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I DELITTI DEL SANTO DI MAGGIO - the show must go on
I DELITTI DEL SANTO DI MAGGIO - the show must go on
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E-book375 pagine5 ore

I DELITTI DEL SANTO DI MAGGIO - the show must go on

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In questo romanzo di Enzo Meli ci sono tutti gli elementi della grande letteratura del genere thriller noir. L’ambientazioni descritte con perizia da maestro secondo la lezione manzoniana; caratterizzazioni dei personaggi che spaziano dal sublime al grottesco, secondo tutta la ricchezza delle diverse tipologie di umanità; la vicenda si svolge in tre diverse epoche storiche, i primi anni ottanta del novecento, i giorni nostri (2013) e a sorpresa nel finale viene rivelato un antefatto chiarificatore capitato nell'ultimo periodo della seconda guerra mondiale a partire dal 1942. Protagonista delle vicende narrate è il commissario di polizia Rocco Marano, che negli anni ottata dopo Non essere riuscito a risolvere i casi dell'omicidio di un prete e di un onorevole, viene trasferito d'ufficio a Como. A distanza di trent'anni dai fatti, ormai pensionato. Ritorna in Sicilia su invito di un ricco possidente terriero, discendente di una nobile famiglia. Nel giro di pochi giorni tra i due si crea un rapporto molto forte, e il principe Tommaso Moncada Adragna comincia a confidargli sempre maggiori dettagli utili a capire il contesto in cui sono maturati i delitti del prete, e dell'onorevole Gallo. Meli sa usare il linguaggio in ogni sua sfumatura; sa costruire il discorso in modo da coinvolgere il lettore in una vicenda che affascina; e sa raccontare la meravigliosa terra di Sicilia con amore, passione e ironia: una terra di indescrivibili bellezze, di colori e sapori preziosi e inconfondibili, struggente nei suoi dolori e incantevole nella sua fiera dignità.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2019
ISBN9788831649292
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    I DELITTI DEL SANTO DI MAGGIO - the show must go on - Enzo Meli

    fra­tel­li.

    Prefazione

    Ho co­no­sciu­to En­zo Me­li nel 1977. Era da po­co ini­zia­ta la mia av­ven­tu­ra pro­fes­sio­na­le ad An­ten­na 3 Lom­bar­dia, la pri­ma emit­ten­te pri­va­ta ita­lia­na, un ve­ro e se­rio cen­tro te­le­vi­si­vo con stu­di che nem­me­no la Rai ave­va.

    L’ab­bia­mo in­ven­ta­ta in quat­tro: Ren­zo Vil­la, En­zo Tor­to­ra, Bep­pe Rec­chia e an­che chi scri­ve.

    Ab­bia­mo idea­to tra­smis­sio­ni che la RAI im­bal­sa­ma­ta di que­gli an­ni non si so­gna­va, tra­smis­sio­ni che por­ta­va­no su­gli scher­mi ven­ta­te di fan­ta­sia e di ve­ra ori­gi­na­li­tà che con­qui­sta­va­no il pub­bli­co: do­ve ar­ri­va­va An­ten­na 3 l’emit­ten­te di Sta­to era sem­pre stac­ca­ta di mol­te lun­ghez­ze. Per que­gli an­ni riu­scii a rea­liz­za­re, con gran­de fer­vo­re de­gli spet­ta­to­ri, spet­ta­co­li per adul­ti, un cam­po che mi era sem­pre sta­to in­ter- det­to al­la RAI. E ci riu­scii an­che gra­zie all’aiu­to di En­zo Me­li che era di­ven­ta­to il mio as­si­sten­te, se­gre­ta­rio, col­la­bo­ra­to­re, sug­ge­ri­to­re e, so­prat­tut­to, ami­co.

    Quan­do, do­po qual­che an­no, la fe­li­ce espe­rien­za di An­ten­na 3 si con­clu­se, per mo­ti­vi che non vo­glio qui ri­cor­da­re, En­zo se ne tor­nò nel­la sua Si­ci­lia do­ve era na­to; lo ri­ve­de­vo ogni vol­ta che la mia vi­ta di at­to­re mi ri­por­ta­va nel­la bel­la iso­la per uno spet­ta­co­lo. Con una ve­na di tri­stez­za ri­cor­da­va­mo i tem­pi fe­li­ci tra­scor­si a Le­gna­no, le tra­smis­sio­ni che ave­va­mo rea­liz­za­to in­sie­me:La Bu­sta­rel­la, Il Po­mo-fio­re, La Mac­chi­na del­la ve­ri­tà, Il Te­le­bi­gi­no... e tan­te al­tre, mol­te del­le qua­li so­no sta­te sco­piaz­za­te da va­rie emit­ten­ti.

    E ci si la­scia­va con un so­spi­ro di no­stal­gia. Il me­se scor­so mi ar­ri­vò una sua te­le­fo­na­ta:

    «Ca­ro Ci­no, ho scrit­to un li­bro, de­si­de­ro che tu lo leg­ga e mi di­ca che co­sa ne pen­si». Ne fui sor­pre­so e, quan­do mi ar­ri­vò I de­lit­ti del San­to di Mag­gio, ero an­che piut­to­sto scet­ti­co. Poi in­co­min­ciai a leg­ge­re.

    Fe­ci la co­no­scen­za di San­ti­na, «schie­na cur­va co­me fos­se gob­ba», di don Pie­tro, di Pa­dre Par­ro­co e di Tu­ri, del com­mis­sa­rio Ma­ra­no con il suo vi­ce Bi­go e di Gi­ro­la­mo det­to il Gre­co, e poi di tut­ti gli al­tri... All’ini­zio, co­me cre­do ac­ca­drà a tut­ti i let­to­ri, non si può non pen­sa­re a un al­tro au­to­re si­ci­lia­no, il cui per­so­nag­gio Mon­tal­ba­no ha con­qui­sta­to mi­lio­ni di te­le­spet­ta­to­ri. Poi pe­rò ci si ac­cor­ge che la scrit­tu­ra di En­zo è as­so­lu­ta­men­te ori­gi­na­le, e a po­co a po­co la sua iro­nia, il suo umo­ri­smo, l’abi­li­tà tut­ta per­so­na­le di rac­con­ta­re ti con­qui­sta­no.

    Ho let­to un rac­con­to pia­ce­vo­le e di­ver­ten­te che mi ha coin­vol­to e ap­pas­sio­na­to fi­no al­la sor­pren­den­te con­clu­sio­ne.

    So­no cer­to che se I de­lit­ti del San­to di Mag­gio ca­drà sot­to gli oc­chi del si­cu­lo An­drea Ca­mil­le­ri, ne sa­rà un po’ in­vi­dio­so. Gra­zie En­zo.

    Ci­no Tor­to­rel­la

    Per­ché una so­cie­tà va­da be­ne, si muo­va nel pro­gres­so, nell’esal­ta­zio­ne dei va­lo­ri del­la fa­mi­glia, del­lo spi­ri­to, del be­ne, dell’ami­ci­zia, per­ché pro­spe­ri sen­za con­tra­sti tra i va­ri con­so­cia­ti, per av­viar­si se­re­na nel cam­mi­no ver­so un do­ma­ni mi­glio­re, ba­sta che ognu­no fac­cia il pro­prio do­ve­re.

    Gio­van­ni Fal­co­ne

    Co­me è gen­ti­le per es­se­re un pa­ren­te: sem­bra un estra­neo!

    To­tò

    Il ma­tri­mo­nio è un’isti­tu­zio­ne mol­to com­pli­ca­ta. La co­sa più im­por­tan­te è che a me mia mo­glie pia­ce. La co­sa dif­fi­ci­le è man­te­ne­re nel tem­po que­sti sen­ti­men­ti per­ché le per­so­ne cam­bia­no e al­lo­ra de­vi adat­tar­ti, non puoi es­se­re ri­gi­do. Na­tu­ral­men­te io non so­no il ma­ri­to per­fet­to e lei non è la mo­glie per­fet­ta. In­sie­me na­vi­ghia­mo da 45 an­ni, gra­zie Io­lan­da. Quan­do le mie fi­glie era­no pic­co­le ab­bia­mo cam­bia­to ca­sa una quin­di­ci­na di vol­te. Mo­ni­ca e Ales­san­dra so­no sem­pre riu­sci­te a tro­var­mi. Noi non­ni cer­chia­mo di in­se­gna­re ai no­stri ni­po­ti tut­to del­la lo­ro vi­ta, lo­ro ci in­se­gna­no che co­sa con­ta dav­ve­ro nel­la vi­ta. Ali­ce, Chia­ra, Tom­my vi ve­do cre­sce­re, sa­pen­do che vi la­sce­rò pri­ma de­gli al­tri, for­se è per que­sto che vi amo più di tut­ti. Ho cer­ca­to la mia ani­ma, ma non riu­sci­vo a ve­der­la. Ho cer­ca­to il mio Dio, ma il mio Dio mi sfug­gi­va. Ho cer­ca­to i miei fra­tel­li e ho tro­va­to tut­ti etre. Bia­gio, Giu­sep­pe e Al­do.

    En­zo Me­li

    Sicilia

    Passo Alto Ibleo

    Mon­te Lau­ro è la più al­ta mon­ta­gna del­la pro­vin­cia di Ra­gu­sa.

    Con i suoi 972,333 me­tri, do­mi­na tut­te la val­li sot­to­stan­ti e nei gior­ni di cie­lo pu­li­to si può ve­de­re tut­ta la val­le dell’Ip­pa­ri fi­no ai con­fi­ni del­la cit­tà di Ge­la. Il suo no­me sem­bra de­ri­va­re dal la­ti­no lau­rus, al­lo­ro, poi­ché in pas­sa­to pa­re che le pen­di­ci del mon­te fos­se­ro in­te­ra­men­te ri­co­per­te di pian­te di al­lo­ro, la pian­ta su­pre­ma dei Gre­ci.

    Dal­la mon­ta­gna han­no ori­gi­ne nu­me­ro­si cor­si d’ac­qua tra cui l’Àna­po e l’Ir­mi­nio. Le pen­di­ci di Mon­te Lau­ro si esten­do­no su tre pro­vin­ce: Ca­ta­nia, Ra­gu­sa e Si­ra­cu­sa, e fa par­te di un com­ples­so vul­ca­ni­co sot­to­ma­ri­no del Mio­ce­ne, non più at­ti­vo.

    Sul ver­san­te sud oc­ci­den­ta­le del Mon­te Lau­ro, all’in­ter­no del suo par­co na­tu­ra­le, all’al­tez­za di 570 me­tri sul li­vel­lo del ma­re, sor­ge un in­can­te­vo­le pae­si­no di nem­me­no 800 abi­tan­ti che si chia­ma Pas­so Al­to Ibleo. Il ter­ri­to­rio cir­co­stan­te è ric­co di te­sti­mo­nian­ze ar­cheo­lo­gi­che che pro­va­no la pre­sen­za dell’uo­mo sin da an­ti­chis­si­ma da­ta (il mi­to vuo­le che il pa­sto­re Daf­ni pa­sco­las­se il suo greg­ge sul mon­te Lau­ro, al suo­no del flau­to). Fon­da­to dai Gre­ci con il no­me "Ma­ka­riache vuol di­re bel­lez­za (co­me l’iso­la di Ro­di), e poi Lau­rus, con i Ro­ma­ni di­ven­ne Gra­dus Lau­rum" (Pas­so Lau­ro) e, in­fi­ne, con gli Ara­go­ne­si di­ven­ne Pas­so Al­to Ibleo.

    Que­sta pic­co­la cit­ta­di­na con­ta mol­te chie­se e mo­na­ste­ri, da­to che in età me­die­va­le fu luo­go di ere­mi­tag­gio e di rac­co­gli­men­to re­li­gio­so. Nu­me­ro­se so­no le te­sti­mo­nian­ze sto­ri­co-ar­ti­sti­che che il pae­si­no cu­sto­di­sce. Con­ser­va la na­tu­ra ti­pi­ca dei pic­co­li pae­si di mon­ta­gna con le sue stra­de la­stri­ca­te a ciot­to­li e le sue piaz­zet­te. Qui i tra­mon­ti so­no bel­lis­si­mi, quan­do il so­le si ca­la ol­tre l’oriz­zon­te del ma­re a per­di­ta d’oc­chio! Da Pas­so Al­to Ibleo si può am­mi­ra­re an­che ‘u Vul­ca­nu o Co­lon­na del Cie­lo co­me lo chia­ma­va Pin­da­ro, l’Et­na.

    Que­sta sco­mu­ni­ca­ta sto­ria ini­zia all’in­ter­no del­la chie­sa più im­por­tan­te di Pas­so Al­to Ibleo: la chie­sa del San­to di Mag­gio.

    Parte prima

    La settimana dei festeggiamenti del Santo di Maggio

    Post Concilio Vaticano II

    Ve­ner­dì, 22 mag­gio 1981

    La chie­sa del 1670 che sor­ge sui ru­de­ri di un an­ti­co for­ti­li­zio sa­ra­ce­no è in­te­ra­men­te co­strui­ta in pie­tra di Co­mi­so; mo­stra una fac­cia­ta sem­pli­ce, pri­va di or­na­men­ti, mo­no­cu­spi­da­ta. All’in­ter­no si tro­va­no il fon­te bat­te­si­ma­le e l’ac­qua­san­tie­ra, an­ch’es­si scol­pi­ti in pie­tra di Co­mi­so. Sull’al­ta­re mag­gio­re, l’ope­ra più gran­de e im­por­tan­te è un qua­dro da­ta­to 1608-09 che do­mi­na l’in­te­ra pa­re­te dell’al­ta­re cen­tra­le e raf­fi­gu­ra il San­to di Mag­gio che si co­pre il ca­po con un ve­lo. Il di­pin­to è at­tri­bui­to a Mi­che­lan­ge­lo Me­ri­si det­to il Ca­ra­vag­gio. Sul pri­mo al­ta­re a de­stra si mo­stra in tut­ta la sua per­fe­zio­ne un cro­ci­fis­so li­gneo del 1660, al­to due me­tri at­tri­bui­bi­le a Fra In­no­cen­zo da Pe­tra­lia So­pra­na. Sul se­con­do al­ta­re, un di­pin­to che raf­fi­gu­ra Sant’An­to­nio. La cu­po­la dell’al­ta­re mag­gio­re è de­di­ca­ta a San Gio­van­ni Mar­ti­re e la sua rea­liz­za­zio­ne è at­tri­bui­ta ad An­drea Gio­van­ni Lo Bian­co, det­to il Co­mi­so. So­pra la can­to­ria, un di­pin­to di San Fran­ce­sco del 1615-20 di au­to­re sco­no­sciu­to. Re­stau­ra­ta in­sie­me al­la ca­no­ni­ca, agli ini­zi de­gli an­ni ‘60, è co­sì gran­de! Svet­ta ver­so il cie­lo qua­si so­li­ta­ria, sul fian­co la Cap­pel­la del­la Con­fra­ter­ni­ta del San­to di Mag­gio e in­sie­me do­mi­na­no la Val­le dell’Ip­pa­ri. San­ti­na, 71 an­ni, schie­na cur­va co­me fos­se gob­ba, strin­ge­va la ra­maz­za e tra­sci­na­va fa­ti­co­sa­men­te il sec­chio pie­no d’ac­qua. Ar­ri­va­ta da­van­ti all’al­ta­re, si in­gi­noc­chiò co­me me­glio po­te­va, ap­pog­gian­do­si al ma­ni­co del­la sco­pa. Stro­fi­nò con uno strac­cio i ban­chi e rial­zan­do­si con evi­den­te fa­ti­ca, si spo­stò ver­so l’al­ta­re cen­tra­le. Lo ti­rò a lu­ci­do e sod­di­sfat­ta si in­cam­mi­nò lun­go il cor­ri­do­io che l’avreb­be por­ta­ta in sa­cre­stia. Bi­so­gna­va da­re una bel­la ri­pu­li­ta.

    «San­ti­na, co­me va? Hai fi­ni­to?», do­man­dò il gras­so don Pie­tro, det­to Pa­dre Par­ro­co, en­tran­do in sa­cre­stia.

    «Buon­gior­no, Pa­dre Par­ro­co! In­co­min­ciai pre­sto sta­mat­ti­na... al­le sei! Ho pu­li­to gli ul­ti­mi ban­chi, il pa­vi­men­to l’ave­vo pu­li­to ie­ri con Tu­ri, den­tro e fuo­ri la chie­sa. Fi­ni­sco di spol­ve­ra­re in sa­cre­stia, il vo­stro pran­zo è pron­to! Ho pre­pa­ra­to an­che per Tu­ri, è so­lo da scal­da­re un mi­nu­ti­no sul for­nel­lo ed è pron­to... La ta­vo­la è tut­ta ap­pa­rec­chia­ta, co­sì fa­te in fret­ta a man­gia­re e se vuo­le fa­re un ri­po­si­no lo può fa­re», ri­spo­se tut­to d’un fia­to l’an­zia­na per­pe­tua.

    Una don­na mi­nu­ta, i ca­pel­li pet­ti­na­ti con lo chi­gnon, un car­di­gan di co­lor gri­gio sul­la ca­mi­cet­ta bian­ca con bot­to­ni ne­ri, co­me la gon­na, lun­ga fi­no al­le ca­vi­glie (sti­le ini­zio ‘900) e tut­to ben sti­ra­to di fre­sco; e mai sen­za grem­biu­le, gri­gio quan­do pu­li­sce e ne­ro quan­do non la­vo­ra, per lei non in­dos­sa­re il grem­biu­le è co­me es­se­re sve­sti­ta. Nel­le ta­sche del grem­biu­le c’è tut­to il suo mon­do di don­na sem­pli­ce; i bam­bi­ni dell’ora­to­rio ci sco­pro­no pu­paz­zet­ti di pla­sti­ca che tro­va nel­le con­fe­zio­ni dei de­ter­si­vi, noc­cio­li­ne, ca­ra­mel­le, con­fet­ti. San­ti­na è mol­to sve­glia, at­ti­va e di una bon­tà uni­ca. In­som­ma la ti­pi­ca non­na che tut­ti vor­rem­mo, ma con l’or­go­glio di es­se­re si­gno­ri­na, ma non zi­tel­la.

    Sì, sì, de­vo fa­re pre­sto al­tri­men­ti!, guar­da l’oro­lo­gio, so­no le 8:20, ca­vo­lo! Ca su­bi­to per­ché è tar­do! Ma!.

    «Tu­ri non è an­co­ra ve­nu­to?».

    «No, non l’ho vi­sto. Ma, Pa­dre Par­ro­co, la Mes­sa è al­le un­di­ci eso­nu an­co­ra i ot­to e mez­za! Tu­ri for­se è an­da­to all’ora­to­rio in cit­tà «Fal­lo cer­ca­re e man­da­lo da me e ri­cor­da­ti di pu­li­re pri­ma la stan­za da let­to, il ba­gno e la cu­ci­na! Io in­tan­to va­do in chie­sa».

    «Va be­ne, Pa­dre Par­ro­co, ap­pe­na fi­ni­sco di fa­re la sa­cre­stia va­do so­pra e met­to ap­po­sto!». San­ti­na re­cu­pe­rò i suoi at­trez­zi e men­tre sta­va per usci­re dal­la sa­cre­stia sen­tì sbrai­ta­re Pa­dre Par­ro­co.

    «San­ti­na San­ti­na!», ur­lò il pre­te.

    «Che c’è! Che c’è, Pa­dre Par­ro­co! Non so­no sur­da! Ar­ri­vo».

    «San­ti­na, aspet­ta, fig­ghia mia! Pe­rò de­vi pu­li­re be­ne, an­che die­tro i ban­chi dal la­to del con­fes­sio­na­le, de­vi pu­li­re be­ne! Vac­ci e fi­ni­sci­be­ne le pu­li­zie».

    «Ma chi di­ce Pa­dre Par­ro­co! Io ini­zio sem­pre da lì e pu­li­sco sem­pre be­ne».

    Pa­dre Par­ro­co in­vi­tò con un cen­no San­ti­na a se­guir­lo. Ar­ri­va­ti vi­ci­no ai ban­chi Pa­dre Par­ro­co gi­rò uno sguar­do di rim­pro­ve­ro al­la don­na; «Lì! Le hai vi­ste? So­no pe­da­te!».

    «Ma quan­to so­no gran­de sti pe­da­te! Que­sto è un gi­gan­te! Co­me ho fat­to a non ve­der­li ie­ri quan­do so­no pas­sa­ta?». San­ti­na non po­te­va cre­de­re ai pro­pri oc­chi. Don Pie­tro le si av­vi­ci­nò.

    «Fam­mi ve­de­re que­ste pe­da­te... ve­roo! So­no ve­ra­men­te gros­se, hai ra­gio­ne San­ti­na. Sei si­cu­ra che non c’era­no pri­ma? Ca! Su­no tut­te pe­da­te in­fan­ga­te, è tut­to spor­co, vaa!».

    Da si­ni­stra qua­si co­me se non vo­les­se far ru­mo­re, ar­ri­vò Tu­ri. Tu­ri era un uo­mo al­to, con i ca­pel­li briz­zo­la­ti e un fi­si­co pr va­to, zop­po per via di una gam­ba ir­ri­gi­di­ta, im­pos­si­bi­le da pie­ga­re, un po’ di pan­cia, la bar­ba in­col­ta e di­sor­di­na­ta. In­dos­sa­va dei pan­ta­lo­ni di due mi­su­re più gran­di del­la sua. Qua­si si­cu­ra­men­te era­no i pan­ta­lo­ni di un vec­chio abi­to che qual­cu­no gli ave­va re­ga­la­to. Una ca­mi­cia un po’fa­né e sin­ce­ra­men­te, par­la­re del­la giac­ca di­ven­ta pro­ble­ma­ti­co. Di un gial­lo sbia­di­to, mol­to usa­ta, di in­con­fu­ta­bi­le pro­ve­nien­za Ca­ri­tas. Ai­pie­di por­ta­va dei cal­zet­to­ni di la­na den­tro dei po­lac­chi­ni da con­ta­di­no de­gli an­ni ‘50.

    «Buon­gior­no, Pa­dre Par­ro­co, buon gior­no, San­ti­na», esor­dì sor­ri­den­te.

    «Fi­nal­men­te! Tu­ri... Co­mu van­nu i co­si?», chie­se il Par­ro­co un po’ con­tra­ria­to dal suo ri­tar­do.

    «Be­nis­si­mo! Il pal­co è mon­ta­to, le lu­mi­na­rie so­no a po­sto e fun­zio­na­no! Poi ve­dia­mo que­sta se­ra con il buio, an­che l’am­pli­ca­zio­ne va be­ne!», ri­spo­se Tu­ri con­sa­pe­vo­le che il Pa­dre Par­ro­co sta­va per per­de­re le staf­fe.

    «Il grup­po mu­si­ca­le è ar­ri­va­to?», chie­se an­co­ra Pa­dre Par­ro­co.

    Tu­ri im­mer­so nei suoi pen­sie­ri e ge­sti­co­lan­do con le di­ta:

    «Il grup­po mu­si­ca­le è ar­ri­va­to! Si do­vran­no ti­ra­re gli stru­men­ti, ma è ro­ba di po­co».

    «Co­me par­li, Tu­ri? L’am­pli­ca­zio­ne... si de­vo­no ti­ra­ri gli stru­men­ti...foor­see... Vo­le­vi di­re l’am­pli­fi­ca­zio­ne e ta­ra­re gli stru­men­ti, miz­zi­ca! Tu­ri! E sfor­za­ti fi­glio mio, sfor­za­ti a par­la­re be­ne un po’ d’ita­lia­no, non ti fa ma­le se ‘mpa­ri. A me non im­por­ta nien­te di que­ste co­se! Io vo­glio sa­pe­re se il fio­ra­io ha pre­pa­ra­to i ce­sti­ni e se il co­ro ha pro­va­to... i chie­ri­chet­ti ci so­no? Non mi pia­ce re­sta­re a dor­mi­re qua an­che que­sta not­te! Fa fred­do sia­mo a 570 me­tri e non c’è il ri­scal­da­men­to nell’ap­par­ta­men­to e non ci so­no man­cu li­gna per la stu­fa, che hai ca­pi­to? A mag­gio fa an­co­ra fred­do!». Tu­ri ri­spo­se bef­far­do:

    «Lei, Pa­dre Par­ro­co, è fred­do­li­no! Fred­do­li­no, fred­do­li­no eh! Ca co­me dob­bia­mo fa­re con lei. A va’, Pa­dre Par­ro­co che be­ne si sta, non fa trop­po frid­du!».

    «Co­me! See! Sì, sì so­no fred­do­li­no!!! Eh co­mun­que! Il fio­ra­io è ar­ri­va­to?».

    «Siii! Por­te­rà tra po­co i ce­sti­ni! Ie­ri ha già mes­so le sie­pi lun­go la stra­da, spe­ria­mo che non pio­ve, sen­nò fi­no a do­ma­ni non du­ra nien­te, miiiz­zi­ca!!! Il pae­se è pie­no di ma­ni­fe­sti Pa­dre Par­ro­co, ab­bia­mo il per­mes­so per i fuo­chi ar­ti­fi­cia­li», Tu­ri era eu­fo­ri­co. «San­ti­naaa!! Da sta­mat­ti­na è che pu­li­sci! Fai l’ap­par­ta­men­to di Pa­dre Par­ro­co!»,gri­dò dan­do­si un to­no.

    «Ma che non mi ve­di Tu­ri! Sto fi­nen­do di pu­li­re que­ste im­pron­ti di scar­pu­ni (im­pron­te di scar­po­ni)! E co­mun­que ci va­do ap­pe­na fi­ni­sco con que­sto schi­fo!».

    Pa­dre Par­ro­co fre­me­va e cer­ca­va di spro­na­re Tu­ri, l’or­ga­niz­za­zio­ne del­la fe­sta era di vi­ta­le im­por­tan­za. La fe­sta del San­to di Mag­gio era tut­to ciò che in­te­res­sa­va a Pa­dre Par­ro­co in quel mo­men­to ed ave­va la sen­sa­zio­ne che tut­to gli stes­se sfug­gen­do di ma­no.

    «Ho det­to che non mi in­te­res­sa que­sta ro­ba! Noi dob­bia­mo pen­sa­re prin­ci­pal­men­te al ri­to!», gri­dò Pa­dre Par­ro­co e nell’agi­tar­si but­tò lo sguar­do sul pa­vi­men­to. «San­ti­na, pu­li­sci an­che ver­so il con­fes­sio­na­le ahh! Ca­pi­sti? Ci so­no le im­pron­te di scar­po­ni an­che ver­so il con­fes­sio­na­le, lì die­tro la co­lon­na!».

    Tu­ri in un mo­men­to di ge­ne­ro­si­tà:

    «La­scia sta­re San­ti­na, fi­ni­sco di pu­li­re io!», e con­ti­nuò ri­vol­gen­do­si a Pa­dre Par­ro­co: «Ave­te ra­gio­ne Pa­dre Par­ro­co! Ma il po­po­lo vuo­le an­che que­sto! C’è as­sai at­te­sa nel pae­se, co­me l’an­no scor­so, so­no ar­ri­va­ti an­che dai pae­si vi­ci­ni. Ho sen­ti­to di­re che c’è pu­re uno che scri­ve so­pra u’ gior­na­le! Pe­rò c’è un pro­ble­ma per i chie­ri­chet­ti. Fi­lip­po, ha la feb­bre!».

    Pa­dre Par­ro­co stra­buz­zò gli oc­chi:

    «Tu­riii! Ma tu l’an­no scor­so non c’eri!».

    «Sì sì, lo so che non c’ero... ma me l’han­no rac­con­ta­to».

    «Che pro­ble­ma c’è, Tu­ri? Che co­sa? Mi di­spia­ce per Fi­lip­po, ca­ro Tu­ri, spe­ro che gli pas­si pre­sto e bi­so­gna tro­va­re un so­sti­tu­to! E il co­ro? Han­no can­ta­to be­ne?», Pa­dre Par­ro­co era or­mai esau­sto.

    Da die­tro la co­lon­na si sen­tì un ur­lo stra­zian­te.

    «Aaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhh!!... Mos­si, mos­si, ccà c’è un muor­tu! (è mor­to, è mor­to, qua c’è un mor­to!). Ma­ria san­tis­si­ma! Ccà c’è uuu muor­toooooooo!», San­ti­na ur­la­va e si fa­ce­va il se­gno del­la cro­ce. «Nel no­me del Pa­dre del Fi­glio e del­lo Spi­ri­to San­to», e poi an­co­ra un se­gno del­la cro­ce e un al­tro an­co­ra. «Ma­ria! Ma­ria San­tis­si­ma!», San­ti­na si al­lon­ta­nò ve­lo­ce­men­te.  Le sue gam­be mi­ra­co­lo­sa­men­te la fe­ce­ro cor­re­re co­me una ra­gaz­zet­ta! La po­ve­ra don­na era ter­ro­riz­za­ta! Ar­ri­va­ta al ban­co si ada­giò sen­za for­ze e cer­cò di ri­pren­de­re fia­to. «Pa­dre coooo...», an­si­ma­va e far­fu­glia­va. «Pa­dre cooo...».

    «Co­meee!! Che di­ci San­ti­na, ma che sei usci­ta paz­za? Un mor­to! Non scher­za­re, vaa!», co­sì di­cen­do Pa­dre Par­ro­co era or­mai vi­ci­no al con­fes­sio­na­le. «San­ti­naaaa... Miz­zi­caaa!! San­ti­na, ve­ro è... ccà c’è un mor­to! Ve­ro! In no­me del Pa­dre, del Fi­glio e del­lo Spi­ri­to San­to! Ma­ria, Ma­ria e ora co­me fac­cia­mo? Que­sto mor­to ve­rooo è!».

    Tu­ri non dis­se una pa­ro­la. Si av­vi­ci­nò al ca­da­ve­re guar­dan­do­si in gi­ro co­me a vo­ler cer­ca­re qual­co­sa.

    Dal­la sa­cre­stia, igna­re del fat­to, en­tra­ro­no Ad­do­lo­ra­ta e Nun­zia­ti­na e si in­chi­na­ro­no ver­so l’al­ta­re fa­cen­do­si il se­gno del­la cro­ce. Nun­zia­ti­na era una don­na gio­va­ni­le, mi­nu­ta, sui qua­rant’an­ni, mol­to sem­pli­ce, pro­vin­cia­le e cre­du­lo­na. Ve­sti­va con so­brie­tà, la ti­pi­ca don­na tut­ta d’un pez­zo.

    «Buon­gior­no, Pa­dre Par­ro­co... Tu­ri, co­me va?», sa­lu­tò ma né Pa­dre Par­ro­co né Tu­ri e né San­ti­na ri­cam­bia­ro­no il sa­lu­to.

    «Scu­sa­te, ma che è suc­ces­so? Ho sen­ti­to ur­la­re San­ti­na men­tre en­tra­vo!», al­lun­gan­do lo sguar­do ver­so i ban­chi scor­se la po­ve­ra San­ti­na an­ni­chi­li­ta. Nun­zia­ti­na si av­vi­ci­nò al con­fes­sio­na­le do­ve Pa­dre Par­ro­co, Tu­ri e San­ti­na sta­va­no in si­len­zio. Nun­zia­ti­na but­tò l’oc­chio su Pa­dre Par­ro­co.

    «Mah!!! An­che voi sie­te smor­to, ch’è suc­ces­so!», e in quel­lo stes­so istan­te il suo sguar­do in­cro­ciò la sa­go­ma del mor­to.«Oooh! oooooooooooooooh! Ccà... ccà... ccà... ccà... ccà c’è un muor­toooo!», fe­ce un bal­zo all’in­die­tro e ca­den­do si se­det­te ac­can­to al­la per­pe­tua. Con­ti­nua­va a gri­da­re co­me im­paz­zi­ta. «Ccà... ccà... ccà...ccà... ccàààà, c’è un muor­toooo! Non è il Mae­stro, ve­ro?».

    «Nun­zia­ti­na, ba­sta di ur­la­re!», dis­se Pa­dre Par­ro­co.  «E poi che di­ci? Co­me il Mae­stro? Co­me hai fat­to a ca­pi­re se in fac­cia ha una ma­sche­ra?».

    «Nien­te so, non so nen­ti, non lo so, chi è non lo sooooo!!!».Nun­zia­ti­na non smet­te­va di tre­ma­re. «San­ti­na, ma... ma... che su...su... suc­ce­de, San­ti­na dim­mi, par­la? Quel­lo è il Mae­stro! È il Mae­stro! Po­ve­ro Mae­stro... Sì, sì, di si­cu­ro è il Mae­stro! Aaaahh po­ve­ri noi! Co­mu è po­tu­to suc­ce­de­re! Lo stes­so pal­tò, l’ho vi­sto ie­ri se­ra in Cit­tà», con­ti­nua­va a far­fu­glia­re Nun­zia­ti­na.

    In­tan­to ar­ri­vò Ad­do­lo­ra­ta che si era trat­te­nu­ta da­van­ti all’al­ta­re prin­ci­pa­le per pre­ga­re e di­re un’Ave Ma­ria. Un po’ sor­da, di fa­mi­glia be­ne­stan­te, in­dos­sa­va un cap­pot­to con il col­lo di vol­pe. Si av­vi­ci­nò al grup­po e su­bi­to si ac­cor­se del mor­to:

    «Maaa­ria, San­tis­si­ma Ma­ria! E che co­sa è suc­ces­so? Chi ha? Si sen­tì ma­le? Ve­ro è! Il pal­tò del mae­stro Aga­ti­no, Dio ci ni scam­pi, ma che co­sa è suc­ces­so? Sì l’ho vi­sto an­che io ie­ri se­ra! Ab­bia­mo di­scor­so del­la fe­sta del San­to di Mag­gio... era trop­po con­ten­to. Mi di­ce­va che ave­va fat­to le pro­ve del co­ro, che s’era mi­so d’ac­cor­do con il Mae­stro del­la Ban­da Mu­si­ca­le. ‘Nsum­ma, bed­du vi­vo era! Ora è muot­to! Vi­ri, vi­ri, co­me van­no i co­se? Ro­ba da non cre­der­ci, maaa! Chi fu un im­pat­to?», Ad­do­lo­ra­ta non si da­va pa­ce.

    Pa­dre Par­ro­co, cin­quant’an­ni di vi­ta e ven­tot­to di ono­ra­to sa­cer­do­zio, ave­va un de­bo­le: in­ve­sti­ga­re. Ave­va ap­pe­na let­to il li­bro Il no­me del­la ro­sa e in un at­ti­mo si era ca­la­to nel­la par­te che ave­va sem­pre so­gna­to. At­teg­gian­do­si a pa­dre Gu­gliel­mo da Ba­sker­vil­le o for­se a in­ve­sti­ga­to­re di Po­li­zia di una del­le se­rie di te­le­film che se­gui­va ap­pas­sio­na­ta­men­te, die­de or­di­ne con vo­ce vi­bran­te e pie­na di pa­thos.

    «Chee! Che di­ce Ad­do­lo­ra­ta? Zit­ta, si­gno­ra Ad­do­lo­ra­ta! Ma qua­le in­far­to! Non toc­ca­te as­so­lu­ta­men­te nien­te, ave­te ca­pi­to!», si ri­vol­se a Tu­ri: «Tuuu! Tu­ri chia­ma il com­mis­sa­rio in­tan­to! E da te vo­glio sa­pe­re chi so­no gli as­sen­ti! Chi ave­te chia­ma­to? Chi c’era in chie­sa? Tut­to il co­ro? Ooooh!! Non lo di­men­ti­ca­te, vo­glio sa­pe­re i no­mi di­chi è ve­nu­to. Tu­ri, chia­ma il com­mis­sa­rio e di­gli che ab­bia­mo tro­va­to in chie­sa un mor­to am­maz­za­to!».

    Tu­ri era con­fu­so. Trop­pe ri­chie­ste in trop­pe pa­ro­le.

    «Pia­no, Pa­dre Par­ro­co, pia­no pia­no, Pa­dre Par­ro­co! Ma chi è il com­mis­sa­rio?».

    «Uno ne ab­bia­mo, e gra­zie se l’ab­bia­mo! Il dot­tor Ma­ra­no, Tu­ri, quel­lo che tu lo chia­mi il Mi­la­ni­si!», ri­spo­se Pa­dre Par­ro­co spa­zien­ti­to. «Ma chi? Il Mi­la­ni­si! Eh... quel­lo sta a Co­mi­so».

    «E io chi ris­si? U Mi­la­ni­sii! Tu­ri le­stoo! Chia­ma su­bi­to il dot­tor Ma­ra­no, ca­pi­sti? Il Mi­la­ni­si co­me lo chia­mi tu».

    Tu­ri si sen­ti­va nuo­va­men­te ope­ra­ti­vo e que­sto lo inor­go­gli­va:

    «Ma... lo chia­mo al te­le­fo­no, Pa­dre Par­ro­co?».

    «Te­le­fo­na Tu­ri, cor­ri, te­le­fo­naaa! Le­sto. Tu­ri, avan­ti, muo­vi­ti! Fai quel­lo che de­vi fa­re, ba­sta che lo fai in fret­ta!».

    Ad­do­lo­ra­ta non di­sto­glie­va lo sguar­do dal ca­da­ve­re.

    «Ma chi è que­sto?», si chie­de­va e ra­gio­na­va a vo­ce al­ta. «Al­lo­ra se non è il mae­stro Aga­ti­no, chi sa­rà? Be’ be’, la­scia­mo per­de­re, con un mor­to in ca­sa io me ne va­do!».

    Pa­dre Par­ro­co non po­te­va cre­de­re al­le sue orec­chie:

    «Che di­ce, Ad­do­lo­ra­ta?!? In­tan­to non è in ca­sa, ma in chie­sa e tu non vai via fi­no a quan­do non ar­ri­va il com­mis­sa­rio e poi co­sa di­ci?!? Già, sie­te ar­ri­va­te tar­di e vo­le­te an­da­re via?!? Chi aiu­ta per la Fe­sta? An­che tu Nun­zia­ti­na non an­da­re via, hai ca­pi­to?».

    Tre­mo­lan­te e im­pau­ri­ta Nun­zia­ti­na ag­giun­se:

    «Sì, pe­rò io una co­sa la de­vo di­re. La col­pa non è mia se so­no ar­ri­va­ta tar­di. So­no ar­ri­va­ta ades­so per­ché non po­te­vo la­scia­re mia so­rel­la, suo ma­ri­to e so­prat­tut­to mia ni­po­te co­sì, sen­za... maaah!».

    «Che co­sa?», in­si­stet­te Pa­dre Par­ro­co con to­no in­da­ga­to­re av­vi­ci­nan­do­si a Nun­zia­ti­na. «Non po­te­vi la­scia­re tua so­rel­la, suo ma­ri­to e tua ni­po­te sen­za? Sen­za che co­sa? Nun­zia­ti­na con­ti­nua! Che vo­le­vi di­re, la col­pa non è?».

    La don­na che or­mai ave­va il vol­to ter­ro­riz­za­to ri­spo­se:

    «Sta­vo di­cen­do! La col­pa non è mia, ma di mia so­rel­la. Voi sa­pe­te for­se che mia so­rel­la ha quel­la fi­glia ma­la­ta! So­no ri­tor­na­ti in Ita­lia dall’Ame­ri­ca per pro­va­re una nuo­va cu­ra».

    La vo­ce di Tu­ri in­ter­rup­pe la con­ver­sa­zio­ne:

    «Pa­dre Par­ro­co, Pa­dre Par­ro­co! Ar­ri­va u Mi­la­ni­si, un quar­to d’ora e ar­ri­va!».

    «Tu­riiii, non di­stur­ba­re!», Pa­dre Par­ro­co sem­bra­va aver di­men­ti­ca­to il ca­da­ve­re ed era tut­to con­cen­tra­to sul rac­con­to di Nun­zia­ti­na.

    «Dall’Ame­ri­ca ven­go­no in Ita­lia per cu­rar­la? Il mon­do al­la ro­ve­scia! Era­no an­da­ti in Ame­ri­ca per cu­rar­la ehhh..., com’è che ades­so ven­go­no qua? Con­ti­nua, Nun­zia­ti­na».

    «Sì, sì. In que­sto ca­so non si trat­ta di ope­ra­zio­ni o me­di­ci­ne. Quel­la po­ve­ra ra­gaz­za ha bi­so­gno di un am­bien­te di­ver­so da ca­sa sua».

    In­tan­to San­ti­na e Ad­do­lo­ra­ta par­lot­ta­va­no di­stur­ban­do:

    «Maaa! La vo­glia­mo fi­ni­re di par­la­re o nooo? Mi fa­te sen­ti­re Nun­zia­ti­na? Co­me se non fos­se suc­ces­so nien­te! Qua c’è un mor­to e voi non mi fa­te ca­pi­re nien­te di quel­lo che di­ce Nun­zia­ti­na. E sie­te den­tro la ca­sa del Si­gno­re!», le rim­pro­ve­rò Pa­dre Par­ro­co.

    Due uo­mi­ni ven­ne­ro fuo­ri dal­la sa­gre­stia e at­tra­ver­san­do l’al­ta­re prin­ci­pa­le si di­res­se­ro ver­so il grup­pet­to di te­sti­mo­ni fer­mi da­van­ti al con­fes­sio­na­le. Uno era il com­mis­sa­rio Roc­co Ma­ra­no e l’al­tro il suo vi­ce, Bi­go.

    Bi­go era un uo­mo sul­la qua­ran­ti­na, al­to cir­ca un me­tro e set­tan­ta, ro­bu­sto, gran man­gia­to­re, vi­cen­ti­no. Ve­sti­va con mol­to gu­sto: cra­vat­ta ros­sa su un com­ple­to di buo­na fat­tu­ra in la­na co­lor fu­mo di Lon­dra. Ma­ra­no, in­ve­ce, era al­to cir­ca un me­tro e ot­tan­ta o po­co più, lon­gi­li­neo, fi­si­co da mar­cia­to­re, tren­ta­set­te an­ni, in­dos­sa­va una giac­ca blu, dei jeans Le­vi’s con dol­ce­vi­ta chia­ro. Na­to in Si­ci­lia nel ‘45 da una fa­mi­glia del­la bor­ghe­sia co­mi­sa­na, fa­mi­glia sti­ma­ta da tut­ti, era il più gio­va­ne di quat­tro fra­tel­li ai qua­li era mol­to le­ga­to. Da gio­va­nis­si­mo si era tra­sfe­ri­to a To­ri­no pres­so uno zio, ov­via­men­te con­tro il pa­re­re dei ge­ni­to­ri ma, te­star­do e de­ter­mi­na­to com’era, ar­ri­vò a mi­nac­ciar­li di fug­gi­re se non lo aves­se­ro la­scia­to an­da­re. Con­vin­ti i ge­ni­to­ri, par­tì e stu­diò fi­no a lau­rear­si in leg­ge. Du­ran­te gli stu­di si era man­te­nu­to fa­cen­do tut­ti i la­vo­ri che gli si era­no pre­sen­ta­ti. Ave­va ini­zia­to di­stri­buen­do vo­lan­ti­ni per un sar­to a una li­ra a vo­lan­ti­no. Ave­va poi fat­to lo sca­ri­ca­to­re ai mer­ca­ti ge­ne­ra­li, l’elet­tri­ci­sta, il ve­tri­ni­sta, il fat­to­ri­no e ar­ri­vò a la­vo­ra­re an­che al­la Fiat co­me ope­ra­io. Ama­va ca­pi­re la vi­ta dal la­to di chi la­vo­ra per man­gia­re, ama­va tut­to ciò. Cu­rio­so, in­tel­li­gen­te, col­to, le­ga­to al­le no­bi­li tra­di­zio­ni del­la sua ter­ra, riu­sci­va a par­la­re con tut­ti i ce­ti so­cia­li, met­ten­do­si al­lo stes­so li­vel­lo cul­tu­ra­le, per non of­fen­de­re mai la di­gni­tà dell’in­ter­lo­cu­to­re. Gra­zie a una sa­pien­te or­ga­niz­za­zio­ne riu­sci­va a svol­ge­re più la­vo­ri con­tem­po­ra­nea­men­te e a stu­dia­re con pro­fit­to. Ama­va sta­re in com­pa­gnia e di­ver­tir­si con gli ami­ci, fre­quen­ta­va le sa­le da bal­lo e i mi­glio­ri lo­ca­li. Pre­fe­ri­va non usci­re se non ave­va de­na­ro. Fre­quen­ta­va bei ri­sto­ran­ti, ot­ti­mi al­ber­ghi e night club al­la mo­da. An­da­va all’este­ro so­ven­te. Riu­scì ad ave­re an­che tre fi­dan­za­te con­tem­po­ra­nea­men­te, fi­no a quan­do non fu pic­chia­to da tut­te e tre (con­tem­po­ra­nea­men­te!!). All’età di ven­ti­due an­ni co­nob­be l’amo­re del­la sua vi­ta: Io­lan­da. Si spo­sa­ro­no su­bi­to do­po la lau­rea ed eb­be­ro due ado­ra­te e ma­gni­fi­che fi­glie: Mo­ni­ca e Ales­san­dra. Iro­ni­co, sim­pa­ti­co, di­ver­ten­te, ma ira­sci­bi­le e in­trat­ta­bi­le quan­do lo si pro­vo­ca­va.

    «Buon­gior­no, pa­dre, buon­gior­no a tut­ti!», esor­dì Ma­ra­no. «Io so­no Roc­co Ma­ra­no, vi pre­sen­to il mio vi­ce il dot­tor Bi­go».

    Ma­ra­no non pre­sen­ta­va mai il suo vi­ce con no­me e co­gno­me, per­ché ap­pe­na lo fa­ce­va scat­ta­va una gran­de ri­sa­ta. Tu! Sì, pro­prio tu che hai il li­bro in ma­no e che mi stai leg­gen­do, pro­va a non ri­de­re con uno che si pre­sen­ta: «Pia­ce­re, Bi­go Li­no». Il ter­mi­ne bi­go­li­no ap­par­tie­ne ai dia­let­ti dell’Ita­lia set­ten­trio­na­le e si­gni­fi­ca, piò o me­no, caz­za­tel­lo, caz­zet­to, caz­za­ro, omi­ciat­to­lo, co­sa pic­co­la. Pa­dre Par­ro­co strin­se la ma­no pri­ma a Ma­ra­no e poi al suo vi­ce:

    «Buon­gior­no e pia­ce­re di co­no­scer­la, dot­tor Bi­go». La sua espres­sio­ne si fe­ce se­ria e ag­giun­se: «Ah! Lei è il vi­ce com­mis­sa­rio,

    see! Ab­bia­mu un mor­to, ma non sap­pia­mo chi è! Lo sa­pe­te? Lo co­no­sce­te?».

    Ma­ra­no os­ser­vò il ca­da­ve­re:

    «Pa­dre Par­ro­co, sia­mo ap­pe­na ar­ri­va­ti! E poi, cer­to! Con que­sta ma­sche­ra non si può ri­co­no­sce­re. Bi­go, pren­di i no­mi di tut­ti i pre­sen­ti e chia­ma su­bi­to la scien­ti­fi­ca», e con­ti­nuò: «Al­lo­ra Pa­dre, quan­do e co­me l’ave­te tro­va­to?».

    «No, no, si­gnor Mi­la­ni­si,» San­ti­na s’in­tro­mi­se, «io u tro­vai e non Pa­dre Par­ro­co, men­tre ri­pu­li­vo il con­fes­sio­na­le! Mi so­no pre­sa una pau­ra che se non so­no sve­nu­ta po­co ci man­cau! An­co­ra ades­so so­no spa­ven­ta­ta».

    «Zit­ta, zit­ta San­ti­na», la am­mo­nì Pa­dre Par­ro­co e poi ri­vol­gen­do­si al com­mis­sa­rio, co­me fos­se Gu­gliel­mo da Ba­sker­vil­le: «Già fat­to, com­mis­sa­rio! I no­mi li ho pre­si tut­ti! Ho ca­pi­to su­bi­to che que­sto po­ve­rac­cio è sta­to am­maz­za­to».

    Il com­mis­sa­rio con un po’ d’iro­nia:

    «Bra­vo! Al­lo­ra noi pos­sia­mo an­da­re via! Ha già fat­to tut­to Pa­dre Par­ro­co. Bi­go, an­dia­mo?»,

    Pa­dre Par­ro­co si sen­tì of­fe­so:

    «Mi scu­sas­se, dot­tor Ma­ra­no, ma io so­no il par­ro­co e re­spon­sa­bi­le di quel­lo che suc­ce­de den­tro la mia chie­sa. Co­me lei al suo com­mis­sa­ria­to», ri­spo­se.

    «Cer­to! Cer­to si­gnor Par­ro­co», an­nuì Ma­ra­no.

    Pa­dre Par­ro­co, fa­cen­do fin­ta di non sen­ti­re il com­mis­sa­rio, con­ti­nuò:

    «Cer­too! Non so­no re­spon­sa­bi­le del mor­to. Ma se­con­do lei ho sba­glia­to? Pren­den­do tut­ti i no­mi fe­ci una co­sa buo­na?».

    «No, no scher­zo. Ha fat­to be­ne a pren­de­re tut­ti i no­mi, co­sì il dot­tor Bi­go la­vo­ra di me­no. Pa­dre, co­me ha fat­to a ca­pi­re che è sta­to am­maz­za­to? Ha tro­va­to qual­che pi­sto­la, col­tel­lo, in­som­ma ha tro­va­to un’ar­ma? C’era del san­gue che ave­te pu­li­to? Si­gno­ra San­tuz­za, do­ve­va fi­ni­re di par­la­re lei?».

    San­ti­na era con­tra­ria­ta, dal suo pun­to di vi­sta,

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