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Il battito d'ali della falena
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Il battito d'ali della falena
E-book247 pagine3 ore

Il battito d'ali della falena

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Info su questo ebook

www.alessandrofalzani.com

Dall'autore della saga CODEX SECOLARIUM.

Point Plesant, 15 dicembre 1967.

Tutti ricorderete il crollo del Silver Bridge.
La storia narra di una tragedia, una disgrazia in cui sono morte oltre 40 persone; un caso, una fatalità si è detto... ma non è così. Quella vicenda è sempre stata avvolta dal mistero e l'inquietante presenza di un essere non ben identificato è stata associata al crollo.

Ai miei tempi gli hanno dato diversi nomi, sono state fatte supposizioni su chi fosse o cosa volesse, in molti si sono chiesti cosa sia realmente e se, dopo quella volta, sia apparso ancora.

Ora sapete di chi parlo, e voglio che lo chiamate con l'unico nome che gli appartiene, voglio che lo guardiate in faccia e che conosciate la verità.

Io sono Jeff Kaine e sono sopravvissuto all'uomo falena: ecco la mia storia.

LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2018
ISBN9780463740361
Il battito d'ali della falena

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    Anteprima del libro

    Il battito d'ali della falena - Alessandro Falzani

    Il Codice Tesla ( secolarium saga Volume1)

    Hell Kaiser Vol.1 Lorian, L’alleanza dei caduti

    Hell Kaiser Vol.2 Baal, L'apocalisse di Salomone Hell Kaiser Vol.3 Astaroth, Genesi delle ombre Hell Kaiser Vol.4 Lucifero, Oltre i confini di un dio Hell Kaiser Armageddon Saga, La tetralogia Glenvion Saga Vol 1-La Matrice

    Glenvion Saga Vol 2-La Prigione di Sefrin Glenvion Saga Vol 3-L'ultimo Custode Glenvion Saga-La Trilogia La figlia di Teia

    Memoria (racconto breve)

    Prologo

    America, anno 1861

    La notte era gelida e la luna occultata da lente nubi; Achak correva a perdifiato, voltandosi spesso verso di lei. La teneva stretta per la mano e le poteva leggere il terrore negli occhi di smeraldo, le ascoltava il respiro ansioso e temeva che da un momento all'altro avrebbe ceduto. Fitti arbusti gli si paravano dinanzi e con il corpo si faceva scudo e strada allo stesso tempo, dolenti graffi sferzavano la pelle ambrata del valoroso uomo, spine acuminate affondavano nei palmi che con presa rabbiosa afferrava. «Qui dovremmo essere al sicuro» disse con voce soffocata dallo sforzo. «Non qui, non qui» rispose Aylen cadendo in ginocchio.

    Lui lo sapeva bene, tuttavia preferì non pensarci in quel momento: una stupida credenza popolare passava in secondo piano al cospetto di quello che li aspettava. «Non ci seguiranno se calpestiamo una terra sconsacrata, è proibito dalla tribù; guardati intorno, nessuno può aiutarci, io sono solo e loro in quattro. Su, alzati.»

    La donna aveva gli occhi colmi di lacrime, si teneva il grembo pronunciato, scuoteva la testa, «Tuo figlio sarà considerato un disertore! Non potrà vivere con gli altri, gli Absolova lo rinnegheranno, e rinnegheranno anche noi.»

    Un frusciare minaccioso si udì a poche decine di metri da loro, voci e risate sommesse li fecero rabbrividire.

    «Preferisci un figlio morto a un figlio rinnegato? Dimmi, cosa vuoi?» Due lance aguzze spuntarono dalla sterpaglia.

    «Aylen! Quella quercia, dobbiamo solo raggiungere quella quercia! Non posso proteggerti altrimenti!»

    Tre volti demoniaci emersero tra il fogliame rado, i loro corpi seminudi e dipinti di strani simboli, gli occhi sulla bella Aylen. Lei sapeva bene cosa volevano, lo aveva sempre saputo e sentiva che se non avesse fatto ciò che il marito le chiedeva, l'avrebbero avuta.

    «Va bene!», gridò lei chiudendo gli occhi e lasciando che Achak la sollevasse, sentiva il sangue rappreso tra i palmi delle loro mani e i loro cuori battere all'impazzata.

    Il marito l'alzo con una presa energica, la tirò a sé, guardò la quercia distante meno di venti metri. «Pochi passi, solo pochi passi, amore.»

    I rumori si facevano sempre più vicini alle loro spalle e Achak teneva la mano libera sul manico del pugnale alla cinta: iniziò a pregare mentre la loro meta si avvicinava. Aylen cadde nuovamente al suolo, stremata da una notte di fuga e i tre inseguitori le furono addosso prima che potesse accorgersene; il marito sentì il sangue gelarsi nelle vene e un'opprimente senso d'impotenza invadergli lo stomaco, tentò di pararsi a sua difesa e sentì un bruciore lancinante alla spalla, abbassò lo sguardo e vide una cuspide di ferro spuntargli dalle carni.

    Stavolta è finita.

    Estrasse la freccia con l'impeto di un guerriero, sapeva che il suo destino era segnato, tuttavia continuava a pregare con incrollabile fede.

    Aiutatemi, somme divinità della terra...

    Nulla.

    La vista iniziava ad offuscarsi, le forze scemavano dileguandosi nelle tenebre, i tre uomini tenevano la moglie in un groviglio di corpi nudi e urla. I muscoli rigidi, il respiro affannoso: il veleno della lancia era micidiale e Achak lo sapeva. Un quarto uomo gli passò al fianco ridendo, gli rivolse uno sguardo di sfida, poi si leccò le labbra osservando la donna e attendendo il suo turno.

    No... No! Potenti spiriti della terra, vi prego, vi imploro pietà per lei e mio figlio, vi scongiuro!

    Ma quella notte, gli spiriti a cui gli Absalova erano devoti avevano scelto di non agire e di osservare impassibili una donna tra le grinfie di quattro depravati; alle divinità stava bene così ma non al valoroso Achak.

    «Ti prego!» Le grida della moglie gli perforavano i timpani, il cuore gli si straziava,

    sapendola violata. Lui non poteva reagire, sapeva di avere i minuti contati e la forza

    della disperazione decise per lui: si voltò, i quattro ridevano sapendolo impotente e

    lui si incamminò verso la quercia.

    Un passo.

    I muscoli bruciavano, il sudore grondava da ogni poro, il cuore rallentava.

    Resisti Aylen... resisti.

    Ancora un passo, poi un altro. I quattro, un tempo suoi amici, lo chiamavano a gran voce, invitandolo a guardare lo spettacolo. Achack tremava dal nervoso e dalla fatica, andando oltre il limite del suo corpo fece l'ultimo metro, toccò la superficie della quercia e vi si abbracciò con la forza della disperazione.

    «Fallo, fallo!» urlò la donna, ormai umiliata. Nella sua mente il solo desiderio di salvare il figlio.

    Achak ebbe il tempo di sentire la sua voce un'ultima volta, l'udito era svanito e con esso la parola. Restava solo un barlume di luce nel profondo dei suoi occhi. Si voltò, forzandosi a guardare la scena: gli occorreva tutto l'odio e la ferocia che poteva concepire.

    Ti invoco, spirito del male, spirito delle tenebre... spirito della morte. A te mi rivolgo per debolezza, a te affido la mia vita, a te il mio corpo. Che il tuo potere mi avvolga, mi consumi, mi distrugga... ti prego soltanto di salvare lei e il bambino. Fa di me quello che vuoi.

    Nulla.

    Ora anche la vista era scomparsa e si sentiva come un involucro, il solo riferimento

    era dato dal lentissimo battito del cuore.

    Impotente, inerme, inutile larva senza vita.

    Riacquistò per un attimo la vista, scorse il volto della donna e i suoi occhi spalancati:

    rivolti a lui, imploranti, agghiaccianti.

    Ti invoco, spirito del male, spirito delle tenebre...

    I quattro uomini erano soddisfatti, dopo essersi divertiti per almeno un'ora intendevano completare l'opera e cancellare qualsiasi traccia del loro sporco lavoro. La torcia con cui si erano fatti strada nel buio era ancora accesa, piantata a terra a far

    da veglia al macabro scenario, uno di loro la prese e diede fuoco alle sterpaglie intorno all'uomo morente.

    Che qualcuno ascolti le mie suppliche! Sono solo un uomo... chi devo pregare per avere aiuto, chi?

    Se chiedi aiuto l'avrai, ma ad una condizione. Gli rispose una voce lontanissima nella sua mente.

    Tutto quello che vuoi, tutto! Sto bruciando... salva almeno lei! Salvala!

    Voglio il tuo corpo, la tua anima e la mia vendetta. Ciò che un tempo la tua tribù mi ha tolto.

    E sia, prendilo. Ora, subito.

    Bene. La profezia avrà compimento.

    La voce svanì. Achak sentiva il suo corpo ardere nel fuoco: non provava dolore e aveva riacquistato i sensi persi in precedenza. Scorgeva i quattro uomini tra le fiamme e i loro sorrisi erano cancellati da un orrido sguardo; essi indietreggiarono come avessero visto il diavolo in persona. L'uomo era bloccato, qualcosa lo teneva immobile e non era più il veleno di cui era intrisa la freccia, no. Quello non c'entrava. Era qualcosa di diverso e di immensamente forte, qualcosa che stava dando l'opportunità a quei quattro vermi di scappare.

    Quando scomparvero tra le sterpaglie si sentì nuovamente libero, camminò tra le fiamme senza il minimo problema e allungò le braccia verso l'amata a terra. Una barriera invisibile gl'impediva di toccarla, di abbracciala e di sapere se era ancora viva.

    Lei allungò la mano tremolante, toccò la sua senza percepire alcuna sensazione, cercò di dirgli qualcosa ma le parole morirono soffocate in gola. Al marito fu sufficiente guardarle gli occhi per capire che lei stava provando qualcosa che andava ben oltre la paura. Le dita delicate scivolarono sulla parete invisibile e lo sguardo le divenne gelido, serrò le labbra e si lasciò andare, per sempre.

    In quel momento la forza misteriosa svanì e poté abbracciarla: circondati dalle fiamme, abbandonati al loro destino. Non poteva fare nulla e quelle maledette preghiere non erano servite, lei era morta, il bambino era morto. Lo sapeva, lo sentiva.

    Decise di abbandonarsi e di ardere tra le fiamme con lei: il dolore sarebbe durato poco e poi di nuovo insieme, su nel cielo e stavolta per sempre; ma qualcosa non andava, in quella notte di morte e follia qualcosa non era andato come doveva e lo comprese quando il corpo di Aylen si carbonizzò, mentre lui restò illeso. Pazzia, era pazzia quella di cui era vittima, non potevano esistere altre ragioni.

    Le mani: non ci aveva fatto caso e quando le mise al volto per pararsi la vista da quell'incubo si accorse che non erano più le stesse; qualcosa pendeva dalle braccia lungo i fianchi, una sorta di estensione della sua pelle. Tutto gli appariva rosso e non erano le fiamme; anche il cielo, quella notte, era rosso carminio. Cosa succede, cosa? Si chiedeva osservandosi intorno.

    Le fiamme, ora, avevano un senso e si erano disposte tracciando un pentacolo fumante, un simbolo esoterico di cui lui era il centro. Chi sono, chi? insisteva, paralizzato dal terrore.

    Sei mio, adesso.

    Tu... tu mi hai mentito. Mi hai ingannato. Lei è morta!

    Da qui inizia la mia vendetta, dallo stesso tranello che la tua tribù mi riservò centinaia di anni fa, quando mi imprigionaste nell'oblio. Questo è l'inizio della mia vendetta, debole umano, e tu sarai la mia mano esecutrice.

    In quel momento, Achak comprese di essersi rivolto ad una forza oscura, la peggiore esistente, la più terrificante; uno spirito che la sua stessa tribù aveva sigillato nella notte dei tempi e da cui gli abitanti si erano sempre tenuti alla larga, confinandolo in un luogo sconsacrato, che l'uomo aveva violato.

    Nella loro lingua, Absolova significava popolo degli uccelli e Achak ne aveva finalmente compreso il senso: strinse i pugni e urlò, nella sua mente l'eco di una risata infernale.

    Capitolo 1

    La sedia cigolò appena quando si sollevò e si sorresse facendo forza sui braccioli, sentì che la poca energia nelle braccia era insufficiente per compiere un gesto così naturale. Le finestre socchiuse lasciavano filtrare un delicato refolo di vento e una luce debole e sottile colpiva casualmente alcuni punti dell'appartamento: un giornale ripiegato sul tavolo, il piede consumato di una sedia, il lembo di una tenda, la pagina ingiallito di un libro. Prese quest'ultimo tra le mani e lo richiuse, sulla copertina impolverata svettava un nome a carattere cubitali, quel nome che dal 1967 non gli aveva concesso tregua. Lo avevano chiamato in decine di modi, visto in centinaia di luoghi e ne ricordavano gli occhi, tremendi e indelebili nelle menti dei testimoni. Jeff Kaine c'era: il giorno del crollo del Silver Bridge era su quel ponte e lo stava percorrendo con la sua macchina a bassa velocità, in verità era quasi fermo data la lunga fila che lo precedeva. Scosse la testa al solo ricordo e i peli radi sulla pelle rugosa si drizzarono, ancora, dopo esattamente cinquant'anni. Prese il bastone e con esso si aiutò portandosi sul vetusto tavolo intarsiato della sala da pranzo: le cesellature ricavate sul noce erano nascoste da fogli ammassati e innumerevoli ritagli di giornali. Sistemò gli occhiali in bilico sulla punta del naso e stette un attimo in attesa, fissando un punto a caso del pavimento da cui non riuscì più a scollarsi; poi uno scatto improvviso e il ritorno dolente alla realtà. Sollevò il capo e rilesse per l'ennesima volta tutte le sue considerazioni, i calcoli e le date. Era certo di non sbagliarsi e fissò quel nome, l'unico a non essere sbarrato da una linea nera, incerta e tremolante: solo lui poteva dargli la risposta che da cinquant'anni attendeva. Quel giorno, il 15 dicembre del 1967, Jeff sarebbe dovuto morire insieme ad altre 46 persone e si era sempre rifiutato di pensare, in tutta la sua sofferta vita, di essere sopravvissuto per fortuna o che si fosse trattato di una semplice coincidenza.

    A sessantanove anni aveva difficoltà a camminare ma riusciva ancora a guidare, quella era una delle poche capacità che quel tragico giorno non era riuscito a togliergli. Scelse accuratamente i ritagli e li collocò in uno schedario, il rintocco pungente dell'orologio a pendolo scandiva il poco tempo che restava, due ore dopo sarebbe dovuto partire. Si osservò intorno, ritenendo l'ambiente discretamente pulito anche se lugubre; aveva letto chiaramente negli occhi delle poche persone che gli facevano visita che lì non volevano stare e sapeva bene perché. Le notava muoversi nervosamente, guardarsi intorno circospette, le mani poggiate sulle ginocchia come un alunno al primo giorno di scuola. Chi conosceva la sua storia gli attribuiva qualcosa di negativo che lo riconduceva alla bestia artefice del disastro. Oltre ai 46 morti vi erano stati due dispersi, ma quello che nessuno sapeva era del suo ritrovamento a quasi cinquecento metri dal crollo, mentre la sua vecchia Ford era stata ridotta a una sottile lamiera azzurra. Come c'era finito lì? Lui lo sapeva benissimo e nessuno gli avrebbe mai creduto, neppure lui per i primi anni volle crederci ma quella dannata ferita bruciava come il primo giorno ed era la prova autentica che non mentiva e che non era pazzo. Passò delicatamente le dita nodose sulla spalla, continuando a selezionare i fogli con scrupolo, poi prese il portafogli e controllò la somma che aveva con sé. Afferrò le chiavi sul mobile vicino all'uscio e il

    soprabito scuro e sgualcito. Sfiorò la maniglia e lo scatto meccanico gli provocò un lieve sussulto al cuore, la tendina posta sul rettangolo di vetro incorniciato dalla porta si mosse appena e un fascio di luce verticale fendette il corridoio dietro di lui, infine un lento cigolio e la luce naturale bagnò il suo volto triste e spigoloso, dopo quasi undici anni.

    L'orologio non aveva scandito ancora il rintocco della partenza, quello che attendeva con ansia, ma la pazienza era l'ultima cosa che aveva conservato in quegli anni e l'unica di cui non sapeva che farsene.

    «Signor Kaine!» esclamò l'anziana vicina, seduta sotto il portico. La sorpresa era

    viva negli occhi infossati della donna.

    «Signora Roward» replicò lui impassibile.

    «Che Dio mi sia testimone! Cosa accade oggi? Questo è un evento!» «Nulla di particolare. Esco a fare un giro, è così grave?» L'anziana notò il suo tono acido.

    «No, no di certo. Nessuno le vieta di farlo... è solo che è da tanto tempo che non la vedo, sa, la gente parla...»

    Jeff fece un gesto di stizza, «A me non frega nulla di voi e delle vostre idiozie. Non m'interessa quello che pensate e delle vostre chiacchiere non so che farmene...» «Lei ha frainteso, nessuno ha mai...»

    «Adesso basta vecchia rompipalle! Credi che non sappia che mi spii? Lo fai da anni e vai spifferando ai quattro venti quello che faccio in casa mia. Sono stufo di te e delle persone meschine di questo maledetto posto.»

    La signora Roward fu sbalordita dalla sua inattesa aggressività.

    «Sei solo un vecchio pazzo, vecchio e stupido! Perché non te ne vai una volta per tutte? Non sto tranquilla sapendo che un malato di mente vive vicino a casa mia. Nessuno qui lo è...», si interruppe, pentendosi dello sfogo. Jeff la osservò indietreggiare e cercare con la mano il pomello della porta senza mai distogliere lo sguardo da lui. L'aprì e si ritirò affogando nella penombra alle sue spalle. Lui restò immobile sull'uscio, la coda dell'occhio aveva catturato un ragazzo uscire e rientrare in casa richiamato a gran voce dalla madre. Se si concentrava bene riusciva a distinguere i bisbigli degli inetti che passavano per strada, in quella tiepida domenica invernale.

    Recluso da undici anni: questa era stata la sua scelta e il solo modo di ottenere risposte. L'unico che gli era venuto in mente per isolarsi dal fiume di malignità con cui l'infangavano, giorno dopo giorno.

    Strinse forte lo schedario e scese i gradini, sondando con il bastone il legno decrepito prima del suo piede: sebbene facesse un'enorme fatica a compiere quei movimenti non aveva assolutamente intenzione di darlo a vedere. Una bici gli passò a pochi metri di distanza invadendo la carreggiata opposta, il suo sguardo fisso al suolo a sforzarsi di ricordare quanti passi doveva compiere prima di arrivare a quella dannata recinzione; aveva compiuto quel percorso con la mente decine e decine di volte in attesa di quel momento e tutto doveva essere come lui si aspettava, come si ricordava di averlo lasciato durante quel tempo. Diverse assi del recinto erano stati divelti e spray di innumerevoli colori avevano imbrattato la rimessa di Jeff, tuttavia nessuno vi

    era mai

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