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Magnifici Misteri
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E-book369 pagine5 ore

Magnifici Misteri

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Il nostro pianeta è come uno scrigno ricco di perle: alcune sono regalate da Madre Natura, mentre altre derivano dall’ingegno umano. La straordinaria somiglianza di costruzioni edificate a notevole distanza geografica, la ricorrenza di miti più o meno simili, come quello di Atlantide o del diluvio universale, nonché l’analogia di molteplici culti religiosi fra popoli di etnie diverse, sarebbero tracce di grande rilievo, in grado di indicare la possibile unica origine da un’evoluta e primigenia civiltà.
Nonostante l’utilizzo di sofisticate tecnologie, molte aree del globo conservano ancora profondi ed affascinanti misteri: gli abissi marini, di cui forse sappiamo meno che dello spazio; la parte interna del pianeta, la cui composizione è dedotta solo con metodi matematici; il deserto del Sahara, un tempo rigoglioso e ricco di corsi d’acqua; l’Antartide, un vero e proprio continente, considerato il “termometro” di Gaia. Traendo spunto dai quattro elementi comuni a tutte le antiche cosmogonie, fuoco, terra, acqua, aria, il testo si suddivide in quattro parti, ciascuna suddivisa in 8 capitoli, scegliendo alcuni argomenti paradigmatici come invito alla ricerca senza pregiudizi, in attesa della quintessenza. È un invito verso l’ignoto, esplorando il noto, nella speculare corrispondenza tra il microcosmo dell’essere umano ed il macrocosmo dell’universo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 gen 2024
ISBN9791255870302
Magnifici Misteri

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    Anteprima del libro

    Magnifici Misteri - Luigi Angelino

    INTRODUZIONE

    Il nostro pianeta è come uno scrigno ricco di perle: alcune sono regalate da Madre Natura, mentre altre derivano dall’ingegno umano. Utilizzando come principale parametro di riferimento l’invenzione e l’utilizzo della scrittura, gli studiosi, ricorrendo all’interpretazione delle conoscenze disponibili nell’epoca attuale, ritengono che la civiltà sumera e quella egizia siano le più antiche dell’umanità. È necessario precisare che l’interesse per la cultura egizia, dopo secoli di torpore, si è risvegliato solo negli ultimi anni del diciottesimo secolo con le spedizioni napoleoniche, mentre la civiltà sumera è stata scoperta soltanto all’inizio del Novecento. Nuovi reperti, unitamente a rinnovate metodologie d’indagine, potrebbero in futuro far riscrivere la storia dell’umanità, valorizzando importanti e significativi indizi già disseminati per l’intero globo, tramandati sia attraverso racconti mitici, sia mediante la costruzione di opere misteriose, sulle quali la stessa archeologia ufficiale stenta a fornire risposte certe. Alcuni autori, come Graham Hancock o Zecharia Sitchin, al di là delle specifiche ricostruzioni in certi casi ardite, hanno evidenziato la possibilità dell’esistenza di un’ancestrale civiltà supermondiale, scomparsa forse a seguito di un cataclisma, che sarebbe la progenitrice delle più antiche culture mondiali. La straordinaria somiglianza di costruzioni edificate a notevole distanza geografica, la ricorrenza di miti più meno simili, come quello di Atlantide o del diluvio universale, nonché l’analogia di molteplici culti religiosi fra popoli di etnie diverse, sarebbero tracce di grande rilievo, in grado di indicare la possibile unica origine da un’evoluta e primigenia civiltà. Nonostante l’utilizzo di sofisticate tecnologie, molte aree del globo conservano ancora profondi ed affascinanti misteri: gli abissi marini, di cui forse sappiamo meno che dello spazio; la parte interna del pianeta, la cui composizione è dedotta solo con metodi matematici; il deserto del Sahara, un tempo rigoglioso e ricco di corsi d’acqua; l’Antartide, un vero e proprio continente, considerato il termometro della nostra amata Gaia. Lo stesso progresso scientifico esponenziale degli ultimi decenni sembra affondare radici in un remotissimo passato, producendo disastri apocalittici come nello scoppio della centrale nucleare di Chernobyl, o miracoli visionari come Il treno del cielo in Cina, comunque indicato come uno dei simboli dello sfruttamento incontrollato del nostro ecosistema. I tanti misteri che ancora avvolgono l’origine dell’esperienza dell’homo sapiens, per alcuni già definibile homo sapiens sapiens, sono in gran parte legati alla concezione del tempo come lineare ed unidirezionale, con l’illusione di poterlo misurare come le distanze tra due punti su una linea retta. In realtà, si tratta di una concezione quasi dogmatica mutuata dalla tre religioni abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam, citate in ordine di diffusione cronologica), per le quali la storia dell’umanità ha inizio con la creazione e, seguendo un progetto salvifico dell’Onnipotente, termina con un giudizio universale che apre le porte ad un’altra dimensione ontologica. È superfluo ricordare che siffatta impostazione culturale ha influenzato non solo i credenti, ma tutti gli strati della società. Le dottrine misteriche classiche, la mitologia norrena, la ricchissima simbologia induista, nonché numerose credenze orientali e meso-americane, invece, fanno riferimento ad un evolversi del tempo in senso ciclico o a spirale, in un continuo susseguirsi di sviluppo e di decadenza, di ascesa e di discesa, di morte e di rinascita. A tale idea di concepire il trascorrere del tempo è stata, peraltro, attribuita dignità epistemologica, dalle contemporanee sperimentazioni relative alla fisica quantistica.

    Traendo spunto dai quattro elementi comuni a tutte le antiche cosmogonie, fuoco, terra, aria e acqua (sequenza astrologica occidentale), ho suddiviso il testo in quattro parti, ciascuna suddivisa in 8 capitoli (altro numero simbolico per il legame con l’infinito), scegliendo alcuni argomenti paradigmatici come invito alla ricerca senza pregiudizi ed oltrepassando le apparenze, in attesa della quintessenza. È un invito verso l’ignoto, esplorando il noto, nella speculare corrispondenza tra il microcosmo dell’essere umano ed il macrocosmo dell’universo.

    Buona lettura!

    Parte I - FUOCO

    Capitolo 1 - Il deserto del Sahara

    Uno degli ambienti più inospitali del nostro pianeta è sicuramente il deserto del Sahara ma, nello stesso tempo, è uno dei luoghi più misteriosi e suggestivi, tra quelli entrati nell’immaginario collettivo attraverso racconti leggendari antichi e moderni.

    Come è noto, l’ampia estensione geografica sahariana forma il deserto più caldo della terra, con una superficie di circa 9.000.000 kmq che ricopre quasi l’intera Africa settentrionale, partendo dall’Oceano Atlantico per arrivare al Mar Rosso, se prendiamo come riferimento la sequenza longitudinale ovest-est.

    Dal punto di vista geografico, è necessario premettere che il deserto del Sahara non offre caratteristiche uniformi su tutto il suo territorio, formando dei paesaggi decisamente differenziati e che soprattutto presentano evidenti discontinuità climatiche.

    Gli esperti distinguono tre tipi principali di paesaggio che hanno, come fattore comune, la totale mancanza di corsi d’acqua: l’hammada, il serir e l’erg.

    L’hammada non è altro che un’area dove prevale la roccia nuda liscia ed erosa dai venti in millenni di attività; il serir è costituito da un aspro terreno di ciottoli e di ghiaia; ed, infine, l’erg, denominato anche idean, prevalente nel Sahara centrale e corrispondente all’idea più generalmente diffusa di deserto, che è formato da un’interminabile serie di dune di sabbia.

    Abbiamo detto che l’intero territorio sahariano è caratterizzato dalla totale assenza di corsi d’acqua. In realtà, questo dato è vero solo in apparenza e legato all’evidenza dei fatti della attuale era geologica. Sulla superficie del deserto del Sahara, infatti, sono presenti valli disseccate e fiumi fossili, in un lontanissimo passato ricchi d’acqua, ancora oggi orientati verso i grandi corsi come il Niger, il Ciad ed il Nilo, dei quali erano un tempo affluenti. Nei casi eccezionali in cui si verificano abbondantissime piogge, davvero rare alla latitudine del Sahara, questi fiumi possono rivivere, almeno in parte, la loro antichissima prosperità.

    Non serve un esperto del settore, per intuire come la caratteristica climatica più importante del deserto del Sahara sia la marcatissima siccità, in quanto la media delle precipitazioni è addirittura al di sotto dei 100 mm annui. A ciò si aggiungono i fenomeni della rapidissima evaporazione che si esprime nel sensibile riscaldamento nelle ore diurne e nella forte irradiazione in quelle notturne, con la conseguenza che si assiste ad una elevatissima escursione termica tra il giorno e la notte che, nella zona sabbiosa centrale, può anche arrivare ai 30 gradi. Le temperature diurne nella stagione estiva raggiungono valori medi davvero proibitivi, oscillando in media dai 45 ai 50 gradi. Vi è da precisare che nei territori più interni non sono presenti stazioni meteorologiche e, pertanto, si stima che i valori possano essere molto più alti.

    Se la pioggia è un evento raro, la neve lo è ancora di più. Di recente, hanno fatto il giro del mondo le immagini della nevicata caduta in Algeria, sulla città di Ain Sefra, nella provincia di Naam, la quarta nell’ultimo decennio. L’evento è stato davvero spettacolare, perché il manto bianco ha ricoperto le dune sabbiose e non soltanto alture elevate. I climatologi sono preoccupati dalla frequenza in cui si stanno ripetendo questi fenomeni straordinari, in quanto rappresentano dei segnali inequivocabili del cambiamento ambientale ormai inesorabilmente in atto nel nostro pianeta.

    Per quanto riguarda le gelate, invece, esse d’inverno sono abbastanza frequenti durante la notte, a causa della forte escursione termica alla quale abbiamo già accennato.

    A rendere ancora più difficile il clima del Sahara, sono i forti venti che, in alcune occasioni, si trasformano in vere e proprie tempeste di sabbia.

    Tra i venti del deserto africano, uno dei più temuti è il Simun, un vento terribile, secco e polveroso che è accompagnato da temperature costantemente superiori ai 40 gradi ma che, in alcuni casi, possono superare i 55. Esso soffia generalmente tra giugno ed agosto, raggiungendo il suo picco nel soffocante mese di luglio.

    Il Simun ha un aspetto terrificante, poiché nella sua forma più violenta si muove in cicloni circolari capaci di sollevare nuvole di sabbia e di polvere. A volte le raffiche sono così intense che riescono perfino a mutare la configurazione delle dune ed a produrre nelle persone e negli animali un senso di soffocamento, tanto da guadagnarsi il triste appellativo di simun che vuol dire appunto velenoso. La sua energia spaventosa è conosciuta da tempo immemorabile.

    L’antico storico greco Erodoto fu uno dei primi a parlare di questo tremendo fenomeno atmosferico, descrivendolo come quel vento rosso che soffia nel Sahara e che uccide e seppellisce ogni cosa incontra.

    In ambito letterario è molto conosciuto il ghibli, il vento caldo che soffia dall’entroterra del Sahara verso le coste libiche, frequente in primavera ed all’inizio dell’estate. Pur non raggiungendo i livelli di pericolosità del simun, esso è molto caldo e porta ingenti quantità di sabbia e di polveri, rendendo difficile la vita umana, soprattutto quando si protrae per molti giorni. Anche il ghibli riesce a modificare i paesaggi che raggiunge, spostando notevoli quantità di sabbia, di polveri e di detriti. Da non sottovalutare affatto, è il Khamsin, un altro vento impetuoso che può soffiare per 50 giorni di fila. Proprio dalla sua durata, più o meno massima, ha derivato il suo nome: khamsun in arabo vuol dire cinquanta. È un vento che porta delle vere e proprie burrasche con raffiche che raggiungono anche i 70/80 chilometri orari.

    Le sue tempeste di sabbia sono chiamate dalle popolazioni locali haboob ed i suoi detriti polverosi e sabbiosi possono oscurare il cielo, rendendo la visibilità praticamente nulla.

    Menziono, infine, l’harmattan, anch’esso considerato una sorta di calamità naturale, perché oscura il sole annullando la visibilità. Questo vento soffia in inverno, tra novembre e marzo ed attraversa distanze miracolose, alzandosi in pieno Sahara verso il golfo di Guinea e, talvolta, raggiungendo le coste del Sud America.

    Un particolare miscuglio di sabbia e di detriti viene chiamato harmattan haze ed è indicato come un vero flagello per le compagnie aeree che sono costrette a volare in direzioni ad esso contrarie. Tuttavia, a differenza degli altri venti citati, qualche volta l’harmattan è portatore di refrigerio, in quanto genera un abbassamento delle temperature, alleviando i disagi della costante afa.

    Soprattutto negli ultimi decenni stiamo assistendo a frequenti trasporti di detriti sabbiosi dal Sahara verso l’Europa, mediante i cosiddetti venti di scirocco e le piogge rosse. I motivi principali che generano questi fenomeni, che non coinvolgono soltanto i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ma anche quelli dell’Europa centrale e, in alcuni casi, perfino settentrionale, non sono soltanto di carattere meteorologico, ma sono addebitabili in buona percentuale alla nefasta influenza dell’uomo sull’ambiente e sul clima, in quanto è stato rilevato che la maggior parte delle polveri provenga da territori alterati dall’incontrollato sfruttamento umano.

    Come si può facilmente immaginare, la flora sahariana è estremamente povera, mentre essa manca del tutto nella parte centrale. Nelle propaggini più settentrionali si può trovare la steppa mediterranea, mentre in quelle più meridionali cominciano ad intravedersi le savane che caratterizzano lo scenario dell’Africa centrale.

    I miti antichi, i racconti degli esploratori e le narrazioni moderne ci parlano, però, di luoghi ameni ed avvolti dal mistero, quei posti quasi incantati che chiamiamo oasi. Ma cosa sono in realtà le oasi?

    Località fiabesche ed inventate, miraggi dei poveri avventurieri colpiti dal caldo e dai micidiali venti del deserto oppure luoghi reali?

    Quando pensiamo ad un’oasi, influenzati dalla letteratura e dalla cinematografia, immaginiamo di solito un’area isolata nel deserto, ricca di vegetazione che si trova intorno ad una sorgente d’acqua naturale. In verità, per oasi si intende l’intero mini- ecosistema costruito a bella posta presso una sorgente d’acqua che, nella maggior parte dei casi, costituisce l’unica risorsa naturale pre-esistente del luogo.

    La sorgente d’acqua deve essere utilizzata in maniera intelligente per poter ottenere un’ampia coltivazione di prodotti vegetali, come le palme, i datteri, i fichi, le pesche e le olive, sfruttando la metodologia altimetrica, in modo che le piante più sviluppate verticalmente forniscano ombreggiatura a quelle più basse. Le posizioni delle oasi sono di fondamentale importanza per le rotte commerciali nel deserto, dovendo assicurare i rifornimenti d’acqua alle carovane che percorrono centinaia di chilometri.

    Lo stesso termine greco oasis, mutuato dall’antico egiziano e demotico, originariamente indicava un vero e proprio toponimo, individuato nell’attuale località di Dakhla che si trova in Egitto, a 350 km dalla Valle del Nilo.

    Si tratta di un esteso insediamento, già famoso nell’antichità, per la ricchezza dei suoi pozzi d’acqua, che si estende per ben 80 km da est a ovest e per circa 25 km da nord a sud. In questo luogo è stato ritrovato uno dei più antichi documenti giudiziari della storia, la cosiddetta stele di Dakhla, redatto in caratteri geroglifici che racconta di una richiesta oracolare al dio Seth per mettere fine ad un conflitto sulla titolarità della proprietà di un pozzo. Nella stessa area sono stati ritrovati i resti di un’antica scuola risalente al periodo di dominazione romana. Su una delle pareti, rimaste ancora in piedi, sono incisi in greco alcuni brani dell’Odissea di Omero.

    Tra le più famose oasi vi è di certo quella di Siwa, in Egitto, situata a circa 300 km dalla costa del Mediterraneo ed in prossimità del confine con la Libia. Siwa si trova in una profonda depressione (18 metri sotto il livello del mare), in un’area piena di sorgenti d’acqua, per lo più sfruttate da un’azienda italo-egiziana che le imbottiglia e le mette in commercio, nonché per favorire la produzione di datteri di eccellente qualità. Siwa, in epoca antica, era celebre per il tempio dedicato al dio sole, Amon, a cui si rivolse perfino Alessandro Magno per ottenere vaticini favorevoli. Al giorno d’oggi, dopo tanti secoli di isolamento, l’oasi di Siwa si sta aprendo al turismo, potendo contare sull’attrattiva dei resti archeologici di epoca egizia e sulla presenza di notevoli vasche di acqua dolce sorgiva, nonché di sabbie dalle caratteristiche benefiche e curative.

    L’oasi di Al-Mania in Algeria, invece, con una popolazione di circa 40.000 abitanti, forma un insediamento urbano a tutti gli effetti. Essa si trova nella parte centrale dell’Algeria, a 950 km a sud di Algeri, ad un’altitudine di circa 400 metri sopra il livello del mare. L’area è molto ricca di acqua, distribuita su due livelli nel sottosuolo: il primo che arriva fino 3 a metri ed il secondo che si inabissa tra i 50 ed i 150 metri e collegato con la superficie da un ingegnoso sistema di pozzi artesiani.

    Nell’agglomerato di Al-Mania si distinguono le tipiche abitazioni ad un solo piano, con tetto piatto ed edificate con mattoni di argilla essiccati al sole, a cui si aggiungono gli edifici pubblici, comuni a qualsiasi città, come le scuole, le caserme, le moschee et cetera. Le strade sono curate, piene di giardini, canali ed orti arati con diligenza, regalando un variopinto spettacolo di alberi da frutto, tra cui primeggiano i peschi, i fichi e le piante di albicocche, di arance, di datteri e di mandarini.

    L’elenco delle oasi sahariane sarebbe molto lungo e, pertanto, mi limito a concluderne la carrellata menzionando quella di Douz, nella vicina Tunisia, conosciuta anche con il nome di porta del Sahara. La località è famosa, perché ogni anno, tra novembre e dicembre, ospita il cosiddetto Festival del Sahara, cioè una sorta di manifestazione folcloristica che richiama gran parte delle tribù nomadi che si trovano in Tunisia, in Algeria, in Libia ed in Egitto. Tra parate, corse di dromedari e matrimoni tradizionali, si susseguono quattro giorni di festa, soprattutto a beneficio dei turisti.

    Tra le popolazioni del deserto del Sahara, si distinguono i Tebu, stanziati nella parte centrale ed ormai ridotti a poche tribù, i nomadi Tuareg, che popolano soprattutto l’Algeria meridionale ed il Fezzan libico, a cui si aggiungono i Berberi che si trovano nelle oasi settentrionali. In particolare, l’etnia dei Tuareg ha esercitato un notevole fascino sull’immaginario collettivo, tanto da essere chiamato il popolo blu, per il colore tradizionale dei loro abiti e, non erroneamente come si crede, per il colore presunto dei loro occhi. La loro origine è abbastanza misteriosa, anche se una parte degli studiosi ritiene che discendano dalle tribù autoctone di Berberi del nord Africa.

    I Tuareg presentano un quadro culturale unico, tra le popolazioni sahariane e, anche se si sono adeguati formalmente alla cultura islamica, in alcuni gruppi permangono credenze religiose antiche, con influssi animisti che tendono alla divinizzazione dei fenomeni naturali. Nella mitologia antica si riscontrano numerosi riferimenti ai Tuareg. I Greci li chiamavano Garamanti o Ataranti, considerandoli perfino gli ultimi discendenti della scomparsa civiltà di Atlantide, di cui parla Platone nel Timeo e nel Crizia. Questa tesi, abbastanza fantasiosa per la verità, sarà ripresa da studiosi francesi all’inizio del ventesimo secolo. Gli stessi Tuareg considerano sé stessi come i discendenti della regina Tin Hinan, latinizzata in Antinea, un personaggio forse di mitica provenienza che avrebbe fondato la loro civiltà, attingendo a fonti quasi divine.

    Il deserto del Sahara è uno dei luoghi della terra più inospitali ed inesplorati che ancora ci potrebbe riservare tante sorprese.

    Sotto la sabbia potrebbero essere nascoste vestigia di antiche civiltà che attendono di essere scoperte e studiate. Inoltre, i geologi ritengono che il clima, in un lontanissimo passato, non fosse così arido e caldo, ma molto più umido ed adatto alla vita animale e vegetale. Secondo alcuni studi, circa 10.000 anni fa il paesaggio del Sahara si presentava molto più variegato, con dune sabbiose costellate di piccoli laghi e fiumi che scorrevano verso le savane meridionali. Sono state rinvenute, infatti, migliaia di ossa di pesce di diverse specie, anche di grandi dimensioni, che tuttora si possono trovare nelle acque del Nilo e nei grandi laghi dell’Africa centrale. Il territorio era adatto alla pastorizia ed all’agricoltura e già 8000 anni fa si coltivava il miglio, rendendo possibile lo stabile stanziamento di comunità umane anche abbastanza evolute.

    Attualmente, invece, sembra che la desertificazione sia destinata ad aumentare, alla luce del progressivo riscaldamento globale che investe l’intero pianeta.

    Il Sahara conserva sepolti sotto i suoi cumuli di sabbia tanti misteri e, a giusta ragione, si può considerare uno dei territori più ignoti del pianeta.

    Cercando di delineare una brevissima panoramica dei luoghi più affascinanti di questo deserto, viene subito in mente la struttura di Richat, chiamata anche Occhio del Sahara, che si trova in Mauritania, una grande formazione circolare con un diametro che misura circa 40 chilometri. Inizialmente fu considerata come il grande cratere di un meteorite, ma successive ed approfondite analisi hanno fatto propendere per ritenerla un rialzo simmetrico evidenziato dalla progressiva erosione. Di recente, l’ipotesi scientifica più accreditata è che si tratti di una cupola vulcanica di eccezionali dimensioni, crollata su sé stessa dopo milioni di anni di erosione.

    Per la sua gigantesca estensione, l’Occhio del Sahara è diventato un vero e proprio punto di riferimento per gli astronauti, dopo che è stato visualizzato ed analizzato nella sua interezza dagli operatori della missione spaziale americana Gemini.

    I commentatori più fantasiosi hanno voluto vedere in esso i resti superficiali della mitica Atlantide.

    Sempre nella zona occidentale del Sahara, tra il Marocco ed il Sahrawi, in un vasta regione che conta più o meno 55 chilometri quadrati, sono state individuate circa 400 strutture di pietra dalle forme e dalle dimensioni più diversificate, alcune delle quali sono state datate dagli archeologi ad un periodo di circa 10.000 anni fa.

    Alcune di queste pietre sembrano disposte in modo da disegnare figure simili a spirali, mentre altre sono erette e posizionate in maniera verticale. Nella stessa area geografica sono state trovate le cosiddette "bazinas", somiglianti a piccole piramidi alte tra i 6 ed i 10 metri, considerate luoghi di sepoltura, anche se la notevole differenza che presenta ciascuna costruzione rispetto all’altra, secondo gli studiosi, dimostrerebbe come gli antichi abitanti si fossero adeguati progressivamente alla desertificazione del territorio cambiando le rispettive consuetudini di edificazione. Anche queste costruzioni, per i più sognatori, dovrebbero essere messe in relazione con la mitica Atlantide, i cui resti più consistenti sarebbero sepolti ancora sotto la sabbia del Sahara. È probabile, comunque, che in un lontano passato in quell’area vi fosse una prospera oasi preistorica con un ricco bacino di acque e di vita vegetale, dove un’antica tribù risiedeva stabilmente.

    E volgendo lo sguardo verso la parte orientale del Sahara, in Egitto, a sud-ovest della megalopoli del Cairo, troviamo un deserto nel deserto, chiamato El-Fayum.

    I geologi ritengono che in quella zona, circa 40 milioni di anni fa, si trovasse un mare poco profondo, denominato Tethys che, prima di seccarsi completamente, lasciò scheletri di balene e di altri animali acquatici preistorici. Con un po’ di immaginazione, possiamo figurarci anche un’ancestrale presenza di villaggi, forse un po’ rudimentali, popolati da ingegnosi pescatori.

    Procedendo nel sud dell’Egitto, ai margini della civiltà umana, in una zona che fino ad alcuni anni fa non era neanche segnata sulle mappe, si arriva ai rilievi del Gilf Kebir. Questo luogo così lontano e magico può essere raggiunto soltanto con una vera e propria spedizione, preparata in tutti i suoi particolari con almeno due settimane di anticipo. Lo scenario è a dir poco straordinario: le ripidi pareti di roccia nera creano uno sbarramento naturale alle dune, con la montagna del Jebel Uwainat che sovrasta il Baz Krater, una depressione scavata probabilmente dalla caduta di un meteorite.

    In questo luogo misterioso sono stati rinvenuti numerosi manufatti preistorici, come asce, freccette, seghetti, coltelli e pestelli.

    Il posto più spettacolare dell’area, tuttavia, è rappresentato dalle grotte, quella dei Nuotatori e la Foggini che da alcuni osservatori è stata definita la Cappella Sistina del deserto. In questo antro, infatti, l’arte rupestre preistorica si presenta sotto tutte le sue sfaccettature con immagini di animali, cacciatori, danzatori e suonatori.

    In particolare, ha fatto molto riflettere la presenza di incisioni di misteriosi animali acefali, ai quali si aggiungono quelli più conosciuti, come le gazzelle e le giraffe.

    E le sorprese non finiscono qui, perché il panorama si conclude con la Silica Glass, una valle disseminata di pietre color giada, la cui origine rimane tuttora ignota.

    Come abbiamo accennato nel corso di questa breve sintesi, il deserto del Sahara non è sempre stato quel luogo arido ed inospitale che conosciamo. Un tempo sul suo territorio scorrevano fiumi e c’erano laghi, con l’evidente possibilità dello sviluppo della vita animale e vegetale, nonché di fiorenti insediamenti umani. Non si può sapere con certezza cosa sia sepolto sotto centinaia di metri di sabbia e molte scoperte, negli ultimi decenni, sono state il frutto di eventi casuali e fortunosi, spesso dovute alla violenta azione dei venti che di frequente ridisegnano i connotati di alcuni spazi dello sconfinato deserto.

    Nonostante gli ostacoli e le insidie che il deserto presenta, il Sahara rimane una terra affascinante ed ambita per le escursioni fuori dall’ordinario.

    I più temerari, tra miraggi ed allucinazioni, non potranno dimenticare lo spettacolo mozzafiato di un cielo stellato ammirato dalle dune sabbiose o l’emozione di una esilarante attraversata tra le gobbe di un cammello, prima di ristorarsi all’ombra di una tenda autoctona con il poetico tè del deserto.

    Capitolo 2 - Le sette meraviglie del mondo antico

    Quando si parla delle sette meraviglie del mondo, è facile commettere errori riguardo all’ambito di trattazione ed ai criteri di riferimento. Prima di tutto, è necessario distinguere le sette meraviglie del mondo antico da quelle del mondo moderno.

    Per quanto riguarda le sette meraviglie del mondo antico, si tratta delle strutture e delle opere architettoniche ed artistiche che i Greci ed i Romani considerarono le più straordinarie per l’intera umanità, ovviamente avvalendosi delle fonti e dei parametri di quel tempo. Anche se probabilmente erano stati compilati elenchi anche in periodi più antichi, la lista canonica dovrebbe risalire al III sec. a.C., in quanto comprende il Faro di Alessandria, costruito tra il 300 e il 280 a.C. ed il Colosso di Rodi, crollato per un violento terremoto nel 226 a.C.. Pertanto, le sette meraviglie del mondo antico furono contemporaneamente visibili soltanto nel periodo storico compreso tra il 280 e il 226 a.C., poi andarono progressivamente distrutte per cause diverse, tranne l’opera più antica e misteriosa, la piramide di Cheope, che tuttora permane in piedi. Un altro importante indizio che la lista canonica risalga proprio al terzo secolo a.C., è il fatto che tutte le sette meraviglie fossero situate in territori conquistati da Alessandro Magno che, nonostante la breve durata del suo impero politico, contribuì alla formazione di una sorta di koinè culturale ellenistica nel Mediterraneo orientale.

    Il testo più antico a noi pervenuto, riguardante le sette meraviglie del mondo antico, è una poesia di Antipatro di Sidone scritta intorno al 140 a.C.. Nei secoli successivi sono state elaborate numerose varianti alla lista, al punto che l’archeologo francese Jean Pierre Adam ne annovera ben 19, aggiunte nel corso di un lungo arco temporale, fra il II e il XIV secolo. Da segnalare l’opera De septem orbis spectaculis, attribuita in maniera pseudo-epigrafica al tuttologo Filone di Alessandria, ma decisamente più tarda, forse risalente al V secolo, che concorda con la lista stilata da Antipatro: la piramide di Cheope a Giza (Egitto); i giardini pensili di Babilonia (Mesopotamia-attuale Iraq); la statua di Zeus ad Olimpia (Grecia); il tempio di Artemide ad Efeso (Asia Minore-attuale Turchia); il colosso di Rodi (Grecia); il Mausoleo di Alicarnasso (Asia Minore-attuale Turchia); il faro di Alessandria (Egitto). Cercheremo, a tale proposito, di elaborare una breve ricostruzione di ciascuna delle precitate mirabili opere.

    Come ho accennato prima, la piramide di Cheope, nella valle di Giza, in Egitto, è l’opera architettonica più antica, annoverata tra le sette meraviglie del mondo antico, ed è anche l’unica ad essere rimasta più o meno intatta. Essa è la più grande delle tre piramidi principali della necropoli di Giza, secondo l’egittologia tradizionale, costruita come tomba per il faraone Cheope. Si pensa che essa sia stata realizzata dall’architetto reale Hemiunu e che avesse un’altezza iniziale di 146,6 metri. Originariamente la Grande Piramide era rivestita da pietra liscia, come si nota ancor oggi nella struttura di base sottostante. Sono state elaborate molteplici teorie sulle tecniche di costruzione della piramide, anche se quella più accreditata ritiene che sia stata edificata, mediante lo spostamento di enormi blocchi da alcune cave. Questi pesantissimi massi, dopo esser stati spostati con immane sacrificio, sarebbero stati sollevati e messi in posizione con modalità tuttora oscure e difficili da concepire anche con gli ausili della moderna tecnologia. Questo ha fatto supporre ad alcuni studiosi che la Grande Piramide sia stata edificata in tempi molto più antichi, forse da una civiltà superiore, anche osservando il particolare allineamento astronomico dell’intero complesso piramidale che richiama alcune costellazioni allora visibili. All’interno della Grande Piramide sono stati rinvenuti tre diversi ambienti, denominati camere: la camera più bassa, o camera ipogea, che risulta scolpita nella roccia, sulla quale la stessa piramide è fondata, rimasta incompiuta; le cosiddette camera del re e camera della regina che si trovano più in alto, all’interno della vera e propria struttura piramidale. All’interno non è stato trovato né il feretro, né alcun arredo funerario riconducibile al faraone Cheope e non è passata inosservata neanche la mancanza di decorazioni o geroglifici sul tema dell’oltretomba. Ciò ha fatto nascere molti dubbi sull’effettiva funzione delle Piramidi, da alcuni indicate come mappa celeste a beneficio di una fantomatica civiltà extraterrestre, ma la comunità scientifica tradizionale ha spiegato l’assenza di spoglie con il timore degli Egizi che la tomba fosse profanata da razzie straniere, come spesso accadeva in quel tempo. Pertanto il vero sarcofago, contenente la mummia del faraone, sarebbe custodito in una stanza segreta, per lasciare il sovrano ad un riposo eterno tranquillo, mentre

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