniziavano ad accumularsi nel suo corpo, provocandole una sensazione di benessere che dava dipendenza. Il momento d’ansia passò. Avrebbe tenuto a bada le voci e il panico. Se si fossero scatenati, non avrebbe saputo a che santo votarsi.

    Capitolo 2

    Abigail Thorne pulì la faccia della figlia con un panno umido e ammirò compiaciuta la sua opera. Izzy le fece un sorriso sdentato, rivelando i due incisivi inferiori che le davano fastidio da qualche settimana. La purea di mela che le imbrattava le fossette sulle guance era sparita.

    «Così va meglio, piccola scimmietta» scherzò, facendole il solletico sui piedini. «Adesso però, signorina, basta con colazione e spuntini almeno finché tutti non avranno visto quanto sei carina col tuo nuovo vestitino.»

    Sentì due braccia stringerle la vita e il respiro caldo di suo marito Jackson che le premeva le labbra sulla nuca. Un brivido di piacere le attraversò il corpo per un millesimo di secondo. Provò a farlo durare ma sparì in un lampo, così com’era venuto.

    «Come sta il nostro angioletto, oggi?»

    «Sta benissimo. Pare che il secondo dentino non le dia più fastidio e ha mangiato tutta la colazione.»

    Abigail si scostò con riluttanza, per posare il bavaglino sul lavandino. Izzy emise un gridolino di eccitazione nel vedere suo padre e sollevò le braccia in aria.

    «Ciao, Pulcetta» le disse lui facendola gorgogliare di gioia. «Vuoi essere un aeroplano?» Lei rise di nuovo e provò a liberarsi dal seggiolone.

    «Ehi, aspetta papà» disse lui slacciandole le cinture e prendendola in braccio. Gli occhi di Izzy si spalancarono per la felicità quando lui la sollevò sopra la testa e la fece ruotare, mimando il suono di un motore.

    Abigail lo ammonì. «Non farla girare troppo. Ha appena finito di mangiare.»

    «Non starà male. Ha preso dal suo vecchio, è forte come un toro» le rispose lui, facendo svolazzare Izzy su e giù, mentre la piccola rideva a crepapelle. Abigail sorrise osservando le loro pagliacciate e per un attimo si dimenticò il perché si sentisse così a terra. Jackson, finalmente si fermò e tenne la bambina di fronte a sé, a distanza di braccia. «Basta così, Pulcetta. Non voglio una sorpresina di purè di mela in faccia.» Sistemò la bambina dentro al box nell’angolo della cucina, dove si rotolò estasiata afferrando un cagnolino di pezza e infilandoselo in bocca, il tutto guardando felice i suoi genitori con gli occhioni blu.

    «E come sta il mio angioletto grande, invece?» domandò Jackson avvicinandosi alla macchina del caffè e mettendoci una tazza sotto.

    «Bene» rispose lei.

    «Sicura? Sei un po’ silenziosa ultimamente» le disse cercando di tenere il tono leggero. «Lo so che vengo sempre a casa tardi, e suppongo che questo non aiuti.»

    «Non è per questo» rispose lei. I suoi problemi non riguardavano Jackson. «Sono solo un po’ giù. Izzy si lamenta di notte per i denti e non dormo a sufficienza. Poi quando è sveglia è incontenibile. Sembra che non senta mai bisogno di un pisolino, a differenza di sua madre. Sono solo senza energie, tutto qui.»

    Aveva colto il sottinteso nelle preoccupazioni del marito. La notte prima, Jackson si era infilato a letto pronto per un po’ d’azione e lei aveva finto di dormire. Lui aveva provato con le solite tattiche, ma lei aveva continuato a simulare finché lui non aveva desistito e, con un sospiro, si era girato dall’altra parte, nel punto più lontano del letto. Lei era rimasta immobile come un sasso in attesa di sentire il respiro del marito farsi pesante. Solo allora era rotolata sulla schiena a fissare il buio, domandandosi per la millesima volta cosa potesse fare riguardo alla sua libido altalenante.

    Jackson avrebbe dovuto essere al lavoro, quella mattina. Le sembrava strano averlo in casa. Avevano impostato una routine e la destabilizzava quando veniva stravolta. Di norma lui andava via presto e, quando partiva più tardi, Abigail si alzava per accudire Izzy mentre lui rimaneva a letto a recuperare sonno prezioso, prima di farsi la doccia e andare in aeroporto a organizzare i suoi piani di volo e controllare le condizioni metereologiche.

    Izzy era il centro delle sue attenzioni in quel periodo. Ogni giorno era pianificato con cura in base ai suoi bisogni e alle sue richieste. Se uscivano, significava pianificarlo con largo anticipo per avere tempo di organizzarsi, così che Abigail si portasse dietro pannolini e salviette a sufficienza, vestiti puliti, bottiglie, biberon e le solite cianfrusaglie che i genitori acquisiscono insieme ai figli. Se stavano in casa, il tempo passava alla velocità della luce tra faccende, spesa e accudire Izzy. Abigail adorava essere madre. Si era goduta la gravidanza e si era documentata molto su ogni stadio di sviluppo raggiunto dalla sua creatura. Durante la gestazione era fiorita, godendosi la rigogliosità del corpo e la pienezza dei seni, e si era sentita colma di attesa e amore per la bambina che doveva ancora incontrare.

    La maternità era arrivata in modo naturale e non voleva stare lontana da sua figlia neanche un minuto. Le avrebbe dato ogni più piccola attenzione. Questo era parte del problema. Mentre da una parte Abigail si concentrava sull’essere una madre eccezionale, dall’altra stava smettendo di essere moglie.

    Poi, c’era il lavoro di Jackson. Suo marito lavorava, con orari assurdi, come pilota privato per una linea executive, la BizzyAir Business Aviation, ditta che aveva fondato lui stesso con solo un piccolo aereo due anni prima di incontrare Abigail. Adesso ne aveva due di apparecchi: un jet Gulfstream 550, che portava fino a sedici passeggeri e volava per dodici ore senza sosta rifornimento, comodo per i voli transoceanici, e un Jet Citation III che portava fino a sette passeggeri, volava per cinque ore di fila ed era più usato per i voli europei. Jackson aveva uno staff di piloti ma comunque volava regolarmente, e accadeva spesso che venisse chiamato nelle ore più strane per andare ad Amsterdam, o in Spagna, così che il cliente potesse partecipare alla riunione e tornare a casa in tempo per la cena con i suoi cari o per raggiungerli a colazione. Gli orari imprevedibili erano sinonimo di poco tempo per la famiglia, ma ad Abigail non dava fastidio, era felice di godersi il tempo che lui era via con la sua bambina dalle guance rosa.

    «Quindi, che facciamo oggi?» chiese, prendendo la tazza da sotto la macchina del caffè. «Ti va di portare Izzy a vedere gli animali allo zoo?»

    «Mi vedo con le ragazze per un caffè questa mattina. Non le vedo da una vita per via dei problemi ai denti di Izzy e ai loro orari di lavoro.» Abigail si sentì in colpa per la risposta che gli diede. «Non mi aspettavo che prendessi un giorno libero» aggiunse, notando il velo di disappunto sul viso del marito mentre si portava la tazza alle labbra.

    «Potresti cancellare» le propose. «Di’ loro che sono a casa.»

    Le lanciò un sorrisetto – lo stesso sorrisetto sexy che l’aveva sempre fatta fremere di desiderio. Quella mattina, però, non sortì lo stesso effetto su di lei. Abigail scosse il capo.

    «Mi dispiace, ma è troppo tardi per cancellare. Zoe si è presa il giorno libero apposta. Da quando lavora a Londra non ci riesce mai» rispose, sapendo che era una scusa del cavolo.

    Jackson aprì la bocca per dire qualcosa ma Izzy scelse proprio quel momento per ruttare e rigurgitare parte della sua colazione. Abigail sospirò e si diresse verso il box per prendere sua figlia, il cui mento era ora ricoperto da una pappa giallognola. Jackson sollevò le sopracciglia in segno di scusa. «Forse non ha la costituzione di suo padre» disse. «Mi dispiace, tesoro.» Allungò la mano mentre Abigail passava, le prese il braccio e la guardò negli occhi.

    Lei sussultò un attimo. «Non importa.»

    «Davvero?» il significato della sua domanda era chiaro.

    «Certo che sì. Adesso bisogna che ripulisca questa signorina.»

    Sollevò la bambina dal box, insieme al cagnolino di pezza serrato tra le sue piccole dita. Izzy la guardò con aria innocente e uno sguardo meravigliato, poi gorgogliò. Un suono caldo e vivace che fece sorridere Abigail.

    «La pulisco io» disse Jackson. «È stata colpa mia.»

    Abigail scosse il capo. «Non occorre. Ci penso io a lei.» Lo lasciò in piedi appoggiato al top della cucina. Aveva l’aria abbandonata e lei esitò. Voleva dire qualcosa di appropriato per sistemare le cose, ma non ci riuscì. Gli aveva tenuto nascosti troppi segreti e non poteva rivelargli il vero motivo per cui negli ultimi tempi era così distratta e ansiosa. Il biglietto che qualcuno le aveva lasciato nella cassetta delle lettere la settimana prima l’aveva gettata nel panico più totale. Qualcuno sapeva del suo passato e questo la rendeva nervosa. Aveva usato la scusa dei denti di Izzy per giustificare il suo comportamento, ma la vera ragione non poteva condividerla con nessuno, nemmeno con Jackson. E in aggiunta a questo, quel messaggio denigratorio nel telefono, che teneva ben infilato nella tasca posteriore dei suoi jeans, minacciava di far cambiare tutto.

    Mentre puliva la piccola che si dimenava, pensò alla sua vita con Jackson. Non le aveva mai dato motivo di dubitare di lui. Il loro matrimonio rasentava la perfezione. Lei aveva tutto quello che avesse mai potuto sperare, un marito attraente e dolce che stravedeva per lei e la piccola Izzy. Non poteva essere finto lo sguardo che Jackson aveva quando guardava la loro bambina raggomitolata con la manina in bocca, o il modo in cui di notte, a letto, teneva Abigail stretta al suo petto con un braccio protettivo intorno alla spalla mentre lei ascoltava il battito regolare e forte del suo cuore. Il messaggio sul telefono doveva essere uno stupido scherzo oppure era stato mandato alla persona sbagliata. Doveva darsi una controllata.

    Detto ciò, da quando era nata Izzy alcune cose erano cambiate. Prima di tutto, le interminabili notti in bianco, in cui Izzy aveva pianto disperatamente per ore. Non c’era nulla che lei o Jackson potessero fare per tranquillizzarla. Abigail si era fatta carico di stare alzata con Izzy, confortandola, cullandola, cantandole canzoni e camminando su e giù per la stanza fino a conoscerne a memoria ogni angolo. Più si esauriva per la mancanza di sonno e più perdeva fiducia in se stessa. Nonostante Jackson non le desse motivo per dubitare che fosse ancora attraente, pian piano si era convinta del contrario. Era fin troppo conscia del suo ventre flaccido e dei seni cadenti, che non avevano mai avuto latte a sufficienza per Izzy e ora erano vuoti e inutili. Dentro si sentiva lacerata, e lo strappo che aveva sentito quando la testa di Izzy era sbucata sembrava procurale ancora dolore, anche se i punti ormai si erano dissolti da tempo.

    Doveva ricordarsi della donna che era prima che Izzy diventasse il centro delle sue attenzioni. Doveva farsi valere. Jackson si era innamorato di una donna piena di vita ed energia, che amava stare in mezzo alla gente e ridere.

    Lui rideva di meno ultimamente. Quand’è che aveva smesso di farlo ridere? Si fissò gli occhi cerchiati di nero e notò che si vedeva la ricrescita dei capelli sotto la tinta. Avevano bisogno di una sistemata. Avrebbe dovuto prendere un appuntamento dalla parrucchiera molto tempo prima. Per qualche motivo, non le era parsa una cosa importante, e poi c’era sempre Izzy con cui giocare o a cui pensare. Non c’era più tempo per Abigail. Era diventata una sciattona in tuta da ginnastica. Doveva fare attenzione altrimenti Jackson si sarebbe stancato di questa donna grigia al suo fianco e si sarebbe guardato intorno. Izzy sollevò lo sguardo luminoso e attento, pieno di meraviglia. Il cuore di Abigail sussultò come quando aveva posato gli occhi per la prima volta su Jackson e un calore improvviso le aveva attraversato il corpo. L’amore era un’emozione feroce e protettiva. In quel momento, prese una decisione. Il messaggio che aveva ricevuto era stato lo scossone di cui aveva bisogno.

    Si diresse in camera da letto e posò Izzy bella pulita sul tappeto. La piccola la guardava col piccolo pugno in bocca. Abigail iniziò a rovistare nel guardaroba, si infilò un paio di pantaloni stretti neri e li abbinò a una seducente maglietta di Armani che le metteva in risalto le curve. A Jackson era sempre piaciuta. Applicò un velo di mascara, passò una pennellata di terra abbronzante sulle guance e mise un rossetto rosso scuro che si armonizzava con i riflessi ramati dei suoi capelli. Izzy gorgogliò di approvazione.

    Tirò fuori il telefono e lesse il messaggio per l’ultima volta:

    Non sei l’unica ad avere segreti. Chiedi a Jackson quali sono i suoi.

    Di sicuro era uno scherzo. Il messaggio veniva da un numero che non conosceva. Le sue dita rimasero sospese sulla tastiera. Avrebbe dovuto rispondere, ma non voleva intavolare una conversazione con uno sconosciuto. Era pieno di truffatori in giro. Alla fine rispose:

    Vai a infastidire qualcun altro.

    Poi eliminò il messaggio oltraggioso una volta per tutte e sollevò Izzy, che iniziò a saltellare su e giù per la gioia di tornare di sotto da suo padre.

    «Avanti, piccola teppistella. Andiamo a far vedere a papà quanto siamo carine.»

    Capitolo 3

    Paul Matthews si allacciò le sue Skechers da corsa. Un affarone a meno di venticinque sterline, anche se erano considerate le migliori in un articolo che affermava che le costose scarpe da corsa delle marche più famose erano peggio di quelle dei brand più economici. Concluse che erano molto comode e non gli sfregavano i piedi, che erano callosi e rovinati per l’incuria. Lo stesso articolo continuava dicendo che un acquirente anonimo era in possesso delle scarpe da corsa chiodate che Roger Bannister aveva indossato per battere il record della corsa del miglio in meno di quattro minuti. Erano state acquistate a un’asta da Christie, a Londra, a un prezzo sette volte superiore al loro valore stimato. Fece un sorriso ironico e guardò le sue scarpe blu: sarebbe stato fortunato se ci avesse fatto qualche centesimo vendendole in un negozio dell’usato.

    Sentì una fitta alla schiena quando si raddrizzò nel suo metro e novanta, cosa questa che gli ricordò che forse avrebbe fatto meglio a sedersi per compiere questo genere di azioni. Non era più un ragazzo e nonostante a sessant’anni avesse ancora il fisico di un quarantenne, ultimamente iniziava a sentire l’età. Questo era dovuto, in parte, al figlio Lucas ma ancora di più al senso di colpa che gli pesava addosso ogni giorno come un macigno. Mentalmente imprecò contro Lucas, che gli aveva riversato addosso i suoi problemi aprendo un varco nel passato – un passato che Paul aveva voluto eliminare dalla memoria.

    Prese la chiave di casa da una scatola di legno appesa al muro, che poteva facilmente essere scambiata per un’opera d’arte. Paul era cauto. Aveva visto molti documentari sulla sicurezza in casa e conosceva i trucchetti dei ladri per trovare le chiavi lasciate sbadatamente sui mobiletti degli ingressi o nelle toppe delle porte. E ora, c’era anche una minaccia nuova. Chiuse a chiave la porta sul retro e controllò la maniglia. Doveva essere ancora più attento adesso. Fece scivolare la chiave nella tasca del K-Way, chiudendo la zip e tastando il metallo rassicurante, prima d’iniziare a correre lungo il viale del giardino fino a un vasto campo di granoturco seguendo il sentiero battuto che lo costeggiava, proprio come faceva tutti i pomeriggi.

    Il sole pallido, che sbucava da un cielo leggermente velato, faticava a riscaldare il terreno. C’era stato un temporale e l’aria odorava di umido. Continuò a correre, perso nei pensieri, indifferente alle foglie bagnate che gli si appiccicavano alle gambe mentre sfiorava le piante alte, e si diresse giù per la collina verso il lago artificiale che brillava come un enorme diamante grigio in lontananza. Paul preferiva correre nel tardo pomeriggio. C’erano meno probabilità di incontrare persone con i cani, escursionisti e osservatori di specie rare di uccelli, molti dei quali per quell’ora erano già tornati a casa o si stavano godendo la loro meritata birra in uno degli accoglienti pub di Abbots Bromely.

    Correva piano; i talloni rimbalzavano sui sentieri cosparsi di aghi di pino che si snodavano tra grossi alberi, le cui chiome frondose si allungavano così in alto che pochissima luce riusciva a filtrare. Serpeggiò tra le querce secolari, guidato dalla memoria, abbassandosi sotto i tralci resi nodosi dal tempo e saltando sopra i rami che giacevano sulla strada secchi e ritorti come ossa scure. L’odore terroso della vegetazione che marciva si sparse nell’aria intorno a lui come un’onda e la brezza ghiacciò il sudore che gli colava sul collo.

    Durante la corsa passò accanto a rocce dorate e piante coda di volpe arancioni – bel nome per quelle piante, tipiche delle rive fangose e stagionalmente allagate dei corpi d’acqua, che avevano scelto il lago artificiale nel bosco come loro habitat. Fiancheggiando olmi, querce, betulle e platani dai tronchi grigio chiaro e bianco, Paul continuò a correre, col respiro che si faceva sempre più pesante e i muscoli che iniziavano a dolergli per lo sforzo di procedere alla stessa andatura veloce. Quei tronchi grigio bianchi erano i suoi preferiti, soprattutto in autunno.

    Per un po’ si dimenticò di Lucas e ripensò a un articolo che aveva letto di recente sulla dea egizia Hathor, la mucca sacra che si sedette sotto un platano al tramonto e creò la terra, i suoi abitanti e il sole.

    Quando passò calpestando le foglie morte, non c’erano dee sotto quei platani, solo un paio di merli che sbraitavano tra loro, infuriati.

    L’autunno era la sua stagione preferita. Il bosco si vestiva di colori brillanti, dal rosso ruggine al rosso cardinale fino al verde pallido, che lui avrebbe voluto catturare su una tela. Poi, i semi dei platani, le samare e i frutti indeiscenti si sarebbero staccati come spiriti liberi, ruotando come piccoli elicotteri che si lasciano andare nel vuoto fino a scendere a terra. Paul rimpianse di non aver passato più tempo con Lucas e non avergli mostrato queste meraviglie. Forse suo figlio sarebbe diventato una persona diversa se solo lui gli avesse dedicato più tempo. Un cattivo padre. Si poteva imparare tanto dalla natura. I platani avevano la capacità di crescere all’ombra dei propri genitori. Che peccato che Lucas non fosse cresciuto all’ombra di suo padre. Le cose sarebbero andate in modo diverso.

    Con la coda dell’occhio, Paul colse un movimento ma non capì cosa fosse. Spesso i cervi si aggiravano in quel bosco, e proprio un paio di settimane prima lui aveva intravisto il pelo castano ramato e il bianco del sottocoda di un capriolo sparire nel bosco oscuro.

    Strizzò gli occhi quando i raggi di luce penetrarono dai rami accecandolo temporaneamente, poi sentì gli alberi chiudersi su di lui. Il cervello non capiva cosa stava accadendo ma il suo istinto gli fece allungare le braccia in avanti per attutire la caduta. Giaceva senza fiato, con le mani spellate e un dolore lancinante alla caviglia destra. Poi, torcendosi per il male, riuscì a rialzarsi in posizione eretta, aggrappandosi all’albero nodoso contro cui era caduto. Un sottilissimo pezzo di corteccia si staccò e si polverizzò tra le sue dita sanguinanti. Paul si toccò il volto, già gonfio, e seguì la spessa linea di sangue che gli colava sulla guancia.

    La caviglia protestò per il peso del corpo. Non era mai caduto prima. Stava davvero diventando vecchio, pensò tra sé e sé. Avrebbe dovuto intraprendere un nuovo tipo di attività fisica. Poi ci fu un crack. Qualcuno o qualcosa era nascosto tra i cespugli, un escursionista forse, o un bird-watcher. Scrutò in cerca di un segno di vita, ma non vide nulla.

    «Ehi! C’è qualcuno lì? Mi puoi dare una mano? Sono caduto» gridò. «Per favore, aiuto.» Non ci fu risposta. Guardò le scarpe da corsa economiche e si chiese se l’incidente non fosse avvenuto per colpa loro, poi intravide il motivo per cui era caduto. Uno spesso filo di plastica, come quello per stendere i panni, era legato all’albero. Qualcuno lo aveva fatto inciampare di proposito.

    Non ebbe tempo di riflettere oltre. Una figura uscì dai cespugli e si piazzò davanti agli alberi.

    Una mano invisibile gli afferrò il cuore, che pulsava all’impazzata. I sensi gli dicevano di correre, ma il dolore al piede gli avrebbe permesso solo di barcollare.

    La figura si avvicinò. Le ombre scesero su quel viso sconosciuto creando una

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