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Il rosso e il nero e La Certosa di Parma
Il rosso e il nero e La Certosa di Parma
Il rosso e il nero e La Certosa di Parma
E-book1.258 pagine19 ore

Il rosso e il nero e La Certosa di Parma

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Info su questo ebook

Introduzioni di Alberto Cappi e Attilio Scarpellini
Traduzione di Ferdinando Martini
Edizioni integrali

Grande affresco dell’epoca postnapoleonica e al tempo stesso appassionato romanzo d’amore, Il rosso e il nero fu pubblicato nel 1830. La vicenda di Julien Sorel, giovane di umili natali, intelligente, sensibile, esuberante, ambizioso, che cerca di farsi largo tra la mediocrità imperante nella Francia della Restaurazione sfruttando i favori di due donne, di cui poi si innamora, è lo specchio di un tempo difficile, di una realtà ostile, di un potere politico ingiusto, di un inarrestabile svilimento morale, di una inaccettabile tirannia dell’opinione pubblica. Scritto in poco più di un mese e mezzo, dopo anni di studi, La Certosa di Parma fu accolto entusiasticamente da Balzac all’epoca della pubblicazione, nel 1839. È la vicenda di Fabrizio Del Dongo, un romanzo d’amore e insieme di cappa e spada, con tanto di duelli e avvelenamenti: dominata dall’incanto magico della passione, l’opera è la geniale improvvisazione nella quale uno scrittore giunto ormai alla fine della vita celebra e reinventa la propria giovinezza, in un inno appassionato alla felicità del singolo, anche a dispetto delle sconfitte della storia.



Stendhal

pseudonimo di Henri Beyle (Grenoble 1783 - Parigi 1842), partì giovanissimo per Parigi. Visse poi a lungo in Italia finché, nel 1821, tornò a Parigi e iniziò a collaborare con varie riviste. Eletto console a Civitavecchia dopo la rivoluzione del 1830, si dedicò con più libertà alla letteratura. Nel 1841, malato e stanco, chiese un congedo e tornò a Parigi, dove continuò a lavorare fino al giorno della sua morte, avvenuta nel marzo 1842.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854141964
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    Anteprima del libro

    Il rosso e il nero e La Certosa di Parma - Stendhal

    374

    Indice

    Nota biobibliografica

    IL ROSSO E IL NERO

    Introduzione di Alberto Cappi

    Prefazione di Massimo Bontempelli

    LA CERTOSA DI PARMA

    Introduzione di Attilio Scarpellini

    Titoli originali: Le Rouge et le Noir, Chronique de 1830, traduzione di Massimo Bontempelli;

    La Chartreuse de Parme, traduzione di Ferdinando Martini

    Prima edizione ebook: maggio 2012

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4196-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di geco srl

    Stendhal

    Il rosso e il nero

    Introduzione di Alberto Cappi

    Prefazione e traduzione di Massimo Bontempelli

    La Certosa di Parma

    Introduzione di Attilio Scarpellini

    Traduzione di Ferdinando Martini

    Edizione integrale

    Nota biobibliografica

    «Sono vivo, appassionato, folle, sincero all’accesso in amicizia e in amore fino al primo freddo. Allora, dalla follia dei sedici anni passo in un batter d’occhio al machiavellismo dei cinquanta e, in capo ad otto giorni, non resta altro che ghiaccio fuso, freddo perfetto.» Così Stendhal dipinge se stesso nei Souvenirs d’egotisme, un ritratto ad un tempo compiaciuto ed ironico dell’homo sentimentalis della sua epoca. La sua stessa biografia è un capolavoro. Marie-Henri Beyle, che i posteri conosceranno come Stendhal, nasce a Grenoble il 23 gennaio del 1783 da una ricca famiglia del luogo. Suo padre. Chérubin Beyle, è avvocato al parlamento del Delfinato. Fin dall’infanzia la vita del futuro autore della Certosa di Parma è segnata da un trauma che influenzerà molto sia il suo carattere sia la sua tenerezza nel tratteggiare le figure femminili: la morte della madre, Henriette Gagnon, avvenuta quando il piccolo Henri ha sette anni. Nel 1796 Henri entra alla scuola centrale di Grenoble dove si distingue sia nelle materie letterarie che nelle matematiche. Nell’ottobre del 1799, lasciata Grenoble, parte alla volta di Parigi per passare l’esame di ammissione all’École Polytechnique, ma giunto nella capitale rinuncia rapidamente al proposito. Ottenuta la protezione dei cugini Daru, lavora dapprima negli uffici del ministero della Guerra e poi raggiunge l’armata di riserva che al comando di Bonaparte si appresta a riconquistare l’Italia. Il 10 giugno del 1800 entra a Milano con le truppe dell’Imperatore. Viene nominato sottotenente dei dragoni ma la sua carriera militare durerà appena un anno, la letteratura lo attrae di più, anche se inizialmente solo sotto forma di una vaga e magniloquente ambizione: vuole diventare un «vasto genio» ed il più grande poeta del secolo. Dimessosi dall’esercito con il grado di tenente, si installa a Parigi per dar sfogo alla propria vocazione. I suoi progetti si dirigono ovviamente verso il teatro, genere mondano per antonomasia che all’epoca rappresenta l’apogeo del successo letterario. Ma sfumano uno dopo l’altro. L’amore per una giovane attrice, Mélanie Guibert, lo porta a Marsiglia dove con alcuni amici progetta la creazione di una ditta di commercio con l’estero. L’ennesimo fallimento e la velleità delle sue ambizioni artistiche nell’epoca in cui, come racconterà egli stesso, si siede a tavolino «aspettando che l’ispirazione passi da lì» lo inducono a tentare l’ascesa politica nel Primo Impero. Suo cugino Pierre Daru è un intimo della cerchia napoleonica, grazia a lui Beyle riuscirà ad essere successivamente intendente a Braunschweig e a Sagan, direttore degli ospedali militari a Vienna, uditore del Consiglio di Stato ed ispettore del Mobilio e degli edifici della Corona. Nell’agosto del 1810 si prepara al concorso per entrare al Consiglio di Stato. Dopo un nuovo viaggio in Italia, dove intreccia un’appassionata relazione con Angela Pietragrua, fa ritorno a Parigi e viene mandato in missione in Russia, dove seguirà il più grande insuccesso militare della Grande Armée. Per Napoleone è l’inizio della fine. Per il suo biografo l’inizio di un periodo segnato dalle difficoltà ma anche dalle prime autentiche realizzazioni letterarie. La caduta dell’impero lo lascia disoccupato ed oberato dì debiti ma la forzata inattività gli dà anche l’agio di scrivere le Vite di Haydn, di Mozart e di Metastasio. Per non assistere alle vendette della reazione decide di raggiungere Milano, dove risiederà dal 1814 al 1815, in quello che sarà uno dei periodi più drammatici della sua vita: abbandonato da Angela Pietragua, isolato dal crollo di un mondo al quale aveva legato la sua fame di gloria, Stendhal si getta nella composizione Storia della pittura in Italia che verrà pubblicata nel 1817. Come scrive Victor Del Litto, uno dei maggiori conoscitori dell’opera stendhaliana, «sarà la sua ancora di salvezza». Contemporaneamente ad essa fa pubblicare Roma, Napoli e Firenze, l’opera sul cui frontespizio appare per la prima volta lo pseudonimo «M. de Stendhal»: l’esilio e l’amatissima Italia danno così i natali ad uno dei più grandi geni letterari del secolo. E con i primi libri si risveglia anche, violenta, la passione. Nel 1819 avviene l’incontro con Matilde Viscontini, moglie separata del generale polacco Dembowski: la donna più amata ma anche quella che si è più caparbiamente rifiutata a lui. De l’Amour, scritto in quell’epoca, è il curioso tentativo di analizzare scientificamente quell’amore infelice. Stendhal appartiene ormai al clima romantico dell’epoca. Rientrato a Parigi, frequenta il salotto di Décluse e dà successivamente alle stampe Dell’Amore, Racine e Shalaespeare e la Vita di Rossini. Tra il 1827 e il 1830 pubblica due libri di viaggi, una nuova edizione di Roma, Napoli e Firenze e le Passeggiate romane, ma soprattutto prende la strada del romanzo con Armance e Il rosso e il nero. I tempi cambiano, la durezza della Restaurazione si incrina e moti di luglio che aiutano Beyle-Stendhal a riemergere anche come uomo di Stato. I sui amici ottengono per lui un posto di console a Trieste ma l’opposizione dell’Austria, che gli rifiuta l’exequatur, lo costringe a ripiegare sulla nomina a Civitavecchia, negli Stati Pontifici. Per fuggire dalla noia della cittadina, Stendhal si reca il più possibile a Roma. Le sue funzioni pubbliche gli proibiscono di pubblicare libri ma lui non ha alcuna intenzione dì rinunciare alla scrittura. L’isolamento di Civitavecchia favorisce la sua tendenza all’analisi e al ripiegamento, i Ricordi di egotismo, la Vita di Henri Brulard, i romanzi Lucien Leuwen (Lamiel appartengono tutti a questo periodo, con la caratteristica, assai stendhaliana, di esse re tutte opere incompiute. Dal 1836 al 1839 il console Beyle ottiene un congedo di tre ann che trascorrerà in parte a Parigi, in parte viaggiando. Dalle sue ricerche nelle biblioteche e negli archivi italiani, nei quali ha raccolto una intera collezione di manoscritti, escono le due serie delle Cronache italiane (1837-1839), dai suoi viaggi le Memorie di un turiste (1838). Il 16 agosto del 1838 ha l’idea di scrivere un romanzetto ispirato alla giovinezza d Alessandro Farnese: è il primo vagito della Certosa di Parma, un’opera che verrà scritta; Parigi in poco più di un mese e la cui pubblicazione nell’anno successivo desterà l’entusiasmo di Honoré de Balzac. Tornato a Civitavecchia ha un primo attacco di apoplessia il 15 marzo del 1840, il giorno in cui «lotta per niente». Chiede ed ottiene dal ministero degli Esteri un congedo per motivi di salute e fa ritorno a Parigi nel novembre del 1841. Ha solo quattro mesi da vivere. Colpito da un altro attacco apoplettico muore, nella sua casa di rut Neuve de Petits Champs, nella notte tra il 22 ed il 23 marzo 1842.

    LE OPERE

    Histoire de le peinture en Italie (1817)

    Rome, Naples et Florence (1817)

    De l’Amour (1822)

    La vie de Rossini ( 1823)

    Racine et Shakespeare (1823-1825)

    Armance (1827)

    Promenades dans Rome (1829)

    Vanina Vanini (1829)

    Le Rouge et le Noir (1830)

    Souvenirs d’égotisme (scritto nel 1832, esce nel 1892)

    La vie de Henri Brulard (avviato nel 1834)

    Lucien Leuwen (avviato nel 1834)

    Les Cenci (1837)

    Vittoria Accoramhoni (1837)

    La Chartreuse de Parme (1838)

    La Duchesse de Palliano (1838)

    Mémoires d’un Touriste (1838)

    L’Abhesse de Castro (1839)

    Escono postumi: Journal, Mélanges, Vie de Napoléon, Correspondance, Le Rose et le Vert Lamiel.

    Riferimenti bibliografici

    È d’obbligo il riferimento alle OEuvres complètes pubblicate da Divan a cura di Henry Martineau.

    Traduzioni italiane della Certosa di Parma e di altre opere di Stendhal

    La Certosa di Parma, trad. di F. Martini, Milano, Mondadori, 1931; La Certosa di Parma, trad. di C. Sbarbaro, Torino, Einaudi, 1944; La Certosa di Parma, trad. di L.G. Tenconi, Milano, Rizzoli, 1953; La Certosa di Parma, in Stendhal, Romanzi e racconti, a cura di P.P. Trompeo, 3 voll., Firenze, Sansoni, 1956; La Certosa di Parma, a cura di F. Zanelli Quarantini (con un saggio di Paul Valéry), Milano Mondadori, 1980 (nuova edizione riveduta e aggiornata: 2000); La Certosa di Parma, trad. di E. Tadini, introd. di P. Bellocchio. Torino, «La Stampa», 2003; Im Certosa di Parma, trad. di A. Laserra, Roma, «La Repubblica», 2004; La Certosa di Parma, trad. di M. Ortiz, con un saggio di Sainte-Beuve, Milano, BUR, 2004; La Certosa di Parma, trad. di B. Bruno, Milano, Frassinelli 2005.Viaggio in Italia (1801-1818), Milano, Rizzoli, 1942; Dell’amore, Milano, Sonzogno, 1958; Vita di Napoleone, Torino, Boringhieri, 1959; Vita di Henri Brulard, Milano, Adelphi, 1964; Lucien Leuwen, Novara, Ist. Geogr. De Agostini, 1965; I capolavori di Stendhal (Il Rosso e il Nero, La Certosa di Panna, Racconti), a cura di C. Cordié, Milano, Mursia, 1967; Lamiel, Roma, Avanzini e Torraca, 1968; Storia della pittura in Italia, Roma, Tindalo, 1968; Roma, Napoli e Firenze, Bari, Laterza. 1974; Diario, Torino, Einaudi, 1977; Memorie di un turista, Torino, Einaudi, 1977; Armance o alcune scene di un sedotto parigino, Milano, Garzanti, 1978; Cronache italiane, Roma, Newton Compton, 1993; Vita di Mozart, Roma, Newton Compton, 1995; Il rosso e il nero, trad. di U. Dèttore, Milano, Rizzoli, 1998, 1999; Vita di Rossini, Firenze, Passigli, 1998; Vita di Napoleone, introd. di L. Binni, trad. it. di P. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1999; Armance, trad. di M. Cucchi, con un saggio di A. Gide, Milano. Mondadori, 2000; Dell’amore, trad. di A. Pasquali e G. Passalacqua, con un saggio di I. Calvino, Milano, BUR, 2002; Cronache romane, Venezia, Comune di Venezia, 2002; Passeggiate romane, Firenze, Le Lettere, 2002; Il rosso e il nero, cronaca del XIX secolo, trad. di A. Fabietti, Milano, «Panorama», 2002; Dell’amore, trad. di M. Bertela, introd. di S. Moravia, Milano, Garzanti, 2003; Il rosso e il nero, cronaca del 1830, trad. di D. Valeri, Bologna, Poligrafici ed., 2003; Il rosso e il nero, cronaca del 1830, trad. di M. Cucchi, con un saggio di L. Sciascia, Milano, Mondadori, 2003; Il rosso e il nero, trad. di M. Bontempelli, Roma, Newton & Compton, 1994. 2004.

    Opere su Stendhal

    C.A. Sainte-Beuve, Causeries du Luridi, IX, Paris. 1854; P.P. Trompeo, Nell’Italia romantica sulle orme di Stendhal. Roma, 1924; L. Foscolo Benedetto, Arrigo Beyle Milanese, Firenze, Sansoni, 1942; H. Martineau, L’OEuvre de Stendhal, Paris. 1945; J.P. Richard, Stendhal et Flaubert, Littérature et sensation, Paris. Editions du Seuil, 1954; E. Auerbach, «All’Hotel de la Mole», in Mimesis, Torino, Einaudi, 1956; M. Bonfantini, Stendhal e il realismo, Milano. E.s.l., 1964; G. Macchia, «Stendhal tra romanzo e autobiografia» e «Stendhal, l’amico e la statua», in Il mito di Parigi, Torino, Einaudi, 1965; V. Del Litto, La vita di Stendhal, Milano, Mursia, 1967; P. Valéry, «Stendhal», in Variété, trad. it. Varietà, Milano, Rizzoli, 1971; G. Genette. Figure II, Torino, Einaudi, 1975; J. Starobinsk, L’occhio vivente, Torino, Einaudi, 1975; R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 1977; Tomasi di Lampedusa, Lezioni su Stendhal, Palermo, Sellerie 1977; M. Colesanti, Stendhal: le regole del gioco, Milano, Garzanti, 1983; B. Didier, Stendhal autobiographe, Paris, PUF. 1983; L. Sciascia, Stendhal e la Sicilia, Palermo, Sellerio, 1983; N.F. Poliaghi, Stendhal e Trieste, Firenze, Olschki, 1984; M. Bertela, Stendhal et l’autre: l’homme et l’oeuvre à travers l’idée de feminité, Firenze, Olschki, 1985; M. Crouzet, Nature et société chez Stendhal: la révolte romantique, Villeneuve d’Ascq, Presses Universitaires de Lille, 1985; G.F. Grechi, Stendhal e Manzoni, Palermo, Sellerie 1987; A. Bottacin, La felicità di Stendhal, Firenze, Olschki, 1988; M. Crouzet, Stendhal: il signor me stesso, edizione italiana a cura di M. Di Maio, Roma, Editori riuniti, 1990; A. Bottacin, Stendhal: labirinto dell’illusione, Chieti, Solfanelli, 1992; J. Goldzinla, Stendhal: l’Italie au coeur, Paris, Gallimard, 1992; S. Serodes, Les manuscrits autobiographiques de Stendhal: pour une approche sémiotique, Genève, Droz, 1993; V. Brombert, Stendhal: romanzo e temi della libertà, Bologna, Il mulino, 1994; R. Coiomb, Stendhal, mio cugino, a cura di G. Scaraffia, Palermo, Sellerie 1996; A. Paupe, Histoire des oeuvres de Stendhal, introduction par C. Stryienski. Genève, Slatkine, 1998; M. Di Maio, Stendhal: intérieurs, Fasano, Schena, 1999; L. Sciascia, L’adorabile Stendhal, a cura di M. Andronico Sciascia, con un saggio di M. Colesanti, Milano, Adelphi, 2003.

    Sulla Certosa di Parma

    C.A. Borgese, «Nota alla Certosa di Parma», in Il Convegno, n. 8-10, 1829; M. Barrès, «L’automne à Parme», in Le Journal, 13 ottobre 1893 (poi raccolto in Du sang, de la volupté et de la mort); L. Foscolo Benedetto, La Chartreuse noire. Firenze, Institut francais de Florence, 1947; L. Foscolo Benedetto, La Parma di Stendhal, Firenze, Sansoni, 1950: M. Proust, «Notes sur Stendhal», in Contre Sainte-Beuve, Paris, Gallimard, 1980; J.-P. Santerre, Leçon littéraire sur La Chartreuse de Parme de Stendhal, Paris, PUF, 2000.

    IL ROSSO E IL NERO

    Cronaca del 1830

    PRINCIPALI TRADUZIONI ITALIANE DE Il rosso e il nero

    Istituto Editoriale Italiano, Milano 1913, trad. di M. Bontempelli; poi Bietti, Milano 1933.

    Vallecchi, Firenze 1931, 1954, trad. di Alfredo Fabictti; poi Mondadori, Oscar Mondadori, Milano 1990.

    Bianchi Giovini, Milano 1945, trad. di U. Dottore; poi Rizzoli, Milano 1950.

    Casini, Firenze 1956, trad. di G. Marcellini; poi Casa del Libro, 1989.

    Cremonese Ed., Roma 1957, trad. di C. Fusero.

    UTET, Torino 1958, trad. di Velia Donadei Giacosa.

    Sansoni, Firenze 1970, trad. di D. Valeri.

    Rizzoli, Milano 1980, trad. di M. Parizzi e P. Cosomano, a cura di P.G. Castex.

    Einaudi, Torino 1981, trad. di D. Valeri.

    Garzanti, Milano 1990, trad. di M. Lavagetto.

    Introduzione

    Il gusto della citazione, l’interesse per la storia, la settecentesca e vivace curiosità, portano Stendhal a visitare con costanza le cronache della Gazette des tribunaux, un archivio sempre aperto alla sua generosa volontà di conoscere i costumi, gli atti, le passioni della società e dell’uomo del tempo. Proprio perché questo archivio non chiude le porte alla scrittura, Stendhal ne preleva, gesto affatto singolo, alcune carte che registrano un fatto realmente accaduto e che diventano l’input e la prima tessitura de Il rosso e il nero, romanzo in cui appunto la storia e il racconto si toccano. Il fatto, coronato dalla condanna a morte emessa dalla Corte d’assise di Grenoble il 15 dicembre 1827 e dalla seriore esecuzione, è così recitato nella cronaca: Antonio Berthet, seminarista figlio d’artigiano, aveva svolto la mansione di precettore presso i signori Michaud e de Cordon. Aveva circuito e sedotto la moglie del primo e la figlia del secondo. Cacciato dal seminario, folle di ambizione e gelosia, aveva ferito la signora Michaud nella chiesa di Brangues cercando poi di uccidersi. La decapitazione avviene nel febbraio 1828, la Gazette la registra nel dicembre del medesimo anno.

    Il rosso e il nero comincia il proprio cammino agli inizi del 1830. Questa successione di date indica come il filo-guida della narrazione giunga da una serie di spostamenti: parte da un reale (il fatto), è mediato da una scrittura (la notizia stampa), concorre alla produzione del testo (il romanzo). La società, l’informazione, l’invenzione, qui pongono in attività i propri codici e li embricano. Se l’atmosfera di esatta e minuziosa conoscenza delle condizioni culturali, politiche, economiche del tempo, entra a far scrittura, rimane da scoprire come può operarvi la biografia dell’autore.

    La portata storica, veicolata dalla serie di spostamenti, permea il romanzo causando una dimenticanza e una novità: il fatto, già sostituito nel documento, viene scordato e deviato nel racconto che è la nuova realtà: la portata storica cede spazio al realismo stendhaliano. Una questione di stile. Anche al chi è lo scrittore de Il rosso e il nero, occorre rispondere con prudenza e acutezza. Stendhal è lo pseudonimo di Marie-Henri Beyle, la dislocazione di un nome. Un nome che pertiene alla fisicità della vita, alla genealogia, si slaccia nel suo altro che appartiene alla fisicità della scrittura, alla filologia. All’inizio, si badi, è un supplemento, il che la dice lunga sull’inappagante del vissuto: un pessimo rapporto con il padre, agiato borghese, un amore fortissimo per la madre prematuramente toltagli dalla morte, un’infanzia tesa tra le pulsioni di odio e amore, una reazione intensa ai miti politici paterni, l’abbraccio del patriottismo repubblicano, l’avversione alla Chiesa, l’inquieta ambizione, il viaggio verso il nome. Questi stati e dinamiche della coscienza vengono dirottati a caratterizzare i personaggi de Il rosso e il nero: il genitore negativo di Julien Sorel, l’ambiente scenico, alcune tipologie degli attori del racconto indicano come il vissuto si sia riversato in una riscrizione nel testo e come il testo autorizzi ora il nome di Stendhal in quanto autore e finalmente padre della vicenda. Di Bey le rimane l’alone che connota il modus vivendi, il «beylismo» pure non ignoto al personaggio Sorel: l’egotismo, il culto dell’io, la volontà, l’autoanalisi secca e appassionata. Gli aspetti delineati invitano alla conoscenza della trama e la trama non sarà che l’esca per ulteriori aperture.

    Nel paese o luogo immaginario di Verrières, il figlio di un carpentiere, Julien Sorel, durante le pause del lavoro manuale segue le lezioni di Latino del curato del borgo e si dà alla lettura delle Confessioni di Rousseau e del Memoriale di Sant’Elena. Il padre lo odia, i fratelli lo disprezzano, il sacerdote cerca di avvicinarlo al Seminario. Viene scelto, in qualità di precettore dei figli, dal sindaco signor di Rênal. Entra nelle simpatie del sindaco, dei figli, della giovane moglie con cui allaccia una relazione forte e contraddittoria. Da una parte la signora di Rênal vive la propria passione tra fuoco e senso di colpa, dall’altra Julien unisce il fuoco al calcolo e al senso di arrivo. L’amore, turbato da fughe di notizie e pettegolezzi, accende la reazione del marito e Julien, allontanato, entra nel Seminario di Besançon. Qui incontra l’abate Pirard che, una volta preso presidio di una parrocchia parigina per decisione del marchese de La Mole, favorisce l’assunzione di Julien in veste di segretario presso il nobile. E l’inizio del libro secondo, per molti tratti simmetrico al primo. Julien, mentre matura la personale educazione formale, si colora del fascino dell’atipico agli occhi di Mathilde, figlia del de La Mole, che, annoiata dalla consuetudine di corteggiamenti usuali, s’innamora e si concede al Sorel. La relazione è punteggiata da dubbi, intermittenze di sentimenti, paure, gelosie ed evidenzia la chiusura che Julien fa del proprio godimento con l’innata ambizione. Mathilde, al contrario, anche in vista della maternità, apre vieppiù il suo discorso affettivo e si confida con il padre chiedendo le nozze. Quest’ultimo in parte acconsente, per altra temporeggia in attesa della risposta alle informazioni sul futuro genero richieste alla signora Rênal. Le informazioni giungono e dipingono Julien come indegno arrivista. Julien, cui ovviamente il mondo è crollato addosso, parte alla volta di Verrières e, in chiesa, scarica sulla signora Rênal due colpi di pistola ferendola. Arrestato, incarcerato, processato, con un’arringa sprezzante chiama a sé la condanna mortale. La sua testa è recisa e seppellita da Mathilde sul Giura. La signora di Rênal muore di dolore. Fin qui la trama.

    La trama, può suggerire il titolo? Qualcosa nella fabula è allusivo del sintagma Il rosso e il nero? Può darsi. Tale non asserzione è d’obbligo da che il testo di Stendhal, pur essendo uno, è sovente spostato e pure il titolo potrebbe dimostrarsi come possibile. Si tratta ancora una volta del gioco del narratore, forse di quello «stendhaliser» o scandalizzare che all’autore tanto piace: ludus che ora non investe il nome ma il ductus, l’opera. Si sa che la prima titolazione è Julien e che Il rosso e il nero interviene già in corso di stampa, nel maggio 1830. Sappiamo, noi, che il nome del personaggio posto a titolo è spesso l’imago del progetto del romanzo, del processo della scrittura, del punto di vista che la guida. L’aver sostituito il nome con un duplice emblema può allora dire di un doppio punto di vista (narratore e personaggio) e di un senso plurale del titolo. Generalmente si crede che opponga il nero talare al rosso militare o giacobino, che Julien avrebbe potuto essere uomo d’armi ed è diventato prete, che il rosso, simbolo della passione, e il nero, simbolo della morte, distinguano, nella e congiuntiva e disgiuntiva le due parti del libro. Senz’altro tali esercitazioni del commento concorrono alla definizione del romanzo che è, però e soprattutto, un romanzo d’amore. E come tale va considerato e insediato nella letteratura del tempo.

    Il teatro letterario del periodo si spalanca sulla scena romantica, ma l’atmosfera, che pure si respira ne Il rosso e il nero dalla passione al motivo della testa mozzata, ha, nella particolare isotopia del «libro primo» e del «libro secondo», un colore tutto personale. L’amore stendhaliano è desiderio e ragione di vita. Nel desiderio trova il completamento materno dell’affetto, nella ragione il superamento della condizione sociale ereditata dal padre. L’ostacolo è l’io che manca il compimento e rende divergenti le due tensióni. Il dramma e l’eroismo, qualità del personaggio, stanno in questo nodo. Nel rapporto tra Julien e la signora Rênal funziona maggiormente la prima tensione; in quello tra il protagonista e Mathilde, la seconda. L’io esplode quando sia l’una che l’altra vengono azzerate dal de La Mole. Il soggetto che spara, attraversa la figura della di Rênal e in realtà uccide se stesso. Nella tipologia del romanzo il Romanticismo è allora un fenomeno di aura. Passa però in quest’aura, e passa per seminarvi novità, una pista diegetica che non ha precedenti. Dalla forza, dall’energia del nodo dei rapporti si dirama una descrizione ambientale e sociale la cui accuratezza e precisione storica e la cui capacità di articolarsi in situazione non sono seconde ad altro tratto. Tale limpidezza fa della scrittura il saldo del debito tra il testo e l’impostazione della voce autoriale. Il realismo di Stendhal è un fatto di linguaggio.

    Eredità illuministica, filosofia materialistica, aura romantica, performance realistica, stagliano il rilievo stendhaliano che da sé si pone oltre i periodi, le correnti, i movimenti. La duplicità che etichetta Stendhal quale intelligenza lucida e chimerico sognatore, è in realtà una molteplicità, uno stemma plurale. Questa pluralità concorre alla voce, alla voce che narra. E la voce è un soffio, un respiro costante. «Spirito» che alita sulla materia e le dà la forma, pneuma fabbricatore di mondi intendibili e attendibili, promana da un narratore che sa, che prepara, che anticipa il dipanarsi degli eventi, che conforta il lettore, che visita la scena con l’astuzia dell’abitare, del far dimora negli occhi del protagonista, suo dimensionamento. Il campo che si distende nelle anticipazioni, nella prolessi, negli annunci evenemenziali, si restringe quando il personaggio entra in scena. Questa oscillazione fonda il ritmo del narrare. Non è ancora una allure, un’andatura. Perché accada e inizi a verbalizzare lo spartito occorrono due incidenze: una testuale, l’altra pragmatica. La prima rimanda alla naturalezza espressiva, a un tempo che è deriva del racconto, all’eleganza dialogica e al suo celarsi nell’indirezione; la seconda si installa nell’avocare il lettore. Un lettore non ancora ipocrita, o complice, ma amico, partecipe della luce con cui l’autore rischiara il territorio del segno. Il lettore, allora, diventa artefice del gioco e suo coproduttore. Se a questo gioco qui mancano i nomi di Rousseau, Flaubert, Balzac è per intento preordinato dal prefatore: una marca, un segnale che traccia la distanza di qualità.

    Alberto Cappi

    Prefazione

    Il rosso e il nero vuol dire: entusiasmo e ipocrisia, l’eroico e il subdolo, Napoleone e i Gesuiti. È il romanzo della generazione ch’era stata giovine con Napoleone e passava l’età matura sotto la restaurazione.

    Questa generazione è rappresentata in Julien Sorel. E Julien è Stendhal, è essa generazione, e qualche cosa in più, qualche cosa di molto individuale, di molto singolare. In realtà la breve vita di Julien Sorel è molto diversa da quella, assai più lunga e varia, di Stendhal; pure questo romanzo è una specie di autobiografia: un’autobiografia potenziale; quello che Stendhal sentiva che avrebbe potuto essere la sua vita, s’egli fosse nato qualche anno più tardi.

    Stendhal, o, per chiamarlo col suo vero nome Henry Beyle, perduta la madre nei primissimi anni, era vissuto fino al sedicesimo nella città nativa, Grenoble, tra il padre, magistrato di provincia, subdolo, arido, chiuso, e una zia materna, ipocrita, dispotica, collerica. Arrigo aveva nausea della sua città, disprezzava il padre, odiava la zia, si fastidiva di tutti quelli che lo circondavano. Quanto si vedeva attorno, quanto si sentiva pensare attorno, l’opprimeva. S’abituò a desiderare e pensare sistematicamente in contraddizione con tutto ciò che gl’insegnavano. Il padre, la famiglia, gli amici della famiglia, quasi tutto il paese, erano quanto poteva esservi di provinciale, di borghese, di comune: bigotti, avari, retrogradi, senza amore, senza simpatia. Henry si isolò. Il suo carattere e il suo pensiero si svolsero per contraddizione ostinata: egli si trovò naturalmente rivoluzionario, giacobino, ateo; ma ciò, per necessità, in secreto, in diffidenza di tutto e di tutti: onde la asprezza.

    Nell’isolamento aspro cui si trovava cosi costretto, l’indole e la consuetudine del pensiero si svolsero solamente in intensità, ritraendosi dalle sensazioni del mondo esteriore sempre più esclusivamente verso l’interno, verso l’anima, verso i menomi movimenti del meccanismo dell’anima.

    Isolamento, intensità, interiorità, negli spiriti; apparente aridità nelle forme: questi, che sono i caratteri che rimarranno più singolari e permanenti di tutta l’arte di Stendhal, si fissano nella trista malvoluta e diffidente adolescenza di Henry Beyle.

    A sedici anni andò a Parigi, a diciassette - era il 1800 - seguì l’esercito di Napoleone in Italia.

    Allora il suo desiderio d’opera e d’entusiasmo, fino allora compresso, traboccò. L’uomo d’azione ch’era in lui si manifestò d’un tratto, suscitato dal gesto dell’eroe portentoso che animò a quel modo più d’una generazione. Beyle combatté a Marengo, seguì, più o meno da vicino a seconda delle circostanze, tutta la fortuna dell’Imperatore, intendente d’esercito in tempo di guerra, uditore nel Consiglio di Stato in tempo di pace: gli anni dal 1806 al 1814 furono per lui un periodo libero ed eroico: amò, viaggiò, combatté. Ebbe una parte importante nella spedizione di Russia. Non pensava a scrivere. Amava la lotta e il pericolo: adorava le donne e Napoleone.

    Fu una luce breve.

    La caduta di Napoleone troncò tutti i nervi al suo spirito, alla sua energia, alla sua vita. Aveva trentun anni. La restaurazione lo trovò e l’ebbe poi sempre nemico implacabile; essa era il trionfo di tutto ciò ch’egli aveva imparato a odiare da fanciullo: il pregiudizio aristocratico, l’affarismo borghese, l’ipocrisia provinciale e clericale.

    Quest’improvviso senso di desolazione fu lo stato d’animo non del Beyle soltanto, ma di quasi tutti i suoi coetanei. Alla vita rapida ed eroica, ricca e febbrile, continuamente mutevole, facile all’ascensione pur che l’animo fosse audace e lo spirito pronto, succedeva il regno del regolare, del comune, del quotidiano. Era uscire da un bel sogno di fiamme e d’ardore, piombare nel tedio più nero d’una prigione ove i giorni passano uguali, regolati da un meccanismo invisibile e implacabile, senza più nessun luogo all’imprevisto. Nella chimica della vita sociale, era, almeno in apparenza - e quei soldati non erano storici sottili e giudicavano la prima apparenza - la sottana del prete, che si sostituiva alla divisa sfolgorante del soldato.

    E Stendhal si ritrovò nuovamente solo, com ‘era stato nell’adolescenza: isolato, come allora, in un mezzo odioso ed ostile. Immediatamente ripiomba dalla vita operosa, in continuo contatto con uomini che pensano o almeno operano come lui, nella solitudine inerte che non gli concede se non di contemplare se stesso, le parti più intime di sé. Non avendo niente, di meglio da fare, scrive: si descrive. Ed ecco l’ex dragone fa dei capolavori. Il rosso e il nero è un capolavoro: è il primo, e uno dei più belli, dei grandi romanzi francesi moderni, che sono una folta schiera.

    È un quadro di tempo: la monarchia e l’aristocrazia, la borghesia e il clero, il popolo e i politicanti, la provincia e la campagna e la capitale di Francia, quali lo Stendhal se li vedeva attorno durante il regno di Carlo decimo, e precisamente verso il 1830. Tutti quegli elementi egli li fa vivere e gravitare attorno ad un giovane, a Julien Sorel, la cui breve esistenza è dipinta con una continua cura di particolari nei menomi moti della complicatissima anima; ed è sempre risolutamente mantenuta sola e bene in luce nel primo piano del quadro. Anzi diremmo meglio, che il romanzo intero si svolge in Julien; tutto il resto, tutto quel mondo in sfacelo e in ricomposizione, è rappresentato solo in quanto è visto, appreso, sentito, subito, giudicato da Julien Sorel.

    E Julien Sorel è un’immagine fedele di tutti gli atteggiamenti intimi che Henry Beyle aveva avuto agio di studiare e di scoprire in se medesimo. È più giovane di lui: non ha potuto conoscere Napoleone di persona. Ma ne ha sentito parlare da fanciullo, e ha letto e riletto in segreto il Memoriale di Sant’Elena. E figlio d’un taglialegna della Franca Contea, ma l’odio di Julien per suo padre assomiglia molto all’odio filiale dell’adolescente Henry. Julien è un condannato al perpetuo isolamento, è un diverso, una creatura destinata a trovarsi inesorabilmente sola e a soffrirne e gloriarsene insieme, in uno stato di perpetua antipatia verso tutti i mezzi in cui passa: la plebe natia, la borghesia risalita e la piccola nobiltà nel villaggio, i preti nel capoluogo di provincia, l’aristocrazia di corte a Parigi; - cosi appunto come Stendhal, che anche de’ suoi commilitoni del tempo eroico aveva un senso di fastidio: «quelle creature grossolane, veri manichi di sciabola, che compongono un’armata». Atei l’uno e l’altro, giacobini in ritardo: Beyle e Sorel hanno una sola religione, una sola filosofia, una sola politica: Napoleone. Né l’uno né l’altro si curano di conciliare il proprio giacobinismo con gli entusiasmi per l’Imperatore in una costruzione che abbia almeno qualche apparenza di logica. Il loro giacobinismo è un fenomeno di pura reazione contro l’educazione gesuitica. Quanto a Napoleone, è il segno del loro bisogno d’energia. In più per Sorel è un punto d’appoggio alla sfrenata immaginazione.

    Perché questo è un altro elemento della complicatissima psicologia del protagonista del nostro romanzo: una immaginazione sempre sveglia, che precede ogni menomo atto, e frattanto si complica con la minutissima analisi del sentimento che esso atto prepara: immaginazione pur di natura cerebrale. Quanto in lui di logica arida, quanto di fantasia accesa, quanto d’altri elementi? Julien Sorel non si può definire in una formula: non si poteva che crearlo, e Stendhal lo ha creato lucidissimo e vivo: un miscuglio di sincerità e di ipocrisia, di logica e di fantasia, di studio e d’abbandono; un meccanismo complesso, per cui non sentiamo simpatia quasi mai, ma che seguiamo con un interesse intenso e vigile del suo giuoco immancabile. E nel giuoco lento e serrato la vita di Julien Sorel procede e ascende, ben calcolata, sicura, verso il suo fine. Ma infondo d’ogni animo umano c’è la passione, c’è la tendenza all’impeto, all’illogico. Questa energia Julien l’ha vinta sempre. Ma non l’ha eliminata: essa s’è venuta accumulando nei fondi bui dello spirito, nella regione dell’inconsapevole: scoppia a un tratto, inaspettatamente; interrompe il funzionamento del bel meccanismo; in un impulso di vendetta cieca, lo spinge con un urto improvviso al delitto: all’omicidio - e solamente tentato - più assurdo, più inutile, più illogico che possa immaginarsi. Julien è condannato a morte: gli ultimi giorni della sua vita ce lo mostrano trasfigurato, e pur coerente con tutto quello ch'egli è stato per l’innanzi: solo alcuni ingranaggi della macchina vengono a mancare, mancando la necessità di vivere e di arrivare, ch'era stata la direttiva e il centro di tutta l’azione precedente. Il disdegnoso isolamento di Julien s’illumina di una breve e tragica luce d’eroismo.

    Tale è nel suo schema questo romanzo, che al primo uscire (1831) passò quasi inosservato, che cinquant’anni dopo cominciò a parere un capolavoro, che oggi s’è messo definitivamente fra le maggiori creazioni dell’arte narrativa. Grandissimo per se stesso, ha un’importanza storica meravigliosa: precorse tutte le scuole e le maniere moderne; i naturalisti, i psicologi, gli ironisti, fanno tutti ugualmente capo all’opera stendhaliana in generale, e in particolare a questo romanzo.

    Altri trova maggiore La certosa di Parma, che è di qualche anno più tardi, e rappresenta al vivo gli intrighi d’una piccola corte italiana dopo il 1815. Certamente inferiore a questi due romanzi è tutto il rimanente dell’opera letteraria di lui: i molti e varii volumi con i quali cercò di riempire il vuoto ormai irrimediabile della sua vita, passata in gran parte in Italia, che considerò la sua vera patria; gli ozi d’una malinconica e poco brillante carriera consolare, le ore che i molti amori gli lasciavano libere.

    Dicendo che tutto il resto dell’opera sua è inferiore ai due romanzi che ho citati, lascio a parte come unico nel suo genere e singolarissimo quel trattato Dell’amore, che fu uno dei libri più letti negli ultimi decenni del secolo. Quando uscì, nessuno lo conobbe; nei primi quattordici anni ne furono vendute diciassette copie!... Ma Stendhal intendeva le ragioni del silenzio, e aveva una precisa prescienza della propria fortuna. Nel 1830 ebbe a scrivere in una lettera a Balzac: «Penso che non sarò letto avanti il 1880». Profezia non riuscì mai più miracolosamente esatta di questa.

    Massimo Bontempelli

    Libro primo

    I. Una città piccola

    La cittaduzza di Verrières può passare per una delle più graziose della Franca Contea. Le sue case bianche con i tetti a punta, di tegole rosse, si stendono sul declivio d’una collina, sulla quale boschi di vigorosi castagni segnano le minime sinuosità. Il Doubs scorre qualche centinaio di piedi al di sotto delle sue fortificazioni, costruite già dagli Spagnuoli, e oggi in rovina.

    Verrières è riparata verso nord da un’alta montagna, che dirama dal Giura. Le cime frastagliate del Verra si coprono di neve ai primi freddi dell’ottobre. Dalla montagna si precipita un torrente che attraversa Verrières prima di gettarsi nel Doubs, e dà movimento a una quantità di seghe da legname: industria assai semplice, che procura qualche agiatezza ai più degli abitanti, piuttosto contadini che borghesi. Tuttavia non le seghe arricchirono la piccola città. L’agiatezza generale che, dopo la caduta di Napoleone, ha permesso di rifare la facciata a quasi tutte le case di Verrières, è dovuta alla fabbrica di tele colorate.

    Al primo entrare nella città, vi stordisce il fracasso d’una macchina fragorosa e di terribile apparenza. Venti martelli pesanti sono alzati da una ruota mossa dall’acqua del torrente, e ricadono rumorosamente facendo tremare il suolo. Ognuno di questi martelli batte ogni giorno migliaia e migliaia di chiodi. Giovanette fresche e belle porgono ai colpi di questi martelli enormi i pezzettini di ferro che rapidamente sono trasformati in chiodi. Questo lavoro, così rude in apparenza, è uno di quelli che più meravigliano il viaggiatore che s’addentra per la prima volta nelle montagne che separano la Francia dalla Svizzera. Se, entrando in Verrières, il viaggiatore domanda a chi appartiene la bella fabbrica di chiodi che assorda tutti quelli che salgono per via Grande, si sente rispondere con un accento strascicato: – Eh! è del signor Sindaco.

    Per pochi momenti che il forestiere si trattenga sulla strada grande di Verrières, che sale dalla riva del Doubs fin verso il sommo della collina, c’è da scommettere cento contro uno che vi vedrà comparire un signore alto, con aria affaccendata d’uomo importante.

    Al suo giungere, tutti i cappelli si levano subito. I suoi capelli son quasi grigi, è vestito di grigio. E cavaliere di molti ordini; ha fronte alta, naso aquilino, nell’insieme il suo aspetto è abbastanza regolare: sembra persino, a prima vista, che esso congiunga alla dignità del Sindaco quella specie di garbo che può ancora trovarsi nell’uomo di quarantotto o cinquant’anni. Ma subito dopo il parigino è offeso da una cert’aria di compiacimento e di sufficienza, commista a qualcosa di inintelligente, e di poco geniale. Si sente, da ultimo, che l’ingegno di quell’uomo si limita a farsi pagare puntualmente quanto gli è dovuto, e a pagare per conto suo il più tardi possibile quando deve pagare.

    Tale è il Sindaco di Verrières, il signor Rênal. Dopo aver traversato la strada a passi gravi, entra al Municipio e scompare agli occhi del viaggiatore. Ma, continuando la passeggiata, questi, cento passi più su, scorge una casa di bell’aspetto, e, attraverso un cancello di ferro che continua la casa, un magnifico giardino. Più lontana, all’orizzonte, la linea delle colline borgognone, che par fatta ad arte per il piacere degli occhi. Questa veduta fa dimenticare al viaggiatore l’aria appestata di piccoli interessi economici da cui comincia a sentirsi asfissiato.

    Lo informano che quella casa è del signor Rênal. Il Sindaco di Verrières deve ai guadagni della fabbrica di chiodi la bella casa di pietra che è stata compiuta or ora. Dicono che la sua famiglia sia spagnuola, antica, e, si aggiunge, stabilita in paese assai prima della conquista di Louis XIV.

    Col 1815, egli ha cominciato ad arrossire di essere un industriale: il 1815 l’ha fatto Sindaco. Le muraglie che sostengono le varie parti del magnifico giardino che, di terrazza in terrazza, scende fino al Doubs, sono anch’esse frutto della abilità del signor Rênal nel commercio del ferro.

    Non v’aspettate di trovare in Francia quei giardini pittoreschi che circondano le città industriali tedesche: Lipsia, Francoforte, Norimberga, ecc. Nella Franca Contea, più muri si costruiscono, più si fa la propria terra irta di pietre accomodate le une sulle altre, più s’acquista diritto al rispetto dei vicini. I giardini del signor Rênal, pieni di muri, sono anche ammirati perché egli ha comperato a peso d’oro taluni piccoli pezzi del terreno ch’essi occupano. Per esempio, quella sega da legname, la cui situazione singolare vi ha colpiti entrando in Verrières, e sulla quale avete visto scritto Sorel a caratteri giganteschi su di una tavola che domina il tetto, occupava sei anni fa lo spazio su cui ora sta levandosi il muro della quarta terrazza dei giardini del signor Rênal.

    Nonostante il suo orgoglio, il Sindaco ha dovuto insistere molto presso il vecchio Sorel, contadino duro e testardo; e ha dovuto contargli i bei luigi d’oro per ottenere che trasportasse altrove la sua segheria. Quanto al ruscello pubblico che muoveva la sega, il signor Rênal, col favore di cui gode a Parigi, ha ottenuto che fosse deviato. Questa grazia gli fu data dopo le elezioni del 182*.

    Ha dovuto dare al Sorel, una quantità di terreno quattro volte maggiore, cinquecento passi più giù, sulla riva del Doubs. E, sebbene questa località fosse assai più propizia al suo commercio di tavole d’abete, papà Sorel – come lo chiamano da quando è ricco – ebbe l’abilità di ottenere dalla impazienza e dalla mania di proprietario, che animava il suo vicino, la somma di seimila lire.

    Vero è che questa conclusione fu criticata dalle teste forti del luogo. Una volta, una domenica, quattro anni fa, il signor Rênal, tornando dalla messa in abito da Sindaco, vide da lontano il vecchio Sorel, circondato da’ suoi tre figli, che sorrideva guardando verso lui. Questo sorriso ha fatto una luce fatale nell’animo del Sindaco: da quel giorno, egli non cessa di pensare che avrebbe potuto ottenere il cambio a miglior patto.

    Per conquistarsi a Verrières la pubblica stima, l’importante è di non servirsi, pur fabbricando molto e molto muro, di qualche piano importato dall’Italia dai muratori che la primavera traversano le gole del Giura per recarsi a Parigi. Una siffatta novità varrebbe all’imprudente proprietario un’eterna fama di testa stramba, ed egli sarebbe esautorato per sempre presso le persone sagge e moderate che hanno il monopolio della pubblica stima nella Franca Contea.

    Il realtà, costoro vi esercitano il dispotismo più tedioso; ciò appunto fa impossibile la dimora nelle città piccole a chi ha vissuto in quella gran repubblica che si chiama Parigi. La tirannia dell’opinione pubblica – e quale opinione! – è nelle piccole città di Francia idiota quanto negli Stati Uniti d’America.

    II. Un sindaco

    Fortunatamente per la reputazione del signor Rênal, come amministratore, un’immensa muraglia di sostegno era necessaria alla passeggiata pubblica che costeggia la collina un cento piedi più su del corso del Doubs. Essa deve a questa postura ammirevole una delle vedute più pittoresche della Francia. Ma ad ogni primavera le acque piovane solcavano la strada, vi scavavano frane, la facevano impraticabile. Questo danno, di cui tutti risentivano, mise il signor Rênal nella fortunata necessità di immortalare la propria amministrazione mediante un muro di venti piedi di altezza, lungo trenta o quaranta tese.

    Il parapetto di questo muro, – per cui il signor Rênal ha dovuto fare tre viaggi a Parigi perché il penultimo ministro s’era dichiarato nemico mortale della passeggiata di Verrières, – il parapetto di questo muro s’innalza ora di quattro piedi dal suolo. E, come per sfidare tutti i ministri presenti e passati, lo si viene guarnendo di lastre di pietra.

    Quante volte pensando ai balli di Parigi lasciati il dì innanzi, appoggiato a quei grandi massi di pietra di un bel grigio azzurrastro, i miei sguardi si sono sommersi nella vallata del Doubs! Di là, sulla riva sinistra, serpeggiano cinque o sei valli in fondo alle quali l’occhio scorge benissimo i ruscelletti. Corrono di cascata in cascata e vanno a gettarsi nel Doubs. Il sole è assai caldo tra queste montagne, quando piomba diritto; ma sulla terrazza la contemplazione del viaggiatore è protetta da platani magnifici. Questi debbono il loro rapido crescere e il loro bel verde azzurro alla terra che il Sindaco ha fatto trasportare qua e porre dietro la immensa muraglia di sostegno; poiché egli, nonostante l’opposizione del consiglio municipale, ha allargato la passeggiata di oltre sei piedi (sebbene egli sia ultra, ed io liberale, ne lo lodo; nell’opinione sua e in quella del signor Valenod, il fortunato direttore del Ricovero di mendicità di Verrières, questa terrazza può sostenere il paragone con quella di Saint-Germain-en-Laye).

    Per conto mio, ho un solo appunto da muovere al corso della Fedeltà (si legge questo nome ufficiale in quindici o venti punti, su targhe marmoree che meritarono una croce di più al signor Rênal): gli rimprovero il modo barbaro con cui l’autorità fa recidere e tondere fino al vivo quei platani vigorosi. Invece di ricordare, con le loro teste basse, rotonde e piatte, la più volgare delle verdure da orto essi agognerebbero a quell’aspetto magnifico che i loro simili hanno in Inghilterra. Ma la volontà del signor Sindaco è dispotica, e due volte l’anno tutti gli alberi di proprietà del Comune sono spietatamente amputati. I liberali del luogo sostengono – ma è un’esagerazione – che la mano del giardiniere ufficiale è diventata molto più severa da quando il vicario di Maslon ha preso l’abitudine d’impossessarsi dei prodotti del taglio.

    Questo giovane ecclesiastico fu mandato da Besançon, or è qualche anno, per sorvegliare l’abate Chélan e alcuni curati dei dintorni. Un vecchio chirurgo dell’armata d’Italia, in ritiro a Verrières, che era, a detta del Sindaco, giacobino, insieme e bonapartista, osò un giorno lamentarsi con lui della mutilazione periodica di quei belli alberi.

    – Amo l’ombra – rispose il signor Rênal con una sfumatura di alterigia, opportunissima quando si parla a un chirurgo, membro della Legion d’onore; – amo l’ombra, faccio tagliare i miei alberi per dare ombra, e non ammetto che un albero sia fatto per altro scopo, quando, come l’utile noce, non rende alcun frutto.

    Ecco la gran parola che conclude tutto a Verrières: render frutto; parola che, sola, rappresenta il pensiero consueto di più di tre quarti dei cittadini.

    Render frutto è la ragione che risolve ogni cosa in questa piccola città che vi pareva così graziosa. Il forestiero che vi giunge, sedotto dalla bellezza delle fresche e profonde vallate che la circondano, s’immagina in sulle prime che gli abitanti siano sensitivi al bello; essi parlano anche troppo della bellezza del loro paese, non si può negare che non ne facciano assai caso; ma la ragione è che quella bellezza invita qualche forestiero il cui danaro arricchisce gli albergatori, il che, mediante il meccanismo del dazio comunale, rende alla città.

    Era un bel giorno d’autunno, e il signor Rênal passeggiava sul corso della Fedeltà, tenendo a braccio la sua signora. Mentre ascoltava il marito che discorreva gravemente, la signora Rênal seguiva inquieta con l’occhio ogni movimento di tre fanciulli. Il maggiore, sugli undici anni, si avvicinava troppo spesso al parapetto e mostrava di volervi salire. Una voce dolce chiamava allora: Adolphe, e il fanciullo rinunciava al disegno ambizioso. La signora Rênal mostrava una trentina d’anni, ed era ancora bella.

    – Potrebbe darsi che se ne pentisse, questo bel parigino – diceva il signor Rênal con aria offesa, più pallido ancora del consueto. – Non mi mancano amici in alto...

    Ma sebbene io abbia l’intenzione di parlarvi della provincia per duecento pagine, non avrò la crudeltà di farvi sopportare la lunghezza e i saggi avvolgimenti d’un dialogo provinciale.

    Il bel signore parigino, così odioso al Sindaco di Verrières, non era che il signor Appert, il quale, due giorni innanzi, aveva trovato il modo di introdursi non soltanto nella prigione e nel Ricovero di mendicità di Verrières, ma anche nell’ospedale amministrato gratuitamente dal Sindaco e dai principali proprietari del luogo.

    – Ma – diceva timidamente la signora Rênal – che male può farvi questo bel parigino, visto che voi amministrate le sostanze dei poveri con la più scrupolosa onestà?

    – Quella gente là non viene che per spandere il biasimo; farà mettere degli articoli nei giornali liberali.

    – Voi non li leggete mai.

    Ma ce ne parlano, di quegli articoli giacobini; questo ci distrae e ci impedisce di fare il bene. Quanto a me, non potrò mai perdonarla al curato.

    III. Le sostanze dei poveri

    Bisogna sapere che il curato di Verrières, vecchio di ottant’anni, ma che doveva all’aria di quelle montagne una salute e un carattere di ferro, aveva il diritto di visitare a qualunque ora la prigione, l’ospedale, e anche il Ricovero di mendicità. Il signor Appert, che veniva da Parigi con una commendatizia per il curato, aveva avuto la saggezza d’arrivare appunto alle sei del mattino in quella piccola città di gente curiosa. E subito era andato al presbiterio.

    Leggendo la lettera di presentazione del marchese di La Mole, pari di Francia, il più ricco proprietario della provincia, il curato Chélan si fece pensieroso.

    – Sono vecchio, e qui mi voglion bene – disse finalmente a mezza voce a se stesso: – non oserebbero!

    Volgendosi poi subito al parigino con uno sguardo nel quale, nonostante l’età, ardeva quel fuoco sacro che preannunzia il piacere di compire una bella azione alquanto pericolosa:

    – Venite con me, signore; e in presenza del carceriere e soprattutto dei sorveglianti del Ricovero, non manifestate alcun giudizio sulle cose che vedremo.

    Il signor Appert intese che aveva a che fare con un uomo di cuore; seguì il venerando curato, visitò la prigione, l’ospizio, il Ricovero, fece molte domande, e, nonostante strane risposte, non si permise il più piccolo segno di biasimo.

    La visita durò parecchie ore. Il curato invitò a pranzo il signor Appert, che si scusò dicendo di dover scrivere alcune lettere: non voleva compromettere di più il suo generoso compagno. Verso le tre essi andarono a finire la loro ispezione al Ricovero di mendicità, poi tornarono alla prigione. Ivi trovarono sulla porta il carceriere, una specie di gigante alto sei piedi su due gambe arcuate; il suo viso ignobile si fece mostruoso di paura.

    – Ah signor curato – gli disse vedendolo – questo signore che è con voi è forse il signor Appert?

    – Che v’importa? – disse il curato.

    – Perché fin da ieri io ho l’ordine preciso (lo ha mandato il signor Prefetto per un gendarme che ha galoppato tutta la notte) di non introdurre il signor Appert nella prigione.

    – Signor Noiroud – disse il curato – vi dichiaro che questo forestiero che è con me è il signor Appert. Riconoscete voi ch’io ho il diritto di entrare nella prigione a qualunque ora del giorno e della notte, facendomi accompagnare da chi mi pare?

    – Sì, signor curato – disse il carceriere sottovoce, abbassando la testa come un mastino che ubbidisce a malincuore per paura del bastone. – Soltanto, signor curato, io ho moglie e figli: se mi denunciano, sarò destituito; non ho che il mio impiego per vivere.

    – Sarei altrettanto addolorato di perdere il mio – rispose il buon curato, con voce sempre più commossa.

    – C’è differenza! – replicò vivacemente il carceriere. – Voi, signor curato, sappiamo che avete ottocento lire di rendita, della buona terra al sole...

    Tali sono i fatti che, commentati, ed esagerati in venti maniere diverse, agitavano da due giorni tutte le passioni astiose della piccola Verrières. Essi servivano ora di testo alla piccola discussione tra il signor Rênal e sua moglie. La mattina, egli, seguito dal signor Valenod, direttore del Ricovero, era andato dal curato per attestargli il suo vivo malcontento. Lo Chélan non aveva protettori: sentì tutta la portata di quelle parole.

    – Ebbene, signori: sarò, a ottant’anni, il terzo curato che si destituirà in questi dintorni. Sono qui da cinquantasei anni, ho battezzato quasi tutti gli abitanti della città, che non era che un borgo quand’io ci venni. Unisco tutti i giorni in matrimonio dei giovani, di cui ho unito in matrimonio i nonni. Verrières è la mia famiglia; pure, vedendo questo forestiero, mi son detto: «Quest’uomo, venuto da Parigi, può in verità essere un liberale, e ce ne son troppi davvero; ma che male può fare ai nostri poveri e ai nostri prigionieri?».

    I rimproveri del Rênal, e soprattutto quelli del Valenod, direttore del Ricovero, facendosi sempre più vivaci:

    – Ebbene, signori, fatemi destituire – aveva gridato il vecchio prete con voce tremante. – Non per questo lascerò il paese. Sapete che, quarant’otto anni fa, ho ereditato un campo che mi rende ottocento lire; vivrò di questa rendita. Non fo economie nel mio ufficio, io, signori miei, ed è forse questa la ragione per cui non mi spavento quando si parla di farmelo perdere.

    Il signor Rênal andava molto d’accordo con sua moglie; ma non sapendo che rispondere a ciò ch’ella gli ripeteva timidamente: «che male può fare ai prigionieri quel parigino?», egli stava per andare in collera, quand’ella gettò un grido. Il secondo de’ suoi bambini era salito sul parapetto della terrazza e vi stava correndo, sebbene questo muro fosse alto più di venti piedi sopra la vigna che è dall’altra parte di esso. La paura di spaventare il figlio e di farlo cadere tratteneva la signora dal rivolgergli la parola. Finalmente il fanciullo, che rideva della propria prodezza, avendo guardato la madre, ne vide il pallore: saltò sulla strada e corse a lei. Fu rimproverato assai.

    Questo piccolo avvenimento cambiò il corso della conversazione.

    – Voglio prendere in casa Sorel, il figlio del segatore – disse il signor Rênal; – sorveglierà i ragazzi, che cominciano a diventare troppo indemoniati. È un giovane prete o qualcosa di simile, buon latinista, che farà fare dei progressi ai ragazzi, perché, a quanto dice il curato, è di carattere fermo. Gi darò trecento lire e il vitto. Avevo qualche dubbio sulla sua moralità, perché era il beniamino di quel vecchio chirurgo, membro della Legion d’onore, che col pretesto di esser loro cugino, era venuto a mettersi a dozzina presso i Sorel. Costui poteva benissimo non essere che un agente segreto dei liberali; diceva che l’aria delle nostre montagne faceva bene alla sua asma; ma ciò non è provato. Aveva fatto tutte le campagne di Buonaparte in Italia, e, si dice, aveva a suo tempo votato contro l’impero. Questo liberale insegnava il latino al figlio di Sorel, egli aveva lasciato tutti i libri che s’era portati. Perciò non avrei mai pensato a mettere il figlio del taglialegna accanto ai nostri; ma il curato, proprio il giorno avanti la scena che ci ha inimicati per sempre, m’ha detto che questo Sorel studia la teologia da tre anni, con l’intenzione di entrare in seminario; dunque non è un liberale, ed è latinista.

    E guardando la moglie con aria diplomatica, aggiunse: – Quest’accomodamento è conveniente, per più ragioni. Il Valenod è orgoglioso dei due bei normanni che ha comperati per il suo calesse. Ma non ha precettori per i figli.

    – Potrebbe portarci via questo.

    – Tu dunque approvi la mia idea? – disse il Rênal, ringraziando con un sorriso la moglie dell’ottima osservazione. – Allora è cosa stabilita.

    – Mio Dio! come fai presto a risolverti!

    – Perché ho del carattere, io, e il curato l’ha visto. Non dissimuliamoci nulla: noi qui siamo circondati di liberali. Tutti questi mercanti di tela m’invidiano, ne son certo. Due o tre diventano dei ricconi: ebbene, sono molto contento che vedano passare i figli del signor Rênal quando vanno a passeggio condotti dal loro precettore. Ciò imporrà loro. Mio nonno ci raccontava spesso che, da giovane, aveva avuto un precettore. Saran cento scudi che mi costerà, ma questa va presa come una spesa necessaria per sostenere il nostro decoro.

    Questa risoluzione subitanea lasciò la signora Rênal molto pensosa.

    Era una donna alta, formosa; era stata la bellezza del paese, come si dice in quelle montagne. Aveva una certa aria di semplicità, e un parigino avrebbe riconosciuto della giovinezza nel suo modo di camminare; quella grazia ingenua, piena di innocenza e di vivacità, avrebbe potuto perfin suggerire idee dolcemente voluttuose. Se si fosse fatta un’idea di quest’impressione, la signora Rênal ne avrebbe avuto vergogna. Né civetteria né ambizione avevano mai raggiunto il suo cuore. Si diceva che il Valenod, il ricco direttore del Ricovero, le avesse fatto la corte, ma senza successo, e ciò aveva gettato una luce singolare sulla sua virtù, poiché il Valenod, giovane aitante, tutto forza, con un viso acceso e grandi favoriti neri, era una di quelle persone grossolane, sfrontate e rumorose che in provincia si chiamano uomini belli.

    La signora Rênal, molto timida e di carattere apparentemente ineguale, era soprattutto tediata dal continuo muoversi e dagli scatti di voci del Valenod. Lo starsi appartata da tutto ciò che a Verrières si chiama gioia, le aveva valso la reputazione d’essere molto orgogliosa della sua nascita. Ella non pensava a ciò, ma era stata molto contenta di vedere che gli abitanti della città la frequentavano meno. Non vogliamo tacere che ella passava per sciocca agli occhi delle signore, perché, senza alcuna politica riguardo a suo marito, si lasciava sfuggire le più belle occasioni per farsi comperare dei bei cappelli di Parigi o di Besançon. Purché la lasciassero vagare sola nel suo giardino, non si lamentava mai.

    Era un’anima ingenua, che mai s’era permessa di giudicare il marito, né di confessarsi ch’egli la annoiava. Supponeva, senza dirselo, che tra marito e moglie non potessero passare rapporti più dolci dei loro. Il Rênal le piaceva soprattutto quando le parlava de’ suoi disegni sui loro figli, dei quali il primo era da lui destinato alle armi, il secondo alla magistratura, e il terzo alla chiesa. Nell’insieme, ella lo trovava molto meno noioso degli altri uomini che conosceva.

    Questo giudizio coniugale era ragionevole. Il sindaco di Verrières doveva una certa fama d’uomo di spirito, e soprattutto di buon gusto, a una mezza dozzina di piacevolezze che aveva ereditate da uno zio. Il vecchio capitano Rênal serviva, avanti la Rivoluzione, nel reggimento di fanteria del duca d’Orléans, e quando andava a Parigi era ammesso ai saloni del principe. Vi aveva visto la Montespan, la famosa signora di Genlis, Ducret. Questi personaggi riapparivano spesso negli aneddoti del signor Rênal. Ma a poco a poco il ricordarsi cose così fini da raccontare era diventato per lui un lavoro faticoso, e da qualche tempo egli ripeteva soltanto nelle grandi occasioni i suoi aneddoti intorno a casa d’Orléans. E poiché d’altro canto, quando non si parlava di denaro, era molto cortese, passava a ragione per la persona più aristocratica di Verrières.

    IV. Un padre e un figlio

    – Mia moglie ha veramente una gran testa! – diceva, il giorno dopo alle sei del mattino, il Sindaco di Verrières scendendo alla segheria di papà Sorel. – Sebbene io glielo abbia affermato, per conservare la superiorità che mi spetta, io non avevo proprio pensato che se non prendo questo piccolo abate Sorel, che sa, dicono, il latino come un angelo, quell’anima senza requie del direttore del Ricovero potrebbe avere la stessa idea e portarmelo via. Con quanta prosopopea parlerebbe del precettore dei suoi figli!... Chi sa se questo precettore porterà la sottana?

    Il signor Rênal era assorto in questo dubbio, quando scorse da lontano un contadino, alto circa sei piedi, che sin dall’alba, era intento a misurare certi pezzi di legno disposti lungo il Doubs. Il contadino non parve molto soddisfatto di veder avvicinarsi il Sindaco, poiché quel legno ostruiva il passo, e il luogo era soggetto a contravvenzione.

    Papà Sorel, perché era lui, fu molto sorpreso, e soprattutto contento, udendo la singolare proposta che il Rênal gli fece per il figlio Julien. Tuttavia lo stette a sentire con quell’aria di malinconia scontenta e di disinteressamento di cui l’astuzia di quei montanari sa così bene rivestirsi. Schiavi fino dal tempo della dominazione spagnuola, conservano ancora questo tratto della fisionomia dei fellah d’Egitto.

    La risposta del Sorel non fu da principio che una litania di tutte le formule d’ossequio che aveva in mente. Mentre andava ripetendo queste inutili parole, con un sorriso impacciato che accentuava l’aria di falsità e quasi di marioleria, naturale alla sua fisionomia, lo spirito indagatore del vecchio contadino cercava di scoprire quale ragione potesse spingere una persona così considerevole a voler prendersi in casa quel fannullone di suo figlio. Egli era molto malcontento di Julien; eppure era proprio per lui che il Rênal gli offriva il salario insperato di trecento lire l’anno, oltre il mantenimento e perfino il vestito. Questa ultima condizione che papà Sorel aveva avuto il genio di porre innanzi improvvisamente, era stata anch’essa accettata dal signor Rênal.

    Ma la richiesta colpì il Sindaco. – Poiché il Sorel non è felice ed entusiasta della mia offerta, come dovrebbe essere, è chiaro – si disse egli – che ha avuto offerte da un’altra parte; e da quale, se non dal Valenod? – Inutilmente il Rênal insistè perché l’altro concludesse subito; l’astuzia del vecchio contadino vi si rifiutò ostinatamente; diceva di voler consultare il figlio, come se in provincia un padre ricco potesse consultare un figlio nulla tenente, altro che per la forma.

    Una sega ad acqua è fatta con una tettoia sulla riva di un ruscello. 11 tetto è sostenuto da un’armatura appoggiata su quattro grossi pilastri di legno. A otto o dieci piedi d’altezza, nel mezzo della tettoia si vede una sega che sale e scende, mentre un meccanismo molto semplice spinge contro questa sega un pezzo di legno. Una ruota, messa in moto dal ruscello, move a sua volta questo doppio meccanismo: quello della sega che sale e scende, e quello che spinge pianamente il legno verso la sega, che lo divide in assi.

    Avvicinandosi alla sua officina, papà Sorel chiamò Julien con la sua voce stentorea; nessuno rispose. Egli non vide che i figli maggiori, specie di giganti che, armati di pesanti ascie, squadravano i tronchi di pino da portare alla sega. Seguendo esattamente il segno nero tracciato sui tronchi, ogni colpo d’ascia ne staccava pezzi enormi. Non sentirono la voce del padre. Il quale si diresse verso la tettoia; entrandovi, cercò inutilmente Julien al luogo che avrebbe dovuto occupare, accanto alla sega. Lo scorse cinque o sei piedi più in alto, a cavallo su uno dei travi del tetto. Invece di sorvegliare attentamente l’opera del meccanismo, Julien leggeva. Nulla era più antipatico di ciò al vecchio Sorel: forse egli avrebbe perdonato a Julien la sua persona smilza, poco adatta ai lavori di forza e così diversa da quella dei fratelli maggiori, ma questa manìa di leggere gli riusciva odiosa: era analfabeta.

    Invano chiamò Julien due o tre volte. L’attenzione con cui leggeva, più che il rumore della sega gl’impedì di sentire la voce terribile del padre. Finalmente, nonostante l’età, questi saltò rapidamente sull’albero che stava sotto la sega, e di là sul trave che sosteneva il tetto. Un colpo violento fece volare nel ruscello

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