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La redenzione di Satana II: Apostasia
La redenzione di Satana II: Apostasia
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E-book334 pagine3 ore

La redenzione di Satana II: Apostasia

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Info su questo ebook

Una narrazione originale ed avvincente che, confermando gli stessi protagonisti collocati nelle nostra epoca, già incontrati nel primo volume, sospesi tra Roma e la Toscana, in questa seconda avventura ci porta nella Venezia opulenta ed onirica del Cinquecento negli anni del risveglio culturale e della riscoperta della classicità, ma con le braccia protese verso un ignoto quanto sconcertante futuro.
In una serie di vicende immaginate in diverse dimensioni spazio-temporali, ma legate da un unico filo conduttore, l'autore orienta lo schema narrativo con un crescendo ritmico ed articolato di “suspense”, dove l'eresia dell'apocatastasi, la redenzione finale anche del diavolo, può condurre perfino verso il territorio accidentato dell'apostasia, al capovolgimento cioè dei valori tradizionali della fede.
L'intento principale dell'autore è quello di accompagnarci in un viaggio nel tempo, dove la magia della scrittura si unisce alle possibilità scientifiche, in un fantasioso ma non impossibile collegamento tra passato, presente e futuro.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2021
ISBN9788869828829
La redenzione di Satana II: Apostasia

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    Anteprima del libro

    La redenzione di Satana II - Luigi Angelino

    ...

    INTRODUZIONE

    a cura dell’Avv. Massimiliano Bertolla

    Come avevo già precisato nell’introduzione al primo volume della trilogia, il titolo del testo, La redenzione di Satana, non deve indurci a pensare ad una tematica horror/noir, ma ci deve portare verso una riflessione teologico-filosofica, quasi cosmologica, vivacizzata dall’alternarsi dinamico di una serie di vicende collocate in diverse dimensioni spazio-temporali, legate da un unico filo conduttore.

    Mentre l’autore nel volume primo ha concentrato maggiormente l’attenzione sull’apocatastasi, la sorprendente ed eretica redenzione del diavolo, non a caso ripetendo il termine composto di origine greca come significativo corollario nel sotto-titolo, in questo secondo volume intende illustrare come le forze contrapposte entrino nel vivo della lotta, fino ad arrivare ad un capovolgimento così epocale, da meritare il termine di apostasia.

    Come è noto con il vocabolo apostasia, parimenti composto e di ellenica memoria, intendiamo un rinnegamento totale dei principi di una confessione religiosa, a differenza della parola eresia che indica un rifiuto parziale, in linea generale riferito ad una circoscritta verità di fede.

    Seguendo questo schema, l’autore intreccia una narrazione originale che, confermando gli stessi protagonisti collocati nella nostra epoca, sospesi tra Roma e la Toscana, in questa seconda avventura ci porta nella Venezia opulenta ed onirica del Cinquecento negli anni del risveglio culturale e della riscoperta della classicità, ma con le braccia già protese verso un ignoto quanto sconcertante futuro.

    Se nella prima parte della storia avevamo aspirato alla bellezza lucida e razionale della scuola neoplatonica della Firenze di Lorenzo il Magnifico, in questo palpitante seguito conosceremo la plastica e sanguigna anima culturale di Venezia, più votata all’azione piuttosto che alla contemplazione ed espressa in maniera emblematica nel misterioso dipinto Allegoria sacra di Giovanni Bellini, al giorno d’oggi conservato negli Uffizi, tempio mondiale dell’arte.

    Nel cammino proposto dall’autore, in un crescendo ritmico ed articolato di suspense, l’eresia dell’apocatastasi, percepita come inevitabile testimonianza dell’immensa misericordia di Dio può condurre perfino verso il territorio accidentato dell’apostasia, al capovolgimento cioè dei valori tradizionali della fede cristiana.

    Si tratta di uno sviluppo abbastanza plausibile, alla luce degli eventi della nostra storia contemporanea, trasfigurati in una trama nel contempo antica ed avveniristica, sapientemente ordita dall’autore.

    Le chiavi di interpretazione del romanzo sono, tuttavia, molteplici ed i lettori hanno la possibilità di aprirne le serrature con attenzione e capacità di giudizio, in quanto il messaggio di fondo sarà rivelato progressivamente, come un tappeto troppo voluminoso, il cui srotolamento deve avvenire per gradi e soltanto una visione complessiva ne potrà spiegare in pieno il significato, in attesa del terzo ed ultimo volume.

    In linea con le tendenze editoriali dei nostri giorni, non facendo sconti però alle semplificazioni sintattiche troppo avventate, Luigi Angelino non riporta note che appesantirebbero un racconto fantastico, ma nel quale traspare una profonda e radicata cultura letteraria, storica e di costume.

    Il suo intento principale è quello di accompagnarci in un viaggio nel tempo, dove la magia della scrittura si unisce alle possibilità scientifiche, in uno stravagante ma non impossibile collegamento tra passato, presente e futuro.

    Non mi resta che augurarvi buona lettura e salutarvi fina alla prossima prolusione... che introdurrà il volume terzo.

    PROLOGO

    Il ragazzo ormai sapeva bene che la prima fase di un dipinto parte proprio dalla produzione. Il fatto di essere stato accolto giovanissimo nella Corporazione veneziana, che riuniva artigiani ed artisti prestigiosi, lo riempiva di soddisfazione e di orgoglio.

    La Corporazione veneziana, infatti, aveva origini antichissime e risaliva addirittura al XIII secolo, a quasi trecento anni prima, quando già ben 56 Arti risultavano inserite nel registro dell’organo statale preposto, denominato la Giustizia Vecchia.

    Due settimane prima la sua iscrizione era stata approvata dal gastaldo, il capo della Corporazione che aveva responsabilità tecniche, amministrative e giudiziarie, per tradizione eletto dai membri che potessero vantare una permanenza minima di tre anni in seno all’organizzazione. Ferdinando aspirava a diventare col tempo almeno scrivano, in considerazione delle capacità di espressione che sentiva di aver sviluppato già da infante, in modo che fosse in grado di amministrare i registri e i documenti dell’organizzazione, con la speranza di scalarne poi pian piano la gerarchia.

    Era un ragazzo accorto, umile e coscienzioso, ma nell’intimo animato da una sana ed innata ambizione.

    La bottega della famiglia Bellini era rinomata non solo all’interno della Repubblica di Venezia e di tutta la penisola italica, ma anche nel resto dell’Europa.

    Il maestro, così come veniva chiamato il capo della bottega, che per divenire tale doveva superare una prova di abilità e pagare una tassa allo stato, era un artista molto stimato. Di solito per essere accolti in una bottega, soprattutto se si trattava di un esercizio commerciale famoso come quello della famiglia Bellini, era necessario che il maestro formalizzasse l’entrata del novizio mediante un accordo da notificare presso la Giustizia Vecchia, dove si specificavano nome, paternità, provenienza ed età dello stesso. Nel caso di Ferdinando, invece, tutto ciò era stato pretermesso.             

    Il maestro Bellini, colpito dall’abilità del ragazzo nel dipingere, nonché dalla dolcezza del suo carattere e dalla vivacità dei suoi occhi, aveva rapidamente compilato un foglio con dati inventati sul momento. Lo stesso nome Ferdinando, come il fittizio cognome Sarti, dati necessari all’inizio dell’attività di apprendista, erano stati improvvisati per ottenere il nulla osta da parte dell’organo preposto, risultato che era stato conseguito in maniera veloce, grazie anche al prestigio e alla stima che il Bellini godeva presso i controllori.

    Del ragazzo, infatti, non si sapeva nulla di certo, neanche l’età. Dall’aspetto poteva sembrare un diciottenne o un ventenne, mentre l’incarnato roseo e gli occhi chiari indicavano probabilmente un’origine nordica. Si trattava, comunque, di una ricostruzione completamente aleatoria, se si pensava a tutte le razze diverse che avevano solcato la penisola italica fin dall’inizio del secolo precedente.               

    Ferdinando si era presentato un mattino di fine autunno, piovoso e ventoso, davanti alla bottega del Bellini. Il maestro, mosso da pietà mista a curiosità, l’aveva invitato ad entrare e a riscaldarsi davanti al camino. Il ragazzo lo aveva osservato in silenzio, fissandolo negli occhi e si era guardato attorno, forse incantato dai dipinti sparsi in ogni punto della bottega.

    Avvicinandosi ad un dipinto ancora in fase di realizzazione, il ragazzo rimase immobile e concentrato, mostrando una posa quasi pietrificata. Il maestro ne fu meravigliato, soprattutto perché quel quadro l’aveva sempre messo in difficoltà, quasi in soggezione e non ne comprendeva bene i motivi. Per qualche strana ragione non era riuscito mai a portarlo a termine, come se una mano invisibile l’avesse sempre fermato prima che il dipinto assumesse contorni riconoscibili e delineabili.                     

    Il ragazzo, come spinto da una forza misteriosa, prese una tempera collocata sulla tavolozza accanto al dipinto e cominciò a disegnare.

    Era una situazione surreale, come se quella scena fosse stata predestinata a realizzarsi, in quanto né il maestro si oppose davanti alla stravagante azione, tanto meno il ragazzo mostrò imbarazzo.             

    Da allora il giovanissimo sconosciuto diventò l’allievo prediletto del famoso maestro.

    PARTE I

    IL DIPINTO

    Venezia, 5 settembre 1507

    Il dipinto completato dallo strano ragazzo aveva notevolmente impressionato l’immaginazione del maestro.

    Bellini aveva concepito un quadro che potesse rappresentare i personaggi principali della dottrina cristiana, un’opera simbolica e ambiziosa di cui, però, non riusciva proprio a trovare il bandolo della matassa per portarla a termine. Ammirando l’elaborato, che sarà dai posteri definito olio su tavolo, la mente del maestro vagheggiava, alla ricerca di un possibile significato. Anche se non ne comprendeva appieno i contorni, Bellini intuiva la complessità del disegno ed una misteriosa allegoria che in esso poteva essere celata. Tuttavia, stentava a credere che un adolescente, dedito forse al vagabondaggio, potesse avere un patrimonio culturale ed iconografico così ricco da consentirgli l’individuazione di elementi religiosi precisi e nitidi che, invece, avrebbero richiesto una preparazione solida nel campo della teologia e della filosofia.

    Era veramente una situazione strana e paradossale, come del resto era stata improvvisa e fuori da ogni schema la comparsa di Ferdinando nella sua vita.

    La scena raffigurata nel dipinto si ambientava in un’ampia terrazza, nella quale si distingueva un pavimento di marmo policromo riprodotto in prospettiva, secondo i principi artistici del Rinascimento. La terrazza si presentava separata dalla riva di        uno specchio d’acqua, probabilmente un lago, tramite una geometrica balaustra. Nella parte sinistra si distingueva una donna sul trono, da identificare con Maria, seguendo uno schema religioso ben noto al maestro, mentre al di sotto del trono si poteva notare un baldacchino con asta a forma di cornucopia, simbolo della funzione genitrice, con quattro gradini ai suoi piedi. Ciò che sorprendeva maggiormente Bellini era la presenza di un fregio contenente il mito di Marsia, forse da interpretare come parallelo alla Passione di Cristo. Vicino alla donna sul trono, apparivano altre due figure femminili, enigmatiche e poco comprensibili, in quanto al maestro non era chiaro se si potesse trattare di due sante in carne ed ossa, oppure della rappresentazione di due virtù, da attribuire alla stessa Maria. Bellini notava che una delle due donne sembrava come se fosse sospesa in aria e non sapeva se ascrivere il fatto ad una precisa scelta del giovanissimo artista, oppure ad un’ingenuità in fase di elaborazione, cioè la caduta del colore in corrispondenza delle gambe e dei piedi.       

    Il maestro propendeva per la prima ipotesi, in considerazione della brillante qualità dell’opera. Giovanni Bellini era un rinomato artista e ben pochi particolari gli sfuggivano: quel ragazzo era veramente bravo.                                                                 

    Dopo aver avanzato qualche passo fino al tavolo, dove bevve avidamente da una brocca di vetro di Burano contenente acqua, il maestro tornò ad ammirare il dipinto.

    Al centro si distinguevano quattro bambini intenti a giocare con un alberello sul quale erano delineati frutti argentei, forse simbolo dell’albero della conoscenza, fonte della vita e della sapienza divina. A destra, il maestro notava due giovani uomini, abbastanza noti per il loro aspetto, Giobbe e San Sebastiano mentre, a sinistra, fuori dal recinto ed appoggiati alla balaustra, scorgeva un uomo anziano a mani giunte, che poteva essere San Giuseppe o San Pietro, a cui si aggiungeva un risoluto San Paolo con la tipica spada sguainata nei confronti di un uomo con il turbante, forse un rappresentante dell’infedeltà del mondo islamico. Agli occhi del Bellini si mostrava interessante e suggestiva anche la parte posteriore del dipinto, perché oltre l’ampio lago, si scorgeva un vasto paesaggio, in cui spiccavano speroni rocciosi a picco sull’acqua, popolato da uomini ed animali.

    In particolare, si notavano due viandanti con un asino ed una coppia luminosa, come se risplendesse di luce propria, nonché edifici collocati nella vegetazione, un villaggio e sullo sfondo una specie di rocca. Alcune figure attiravano ancora di più la curiosità del maestro: un eremita con una croce, posto in una grotta sulla riva del lago, un pastore addormentato con le sue pecore in un’altra grotta e perfino un centauro...

    Il caldo umido di fine estate rendeva il pomeriggio particolarmente gravoso ed il maestro, ormai avanti con gli anni, senza rendersene conto, chiuse gli occhi e si appisolò sullo scomodo sedile di legno che utilizzava più come strumento di lavoro che di riposo. Quando riaprì gli occhi, vide il ragazzo fermo davanti a lui che lo scrutava con lo sguardo attento.

    Ex libro Veneris

    Tanti nomi mi saranno dati, associati a svariati aggettivi. L’avversario, l’accusatore, il principe del mondo.

    E l’Onnipotente mi darà potere sul mondo degli uomini per molti secoli, ma quale Padre misericordioso affiderebbe le sue creature ad un’entità soltanto malvagia, se non riconoscesse in essa la propria scintilla divina? O non sarebbe affatto Onnipotente, o vorrebbe tentare le proprie creature. Come ha potuto la Grande Prostituta relegarmi nel pantheon delle divinità pagane sconfitte, per poi identificarmi come unico Oppositore dell’Altissimo?

    Saranno celebrati tanti rituali per cancellare la macchia del peccato originale, quella stravagante decisione dei primi esseri umani che saranno impersonificati in Adamo ed Eva.

    La Grande Prostituta e tutte le altre religioni saranno strumenti di oppressione e di controllo del potere, affinché le masse seguano ciecamente pochi capi, travisando la natura delle cose e l’origine di tutta la realtà.

    Si diffonderà un finto culto della mia persona che servirà solo a celare propositi violenti e criminosi dei veri avversari del genere umano.

    E nel libro della Rivelazione sarà scritto: E il diavolo che le aveva sedotte fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove sono anche la bestia ed il falso profeta; e saranno tormentati giorno e notte; nei secoli dei secoli....

    E sarà detto che, per completare la mia opera iniqua contro l’umanità, prima della fine dei tempi, manderò nel mondo un mio emissario, preceduto da un ammaliante profeta.               

    Il mio inviato ed il suo accolito saranno potenti ed acquisteranno grande prestigio ed influenza su tutti gli abitanti della terra.

    Forse quel tempo arriverà, quando finalmente tutte le menzogne della Grande Prostituta saranno rivelate e sarà restituita all’uomo la sua libertà originale.

    Apocatastasi o Apostasia?

    Gli uomini del futuro saranno con me.

    Pisa, 12 ottobre 2018

    Il caldo record e la siccità, imponendosi anno dopo anno come fenomeni estremi, ormai non fanno più notizia. In maniera quasi inevitabile, ci stiamo abituando a temperature stagionali sempre più alte e a periodi di mancanza di pioggia sempre più lunghi, comprendenti zone geografiche sempre più vaste.

    Anche il primo scorcio d’autunno appariva come un prolungamento dell’estate, con giornate calde e soleggiate. Soltanto la frescura serale riportava alla mente che si stava attraversando la stagione più buia dell’anno.

    La torre di Pisa, uno dei più importanti simboli italiani, si ergeva pendente e cangiante al mutevole gioco dei colori del tramonto che le conferivano un aspetto fiabesco e misterioso nello stesso tempo. Le sue linee curve, con i giri di arcate cieche disposte su sei piani, sembravano avere una vita propria e pulsante, mentre due strani personaggi si fermarono ad ammirarla.

    - Che grande torto le hanno fatto - disse il professore con fare meditabondo, emettendo un secco borbottio,

    - Cosa intende? - rispose il ragazzo incuriosito, sempre ansioso di ricevere nuove notizie da quello che considerava il suo mentore,

    - ...la torre di Pisa, proposta come una delle sette meraviglie del mondo moderno…non è stata inserita nell’elenco, perché due monumenti italiani sarebbero stati di troppo..., e quindi via libera solo per il Colosseo… - replicò distratto il professore,

    - Ah sì...ne avevo sentito parlare... - mentì il ragazzo, desideroso di evitare una brutta figura. Il professore lo scrutò con i suoi profondi occhi scuri e gli sorrise.

    Considerò con indulgenza quell’innocua bugia: in fondo era stato anche lui un giovane orgoglioso ed ambizioso.

    Il professor Bardello, eminente professore di storia dell’arte, con tre lauree in diverse discipline, storia dell’arte, lettere classiche e teologia, era impegnato in un importante progetto, promosso dall’Università di Pisa. Era a capo di una equipe di esperti che doveva attribuire la paternità a particolari dipinti che, nello stile e nella fattura, presentassero straordinarie analogie con opere di artisti famosi ed affermati.  Il compito era molto difficile e gravoso, in quanto le fonti storiche a disposizione erano molto scarne e frammentarie, potendo disporre solo di lacunose testimonianze e della propria consolidata esperienza nel campo delle arti figurative, unitamente ad una buona dose di fortuna nelle intuizioni che non doveva affatto mancare.                       

    Andrea, uno dei suoi più valenti studenti, dotato di grande curiosità e di notevole sensibilità artistica, doveva essere il suo assistente personale nell’opera di ricerca che gli sarebbe valsa anche come parte consistente della tesi che avrebbe dovuto discutere di lì a due anni. Il ragazzo, oltre allo studio applicativo, amava darsi da fare con le attività pratiche e spesso sottoponeva all’attenzione del suo insegnante alcune bozze di disegni, tanto belli quanto enigmatici. Bardello ne era rimasto affascinato, anche se non aveva partecipato il suo entusiasmo, misto ad alcune perplessità, all’allievo, temendo che un suo giudizio frettoloso avrebbe potuto spegnere o favorire troppo la sua indole originale ed alternativa. Gli schizzi di Andrea a volte apparivano incomprensibili: angeli troppo simili a demoni, demoni troppo simili ad angeli, figure ermafrodite di strana fattura, personaggi con costumi antichi, ma delineati con chiari caratteri futuristi.

    - Professore, un pomeriggio vorrei entrare nel Museo delle Sinopie. Non l’ho mai visitato. Dicono che sia molto interessante, sono certo che lei lo conosca bene - azzardò il ragazzo, sempre pronto a dimostrare la propria vivacità culturale. L’insegnante non rispose subito, sorridendo fra sé e fissando un punto lontano, oltre le mura del lato occidentale di Piazza dei Miracoli.                                                       

    - Sì, conosco quel luogo... - rispose in maniera lapidaria.

    Al giovane allievo non sfuggì il tono turbato e volutamente sfuggente del professore all’accenno al Museo delle Sinopie.                   

    Le luci variegate del tramonto si stavano dileguando, mentre una lunga notte autunnale incombeva.                                                                                                     

    - Vieni, ti offro un aperitivo in Piazza Santa Caterina - aggiunse Bardello, continuando a sorridere pensoso, perché anche quel luogo gli evocava contrastanti emozioni.

    Il ragazzo lo seguì nel percorso a ritroso della Piazza, dove alcuni turisti orientali insistevano con le riprese, nonostante fosse ormai quasi del tutto buio.

    Il cielo si tinse di una strana tonalità di cobalto elettrico.

    Venezia, 24 settembre 1507

    L’incontro tra Venezia ed il Rinascimento avvenne un po’ più tardi rispetto ad altre città italiane. Infatti, nella Serenissima durante il Quattrocento avevano ancora prevalso i motivi culturali bizantini, con l’introduzione di alcuni elementi gotici, più che altro filtrati tramite i contatti con l’area mitteleuropea.                                               

    Gli artisti della famiglia Bellini, grazie anche alla parentela acquisita con Andrea Mantegna, furono i primi ad elaborare una nuova espressione di arte pittorica, non del tutto esente, comunque, da alcuni aspetti iconografici tardo-gotici. Si trattò di un nuovo stile, definibile rinascimento veneziano con caratteristiche abbastanza diverse da quello, forse più paradigmatico, sviluppatosi intorno alla città di Firenze.

    I Bellini perfezionarono un altro uso del colore nelle rappresentazioni pittoriche che sarà denominato tonale dai critici delle epoche successive.

    La pittura tonale troverà poi in Tiziano il suo massimo esponente.

    Ma le differenze tra il Rinascimento veneziano e quello fiorentino ebbero radici più profonde e marcate, comprendendo la stessa diversa concezione dell’estetica nell’arte.  Mentre l’arte fiorentina nacque più come ricerca di una bellezza, intesa come perfezione ideale di natura intellettuale, a Venezia si aspirò ad appagare finalità sensoriali ed immediatamente percepibili anche dall’uomo comune. D’altronde bisogna considerare la differente atmosfera culturale che si respirava nelle due città: Firenze era imbevuta di cultura neoplatonica, dove la preoccupazione fondamentale dei dotti era quella di sfatare il mito medioevale che il bello potesse essere pericoloso; Venezia, città ricca ed abbastanza indulgente nei confronti dei piaceri della carne, considerava il bello come una felice ed indispensabile manifestazione dell’essere. Questa premessa ci fa comprendere come mai a Firenze si diede più spazio all’elaborazione dei disegni, mentre a Venezia si attribuì più importanza alle diverse sfumature dei colori, per esprimere i sentimenti degli artisti. Il disegno, infatti, si riferisce alle modalità di razionalizzazione del nostro intelletto, a differenza dei colori che formano le immagini e ci trasmettono sensazioni quasi tattili.

    Il maestro continuava ad osservare ripetutamente lo strano quadro dipinto dal misterioso ragazzo. Non riusciva a capacitarsi di come il giovanissimo autore avesse saputo con maestria dosare i giusti toni, alternando i colori, in modo che essi riflettessero una diversa quantità di luce, a seconda degli elementi presenti nel quadro. I toni chiari ed i toni scuri si alternavano su diversi piani di profondità, come se il ragazzo vi avesse dedicato anni ed anni di prove e di sperimentazioni,

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