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Slavia - N. 2 - 2019: Rivista trimestrale di cultura
Slavia - N. 2 - 2019: Rivista trimestrale di cultura
Slavia - N. 2 - 2019: Rivista trimestrale di cultura
E-book377 pagine5 ore

Slavia - N. 2 - 2019: Rivista trimestrale di cultura

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Info su questo ebook

Rivista di culture e lingue slave, nata nel 1992 ad opera di un gruppo di slavisti, docenti universitari, ricercatori e studiosi di varie discipline, intenzionati a promuovere inziaitive per approfondire la conoscenza del patrimonio culturale dei paesi di area slava.
Slavia è annoverata tra le pubblicazioni periodiche che il Ministero per i Beni e le Attività Cuturali considera "di elevato valore culturale".
LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2019
ISBN9788835324102
Slavia - N. 2 - 2019: Rivista trimestrale di cultura

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    Anteprima del libro

    Slavia - N. 2 - 2019 - Nikolaj Vasil'evič Gogol'

    Italia

    Celestino Spada

    IL RUSSO

    (Русский язык)

    La decisione di mettersi a studiare il russo era venuta un po’ da sé. Il francese lo sapeva abbastanza bene. Non erano stati anni buttati quelli delle medie, l’insegnante ad Arpino aveva fatto miracoli e ancora si ricordava la raccomandazione di stringere le ‘e’ che le tre anziane signorine di Metz gli avevano dato, a ginnasio finito, nel parco della pensione di Gardone Riviera. L’inglese, invece, non gli veniva. Sua madre glielo aveva imposto fin dalle elementari in un doposcuola triste – come il pianoforte: una fissazione di riempirgli le ricreazioni con altre cose da imparare – e non c’era ancora verso di fissarlo, l’inglese.

    I russi mandavano Gagarin nello spazio, guidavano i popoli raccolti nell’Unione Sovietica verso nuove mete, erano gli interlocutori privilegiati dei non allineati di Nehru, Zhou Enlai, Tito, Nasser, Sukarno. Un altro mondo nasceva, che voleva sfuggire alla stretta e portava aria fresca anche nei blocchi della Guerra Fredda. Qualcosa come il mattino del mondo si offriva ai suoi giovani occhi, certo non ignari delle sofferenze e atrocità che i parti e le infanzie dei popoli spargevano sulla Terra, come poteva vedere lì vicino in Algeria, ma decisi a far fronte alle sfide della storia in marcia. E poi c’era Chruščëv, con una mano sulla testa della rivoluzione cubana, che aveva denunciato lo stalinismo, liquidato il GULag, tolto Stalin dal mausoleo sulla Piazza Rossa, ed era impegnato a promuovere la coesistenza pacifica e l’apertura al mondo di un socialismo fatto di libertà e di nuove tecnologie, di progresso scientifico e di utilità collettive.

    Che da tutto questo dovessero venire le camminate con le quali raggiungeva dietro Via Salaria la casa della signorina Nikolsky, emigrata a suo tempo da San Pietroburgo – ma ora si chiamava Leningrado, anche se le dispiaceva – non era fra le necessità della storia, lo sapeva benissimo. Né a Bandung, né a Belgrado, né poi al XXII congresso del Pcus, una cosa del genere era stata prevista; eppure un legame c’era nella sua mente e nella sua scelta, senza soluzione di continuità, con il pulsare della vita e le prospettive che si aprivano ai nuovi paesi e all’avanguardia del mondo.

    Non è che ci pensasse molto a questa consonanza. Erano il sentimento e l’idea della sua parte, della parte che aveva scelto come sua nella vita e nel mondo, che assicuravano orizzonti vasti alla sua esistenza, così incerta e inquieta, e la presenza in lui e attorno a lui di moltitudini in lotta e in via di riscatto contro la povertà, lo sfruttamento, il colonialismo, il razzismo, negli sterminati continenti che i grandi Stati europei avevano assoggettato e fin dentro il corpo della potenza neo-coloniale che dalle Americhe si proiettava a sua volta nel mondo, nel suo paese, nella sua città. Non era solo: questo era sicuro. Le mappe e i percorsi della geografia e della storia, resi eloquenti dalle letture e soprattutto dalle corrispondenze di André Fontaine, gli squadernavano innanzi il mondo – le monde, the world, мир – mentre il suo sguardo si levava dalla pagina e vagava oltre le pareti della stanza o i tavolini dei caffè, cercando di tenere fermo il filo e la necessità degli eventi della cronaca, così casuali, così esemplari.

    Tutto si teneva. O almeno, si rendevano evidenti le strutture portanti che lanciavano sulla scena movimenti e individui e tenevano, e divenivano ogni giorno più robusti, i punti di aggancio e i tiranti del reticolo delle forze reali operanti nella società. Lo affascinava rintracciare nella realtà la relazione del particolare con l’universale e gli era anche accaduto, al termine di qualche seminario pomeridiano all’Istituto Gramsci, di cogliere in una luce abbagliante, e mai più poi neppure intravista, la corrispondenza quasi palpitante degli strumenti intellettuali e teorici che si veniva costruendo al respiro profondo della storia, la loro sintonia con le forze sociali e politiche che rendevano concreta la necessità oggettiva del suo divenire e in lui, in quello che lui pensava e sentiva allora, in quel momento, la percezione immediata, assoluta, del suo procedere.

    Era per lui, prima di tutto, un’avventura della mente e anche una sfida portata ai limiti di quanto fino ad allora l’umanità veniva sperimentando in un campo e nell’altro, una sfida dalle molte incognite e ad alta probabilità di riuscita – bisognava impegnarsi – nella quale potevano e dovevano essere utilizzate in piena libertà tutte le risorse disponibili, quelle umane e quelle della scienza e della tecnica. Imparando il russo, sarebbe entrato in contatto diretto con una delle realtà più interessanti, con gli artefici delle innovazioni e del progresso nel più promettente per lui dei centri propulsivi della modernità, il più accreditato per l’assenza di razzismo e per l’apertura ai popoli in lotta contro le potenze coloniali e contro la condizione di minorità in cui queste li avevano tenuti per tanto tempo.

    Scanditi dalla Nikolsky, i suoni delle nuove lettere e la loro diversa pronuncia nelle parole e nelle frasi si scolpivano nella sua mente e soprattutto nella glottide, insieme alle formule di saluto e alle solite scenette di conversazione quotidiana. Fra i suoi obiettivi più prossimi c’erano i versi più amati di Esenin e soprattutto Čechov con i suoi racconti – ne aveva già una piccola scelta in un’edizione davvero spartana, come si conveniva a un paese proletario – ma c’erano anche i testi di Pašukanis, che il suo professore stava traducendo, sul diritto e la legge per loro natura autonomi e non riducibili al comando politico e all’interesse di partito o di Stato. Una teoria marxista del diritto che era valsa all’autore, commissario del popolo alla giustizia nel 1936, di sparire nella purga staliniana del 1937 e di essere riabilitato nell’Urss del nuovo corso chruščëviano.

    Ma intanto non si andava oltre qualche frase di Čechov se lui proprio insisteva; teneva banco Sten’ka Razin con il suo vyplyvajut raspisnye Sten’ki Razina čelny e le filastrocche e i versi delle canzoni di un’infanzia dorata che aprivano il suo orecchio a nuove assonanze. Guardava quella donna irrigidita ravvivarsi nel volto e nel corpo, contrariata da errori e storpiature e dalla necessità di fermarsi per correggerli, ma quasi levitante nel dorso mentre seguiva i suoi ricordi e i suoi ritmi. Era capitato che si parlasse di danza, aveva cercato di dirle in russo e di descriverle le coreografie di Baryšnikov viste a Spoleto, e se n’era quasi pentito vedendo spegnersi il suo sguardo in un contegno grigio.

    La giovinezza pulsava in lui, lo incalzava ogni giorno – non sapeva se a smorzare o a produrre inquietudine – ed egli era deciso a coglierne la ricchezza senza farsi ingabbiare negli universi chiusi della mobilitazione permanente e della sopravvivenza. Le cose della sua vita erano andate e potevano andare molto peggio, per accettare di considerare la sua scelta della lotta di classe e dell’impegno politico come la discesa nella ridotta di una nuova trincea e come un motivo valido per soffocare il suo orizzonte vitale. Tanto più se questo doveva comportare di coltivare in sé il sentimento e lo spirito di gruppo, così primitivi, così infantili, come aveva sperimentato per tanti anni in collegio. Urgeva crescere, divenire adulti, giocare la propria parte nel mondo, aprirsi agli altri e guardare la realtà senza chiudere gli occhi, tutte le realtà, a costo di ferirsi nel trarre un giorno, più in là nel tempo, le somme delle conferme e delle sconfitte. Un ottimismo demente lo dominava e lo rendeva indifferente alle piccole cose che non andavano, come quella specie di sospetto e la considerazione occhiuta che la sua disponibilità a godere di un film o di una canzone suscitavano in alcuni attorno a lui, che lo consideravano – li aveva sentiti – oggettivamente acquiescente, se non connivente, con il nemico che quell’oppio somministrava alle masse per distrarle e rendere loro accettabili lo sfruttamento e l’alienazione. E c’era pure chi le scriveva queste scemenze.

    Ma era chiaro: Clio, gesta canens, non ha paura, esamina tutto con attenzione e sta, in campo aperto, sullo sfondo sereno del contado e del borgo, qualche manoscritto già letto per terra. Dalla storia non si esce e tanto vale prenderla a compagna di viaggio, cercare di capirla se non di amarla tutta, anche nelle quisquilie, tanto più se esilaranti e vitali come Hellzapoppin o Tom Jones, o capaci di mettere in movimento, e perfino di scatenare, anche le persone più controllate e refrattarie, come gli era capitato di vedere con Black Nativity e allo spettacolo della compagnia di Moiseev. Una vertigine, quest’ultima, dell’udito e della vista, irrefrenabile, la sera prima di partire per Trieste dove, da Lubiana, sarebbe arrivata Dranka.

    º º º

    Il treno per Belgrado partiva a tarda sera dalla stazione meridionale di Vienna. Nessuno era riuscito a dirgli l’orario. Bisognava andare lì e aspettare. Cominciava l’est dell’Europa.

    I marciapiedi erano deserti: la luce remota sbiadiva tutto all’intorno. Era ancora presto, ma non poteva permettersi di perdere il treno e mancare l’apertura del seminario nel pomeriggio del giorno seguente all’università. Di Vienna si era saziato: ricordava a mala pena che cosa aveva fatto e dove era stato, la fame di cose da vedere, le marce strenue nella città imperiale, Tiziano e Rubens, l’attesa del vaglia telegrafico all’ufficio postale centrale, l’ostello della gioventù e i fugaci incontri.

    L’aveva presa larga per essere a Belgrado ai primi di settembre, a un seminario sui consigli di fabbrica e l’autogestione operaia, e soprattutto sulla corte costituzionale che la Jugoslavia di Tito, unico paese socialista, aveva introdotto nell’ordinamento statale. Un’occasione da non perdere, gli aveva detto il suo professore, un invito che ci teneva a non lasciar cadere. Anche andare in Norvegia con suo fratello era stata un’occasione da non perdere: salire in macchina attraverso la Svizzera, la Germania, la Danimarca, la Svezia e lassù andare fin oltre il circolo polare a trovare gli sparsi parenti di sua cognata, nelle isole, nei boschi, negli azzurri e nei verdi sontuosi e inimmaginati di quell’agosto norvegese, con le partite di pesca alle Vesterålen, la panna acida e gli skol prima, durante e dopo i pasti, gli occhi negli occhi e la mente alla ricerca di dediche leggere, spiritose, familiari, magari con qualche slancio, come alla fratellanza e alla pace fra i popoli, corretto sur-le-champ fra le nazioni da una signora con occhio fermo, alla tavola di un cugino, forse uno zio, in servizio lì, in una base della Nato. E il tutto in un inglese frettolosamente attrezzato per la bisogna, utilissimo anche nelle sue incertezze e approssimazioni di eloquio corrente, amico fraterno nella traversata insonne e popolata di ragazze da Oslo a Copenhagen e poi nel charter per Vienna su un quadrimotore che continuava validamente a fare la sua guerra fra i cumuli e i nembi dei cieli d’Europa, con la hostess luminosa e sorridente al suo risveglio, che avrebbe passato volentieri la serata con lui, azzurra e bionda com’era, se non fosse dovuta tornare a Copenaghen con l’aereo.

    Intanto erano arrivati altri aspiranti viaggiatori, grigi e sbiaditi come l’aria lì attorno, che in silenzio prendevano posizione con pacchi e bagagli lungo il binario, forse conoscendo la disposizione e la sequenza dei vagoni del treno per Istanbul, in partenza alle 23 e 55. La carovana sarebbe passata per Zagabria, Belgrado e Sofia e il temuto assalto ai vagoni e ai posti a sedere rimase l’immagine remota di viaggi verso la Sicilia, mentre tutto si svolgeva nell’ordine e in un brusio asciutto e concreto, fin dentro lo scompartimento dove alla fine trovò posto. Non c’era fretta: mezzanotte era passata da un pezzo e sul marciapiede accanto al finestrino del corridoio erano in corso varie cerimonie d’addio di famiglie, coppie, amici. I ferrovieri (austriaci, slavi, bulgari?) avevano un loro orario, e tutti ci contavano, in specie una coppia – giovane e rosea lei, maturo e grigio lui – il cui commiato, con quel ricorrente e calmo stringersi e sciogliersi degli abbracci, aveva ben presto trattenuto il suo sguardo. Le parole, che pure si scambiavano fitte, non potevano evidentemente dire tutto e lei, squassata dai singhiozzi come mai ne avrebbe più vista una, tornava ad annidare il suo volto fra il capo e la spalla di lui che l’accarezzava.

    º º º

    Qualcosa lo scosse dal sonno in cui era immerso. Doveva essersi addormentato di schianto forse anche prima che il treno si muovesse; non ricordava nulla, mentre sentiva le sue forze abbandonate nel tepore attorno a lui, finalmente assicurate del treno e della sua meta. Qualcosa che lo urtava nei piedi lo indusse ad aprire gli occhi nella tenebra appena rischiarata dalla luce di emergenza verso il buio di campi appena percepiti in corsa alla sua destra, ed a cercare in basso, fra le scarpe e le gambe abbandonate dei dormienti, per ritrovare la ragazza del commiato, gli sembrò, seduta di fronte che lo guardava, gli occhi e il volto anch’essi sbiaditi in quel lucore. Rimase come sospeso in quello sguardo, mentre la spossatezza di nuovo lo traeva nel sonno, che lo accolse. Si svegliò a giorno fatto, nel brusio discreto di una società già installata. Accompagnata da qualcuno alto e massiccio, la ragazza tornava a sedersi davanti a lui, questa volta (gli sembrò) ironica. Si stupì: gli sembrava quasi impossibile che in quelle poche ore si fossero avviati contatti e stabilite relazioni che vedeva animate di espressioni e parole, fra persone che il caso aveva avvicinato e che sembravano già conoscersi da tempo. Vedeva nei volti lì attorno il piacere di non essere soli, di parlare a qualcuno; l’attenzione cortese; in alcuni, già avanti nelle confidenze, il desiderio, in corso di soddisfazione, di entrare nei dettagli. Come si poteva essere così aperti, così disponibili agli altri? La vita: la vita gli apparve affidata a toni e corde a lui non facili, a frequenze capaci di intrecciare presto fra loro una rete, un tessuto connettivo ben spesso e variegato, anche senza il suo intervento, che ora poteva osservare in qualche modo dall’esterno. Qualcuno, che aveva notato il suo risveglio, gli domandò qualcosa, gli diede delle informazioni ed egli si trovò, senza quasi volerlo, a seguire e a svolgere anche lui il filo di una conversazione.

    Nulla, in quel mattino già assediato dal calore della pianura, sembrava rispondere a una necessità: il suo viaggio proseguiva aperto a tutti gli imprevisti e a tutte le possibilità lungo la traiettoria programmata. Si rallegrava anche solo di ascoltare i suoni e i ritmi di parlate a lui ignote e, mentre esplorava l’aspetto e gli abiti dei suoi compagni di viaggio, cercava di capire il senso di quello che venivano dicendo dall’espressione dei volti e dai gesti misurati che li accompagnavano. Un medico di Istanbul, raccolto accanto a lui in un vestito grigio gualcito con la cravatta – era l’unico – gli stava raccontando in francese che città era quella in cui stava tornando. Non ricordava perché erano a quel punto: forse gli aveva chiesto lui di parlargliene, di dargli un’idea di quella remota Costantinopoli, appena evocata nelle ultime settimane di liceo in vesti ottomane, subito dismesse sotto l’impulso di Ataturk dopo la prima guerra mondiale (il programma arrivava lì). C’era decoro in quelle parole e nello sguardo mite che le accompagnava, la dignità della casa e del quartiere che lo attendevano, forse anche la freschezza dell’aria e la luce del Corno d’Oro, ma non si sentiva la gioia in quel ritorno: qualcosa gli sarebbe mancato che forse aveva trovato in Europa, pensò, nei mesi o negli anni (non era chiaro) ormai alle sue spalle.

    º º º

    Il treno entrò in stazione di slancio e si abbrancò alle rotaie con tutti i freni che aveva. Quelli che scendevano erano pronti da un pezzo, le conversazioni sfumavano nei saluti con chi proseguiva e si ritrovò sul marciapiede, sciolto da quella piccola società avventizia, nella luce vivida del primo pomeriggio di settembre. Orientandosi verso l’uscita notò, nel taglio nero della pensilina, i volti i capelli gli scialli le gonne, lo sguardo soprattutto, di alcune donne sedute appoggiate ai pilastri tra i fagotti, zingare evidentemente, che osservavano quel tramestio attorno a loro prendendo, sembrava, le misure di tutti e di ciascuno.

    Alla Scuola superiore di scienze politiche fu accolto dal responsabile organizzativo del seminario: non era in ritardo, gli altri stavano arrivando e bisognava compilare i moduli dell’iscrizione con tutti i dati necessari. Le informazioni sui partecipanti furono rapide: si erano annunciati studiosi e ricercatori dalla Francia, l’Olanda, l’Italia, l’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia, l’India, l’Algeria, gli Stati Uniti, ma bisognava aspettare e vedere: potevano esserci difficoltà, imprevisti. Il tono era sereno, di routine, un po’ asciutto nella richiesta di notizie du cher professeur Cerroni, di cui porse i saluti e i ringraziamenti per l’invito. Tutto, per certi versi, sembrava in armonia con le strade che aveva percorso e i palazzi ben allineati sui quali il suo sguardo si era posato, a cercare, se non una risposta, una chiave di lettura. Non c’erano altri indizi: tutto stava tra fine Ottocento e primi Novecento, anche le buone maniere, qualcosa di solido e di rispettabile che non si imponeva, né lo cercava: un’identità magari non originale, di certo senza fronzoli, tranquilla e anche sicura di sé e del suo posto nel mondo. Una volta installati nella Casa dello studente, fu loro annunciato, un pullman li avrebbe portati allo stadio dove quella sera artisti e complessi musicali di tutte le repubbliche si sarebbero esibiti in uno spettacolo di varietà allestito in quel periodo da qualche anno. Una buona premessa – avevano pensato – quasi un’introduzione al seminario, per l’opportunità che offriva di conoscere il meglio in quel momento della cultura popolare jugoslava, di grande succes- so – lo avrebbero visto – presso il pubblico: un’occasione davvero speciale anche per loro, non messa su per gli ospiti, per quanto cari e illustri.

    La presenza di una grande folla si confermò appena furono aperte le porte del pullman e lungo le scale che conducevano ai posti in tribuna loro riservati. Lo stadio era quello della Stella Rossa – fino a centomila persone, viste in tv anni prima per qualche partita della Coppa dei Campioni e che quella sera sembravano acclamare chiunque fosse presente: anche loro quando entrarono. L’effervescenza pareva già al massimo e nessuno ancora suonava o cantava. Chi aveva pensato che i convenuti da mezzo mondo potessero anche solo iniziare a conoscersi in quella bolgia si era sbagliato. Annunci diffusi dagli altoparlanti ogni tanto avvertivano o indicavano qualcosa di noto alle voci e ai clamori, che si addensavano o sfumavano nella lontananza senza che se ne cogliesse il motivo. Nel catino immenso a mala pena illuminato si vedevano, si intuivano in fuga in alto e nelle file declinanti fino al buio del fondo, i volti e i gesti di uomini e donne che ogni tanto, per gruppi, gli parve, per settori, si accendevano nell’eccitazione di chi si ritrova. Nei saluti e negli abbracci sembrava venisse a ricomporsi sulle gradinate la popolazione di un paese che forse si poteva decifrare nei tratti forti dei volti e dei corpi. Quando l’altoparlante captò un accordo – di fisarmonica, e poi di violino – un fremito corse all’istante tutt’intorno, esplose un boato, grida anche lontane di affetto, di gratitudine quasi, accolsero i cantanti e i suonatori presentati alla voce su una piattaforma che nessuno riusciva a vedere, finché una melodia sentimentale, che gli fece pensare a Nilla Pizzi, sembrò per un momento acquietare tutta quell’ansia, prima che anche lui fosse rapito, quasi tolto a se stesso, da ritmi insistiti, stacchi e fraseggi saettanti, diminuendo anche appena accennati e risalite vertiginose quali mai ne aveva udite di uguali, che vennero a togliere il fiato a tutti.

    º º º

    Che cosa volevano gli jugoslavi con quel seminario fu subito chiaro: in un movimento comunista mondiale libero dalla servitù di schemi validi per tutti, analizzare la realtà del loro paese e del mondo per individuare le condizioni e gli obiettivi di trasformazione e progresso della società nello sviluppo della democrazia. Questo era il punto. L’analisi si voleva scientifica e la sede, la scuola di scienze politiche della capitale, indicava progresso e sviluppo nelle scelte della Costituzione approvata l’anno prima, sintetizzate dall’autogestione nelle fabbriche e in tutte le altre realtà produttive e, al vertice dello Stato, dalla Corte costituzionale. Scelte, entrambe, che limitavano il ruolo e il potere del partito, cui loro da anni, con un Congresso, avevano dato il nome di Lega (e voleva pur dire qualcosa). Il discorso inaugurale e le relazioni introduttive alle varie sessioni lo confermarono nell’impressione di un approccio tranquillo, per niente enfatico. Non c’erano sottolineature, né richiami alla originalità della via nazionale al socialismo, come accadeva ai più vari propositi nel partito italiano. Era, evidentemente, un punto di vista acquisito da tempo e una volta per tutte, senza particolari avvertenze se non quelle dettate dalla complessità delle situazioni e degli interessi e diritti in gioco. Niente di più, pensava, di quanto ci si poteva attendere in una sede universitaria, salvo il fatto che ci si trovava in un paese socialista, e molte cose non dovevano darsi per scontate.

    Ben presto la sua attenzione si concentrò sugli altri partecipanti al seminario. Ce n’era di storia lì attorno. C’era pure un nero americano, Bob, di Baltimora, più osservatore, gli parve, che partecipe, e un paio di olandesi trenta-quarantenni, belli ed eleganti, che si facevano il vuoto attorno quando dragavano le studentesse che ogni tanto si affacciavano a curiosare. Ogni giorno c’erano escursioni in città e nei dintorni: il sacrario del Milite Ignoto, il parco Kalemegdan alto sulla confluenza della Sava e del Danubio, dal quale furono loro indicati i primi palazzi appena costruiti di Novi Beograd, una nuova città tutta moderna, ma di cui prese nota solo quando sentì la loro guida parlare degli Slavi e dei Turchi in guerra nei secoli sulle rive dei fiumi lì sotto e nella piana infinita, per controllare quella posizione strategica.

    Fu in queste gite che nel gruppo scoprì gli algerini. Erano tre: due asciutti e brevilinei, Houari e Khaled, e il terzo robusto e alto, Michel, cordiali e riservati quelli, esuberante e coinvolgente questo, sempre insieme, socievoli e intonati, almeno due, nelle frequenti occasioni di allegria. Si sentivano in qualche modo a casa, visto che anche l’Algeria aveva scelto l’autogestione, ma lui li immaginava nella ferocia della guerra di liberazione – seguita a suo tempo, giorno per giorno, nelle corrispondenze dell’ Unità e del Giorno, che leggeva suo fratello – da cui i tre sembravano usciti, a quel che pareva, indenni anche nell’animo. Una fantasia che ritornava quando osservava impegnati in lunghe partite a scacchi Michel e Houari, con Khaled accanto e protettivo.

    I russi li avvicinò come un cucciolo festoso durante una pausa, pre-sentandosi compìto nel saluto e nella pronuncia. Erano due e risposero a malapena: pensò di avere sbagliato qualcosa, ripeté la formula cercando di richiamare il tono della Nikolsky. Fu peggio: gli parvero ritrarsi. Il suo russo sembrava allarmarli e presto, dopo qualche suo commento su quanto avevano appena sentito in aula (cercava di parlare meglio che poteva), fu lasciato in asso. Peccato, pensò, un’occasione persa di migliorare la sua conversazione, che non poté ripetersi perché quasi non li vide più nei giorni successivi e gli sembrò che fossero partiti prima che finisse il seminario.

    Non c’era, a dire il vero, nessuna ufficialità nei rapporti e negli inter-venti: il paese contava evidentemente o, almeno, lui ci stava attento, ma ciascuno diceva la sua e non c’erano schieramenti quando le opinioni diver-gevano. I francesi e gli italiani, i più numerosi, ogni tanto si incaponivano su questo o quell’aspetto di una situazione o di un problema in discussione, e accadeva che discutessero anche vivacemente fra loro, con gli altri a guar-darli. Dominava la serenità e il piacere di trovarsi insieme lì, di avere un’occasione per molti unica, fino ad allora, di informarsi e misurarsi con tutte quelle novità che proiettavano in una dimensione significativa – egli pensava, ma non era il solo – tutto il movimento, e potevano costituire un modello per altri paesi nel mondo. Così rilevante, questa sintonia, che i contatti allora stabiliti, soprattutto con due francesi, continuarono per lettera fino a quando, avendo espresso l’opinione che non era impensabile che la controversia ideologica fra l’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare cinese potesse portare a un conflitto armato fra i due stati socialisti, le lette-re smisero di arrivare e l’amicizia finì.

    Il francese era la lingua franca del seminario, ma con i cecoslovacchi dovette ricorrere al suo inglese. Non erano giuristi ed erano lì, uomini e donne più grandi di lui sui trent’anni, a sentire, gli dissero. Lavoravano nella sanità, in ospedale o nella ricerca, non aveva capito. Qualche volta in aula, se si trovavano vicini, scambiavano un commento, ma parlavano poco e stavano per conto loro nelle gite e ai ricevimenti serali. Sembrava non avessero le preoccupazioni teoriche, se non proprio ideologiche, degli altri: da scientifici, pensava, portavano al tutto uno sguardo diverso. Alla fine, quando si salutarono, uno di loro gli disse che a Praga, nell’università gli sembrò di capire, erano impegnati su una strada nuova e presto ne avrebbe sentito parlare.

    º º º

    Tornato a Roma dopo quasi due mesi, per un po’ si sentì sospeso, come fosse sul punto di partire di nuovo. Le cose, la città restavano distanti; non ne era neppure curioso. Passarono giorni senza che se ne rendesse conto. Gli amici e i parenti non suscitarono particolari emozioni. Si sentiva proiettato nel mondo, in transito, forse in missione, e l’agio e il piacere dello stare, la cucina della signora Mafalda che gli affittava una stanza a Largo Benedetto Marcello – col marito che aveva fatto tutte le guerre dal 1911 e spesso gli diceva: A me non m’ha mai fregato nessuno – non bastavano a rendere attraente il ritorno alla sua routine di studente. Finché una sera, lasciate le sudate carte, tardando il sonno a ghermirlo, comprese, e si disse, che la sua vita era lì e che se c’era da fare qualcosa l’avrebbe fatta, la doveva fare, in quella città, con quelli che conosceva e che avrebbe potuto incontrare.

    Il mondo si era messo a correre. La fine del colonialismo degli stati europei e l’avvento dell’Apartheid in Sud Africa avevano smosso i neri americani. L’esempio di Cuba protetta dall’Unione Sovietica e l’Alleanza per il Progresso lanciata da Kennedy si disputavano nel Centro e Sud America il consenso e il sostegno delle grandi masse diseredate, come venivano anche chiamate. L’equilibrio del terrore nucleare obbligava alla coesistenza e alla competizione pacifica l’antagonismo di classe e di sistemi di stati fra capitalismo e socialismo. Gli obiettivi – almeno quelli proclamati – erano gli stessi: la libertà e l’eguaglianza dei diritti, senza distinzioni ecc. ecc., come dettava la Dichiarazione universale dei diritti umani posta a fondamento dell’ONU dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale; la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche, concentrate sull’energia nucleare e nella corsa allo spazio; il progresso e lo sviluppo nelle conoscenze, nel lavoro, nelle condizioni della vita quotidiana nella società e nelle famiglie. L’avvento pacifico del socialismo era possibile nelle condizioni imposte dalla Storia. Non bisognava perdere tempo.

    Non era il solo a sentire l’urgenza. Lui la pensava politica, e non si sentiva stretto da legami impropri, ma in giro le cose come stavano suscitavano un’insofferenza talora anche fisica, che non era chiaro dove nasceva. Si andava via di casa, si viveva ospiti riluttanti, se non sprezzanti, di papà e mammà. Capitava di incontrare ragazzi e ragazze venuti dal paese, dal Nord come dal Sud; non si capiva di cosa vivessero ed erano ore a discutere, su una minestra di pasta e verdura in trattoria a piazza della Quercia o in una sezione di partito, quale che fosse, e poi ci si perdeva di vista. Il senso era quello: c’era bisogno di altro e bisognava darselo da sé, non si poteva contare su nessuno se non su se stessi. Gli era capitato di dare un passaggio sull’Olimpica a uno che, come niente, si era messo a parlare di qualcosa che avrebbe cambiato tutto: un sommovimento di arditi, una specie di golpe che avrebbe spazzato via i comunisti e tutta la marmaglia al governo, e messo le cose a posto. Un ragazzo, inquieto, occhi scintillanti che sembravano chiedere conferma a lui di quanto veniva dicendo. Non ricordava come l’aveva scoraggiato, forse mettendogli il dubbio che qualche marpione all’ultimo momento si tirasse indietro lasciandoli in brache di tela, e

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