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La stanza dei sospetti
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La stanza dei sospetti
E-book290 pagine4 ore

La stanza dei sospetti

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Info su questo ebook

Un grande giallo italiano
Una storia davvero coinvolgente
Un thriller che non potrete smettere di leggere fino all’ultima pagina

Mork è un ispettore di polizia in servizio presso la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga. Però non è un agente come gli altri, lui non è mai stato dietro una scrivania, neanche un giorno. Perché Mork è un infiltrato, e nel suo lavoro è considerato uno dei migliori. Sono pochissimi a sapere cosa faccia veramente. Tra questi c’è Bruno, il suo più caro amico, importante produttore televisivo e cinematografico. Proprio nel mondo del cinema si concentra l’indagine di Mork. Una torbida vicenda di festini a luci rosse e omicidi, che coinvolge un politico di spicco, la mala romana e la ’ndrangheta calabrese. Una missione pericolosissima, che metterà a dura prova le abilità di trasformista di Mork. E questa volta l’infiltrato dovrà proteggere molto più che la sua copertura. È a rischio la vita di Bruno e soprattutto quella di Martina, la donna che ha conquistato il suo cuore…

«Non è con l’inchiostro che Piergiorgio Di Cara scrive i suoi gialli, ma con l’adrenalina pura. E l’effetto è quasi immediato: aumento della pressione arteriosa e del ritmo cardiaco del lettore. Il suo stile, una riga dopo l’altra, procede quasi per scosse, come un lungo filo elettrico scoperto.»
Piergiorgio Di Cara
è nato nel 1967 a Palermo, dove vive e lavora. Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, ha alle spalle una lunga esperienza investigativa da Agente alla Squadra Mobile di Palermo. Ha scritto romanzi polizieschi, soggetti e sceneggiature per la televisione. È autore per NOma, applicazione divulgativa sulle storie dell’antimafia, realizzata dalla Tim e ideata da Pif e Tiziano Di Cara.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2016
ISBN9788854196599
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    Anteprima del libro

    La stanza dei sospetti - Piergiorgio Di Cara

    1286

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9659-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Cover: © Hayden Verry / Arcangel Images

    Piergiorgio Di Cara

    La stanza dei sospetti

    A Ines

    Non avevo mai letto un romanzo di Stephen King, né visto un film dell’orrore.

    Mai.

    Misery non deve morire Shining, tanto per citarne due. Certo, ne conoscevo a grandi linee la trama, le scene più famose (tipo quella di Nicholson che urla: «Wendy… Weendy!»), ma non avevo mai visto i film.

    «Cioè, davvero? Non ci posso credere», mi disse Martina quando una sera a cena, parlando di libri, venne fuori l’argomento. «Uno che fa l’adattatore di dialoghi per il cinema e la

    TV

    non può non conoscere King e i suoi film!».

    In questa affermazione ci sono una verità e una menzogna. La menzogna riguarda il mio reale mestiere. La verità, ora capisco, sta nel fatto che uno che faccia quel lavoro lì non potrebbe non conoscere King. Come minimo, dovrebbe aver visto Shining.

    Martina mi è molto simpatica. Potrei dire che mi piace. È una ragazza schietta, dice esattamente quello che pensa, senza formalità. Mi dispiace non essere sincero con lei. Ma io non avevo messo in conto la possibilità che iniziassimo a frequentarci.

    Fino a un paio di mesi fa, ci salutavamo quando ci incontravamo in portineria o per strada, nei pressi di casa. Ma non ci eravamo mai presentati.

    Poi, un sabato mattina, mentre tornavo dal mercato, la vidi davanti a me. Aveva tre sacchetti della spesa nella mano sinistra e una cassa d’acqua nella destra. Arrancava, povera (Martina è piccoletta). Così, da bravo gentiluomo, le dissi: «Ehi… vuoi aiuto?». Presi due sacchetti e l’acqua.

    «Uff!», sbottò. «Mi si stavano staccando le braccia. Grazie».

    «Ma figurati».

    Facemmo quei cinque, seicento metri in silenzio, camminando fianco a fianco.

    «Vai spesso al mercato?», mi chiese dopo un po’.

    «Sì, soprattutto il sabato, quando non lavoro. Mi piace girare per le bancarelle, scegliere le cose, mi piacciono gli odori, i colori. E tu?»

    «Anche io ci vado, cioè mi piace, e sì, ci siamo pure incontrati qualche volta».

    «Eh, ricordo, sì, certo».

    Non so perché, ma mi sentii in imbarazzo. Non mi capita spesso. Sono piuttosto riservato e di norma riesco a controllare le mie emozioni. È un’attitudine che ho sviluppato nella mia professione. Però quella volta avvertii… un disagio. E non perché ricevessi vibrazioni negative da lei. Tutt’altro. Fu proprio per le vibrazioni positive.

    «Ho gente a cena e ho fatto un sacco di spesa».

    «Cosa prepari?»

    «Fettuccine ai funghi porcini, torta di verdure, e formaggi e salumi per antipasto».

    Non replicai. Lei sorrise, e per un attimo ebbi la netta sensazione che stesse per dirmi: Se ti va, siamo un paio di amici, una cosa così, informale. Ma non disse nulla.

    Eravamo giunti a casa nel frattempo. Lei abita nella scala opposta alla mia, dall’altra parte del cortile interno. Disse: «Ora puoi dare a me, tanto siamo arrivati, sto qui al pianterreno».

    «Sì, ecco».

    «Be’, grazie, allora».

    «E di che…».

    Mi avviai in fretta al mio portone, salii i quattro gradini con due passi (anch’io sto al pianterreno), aprii e feci una cosa che non mi sarei mai aspettato di fare: socchiusi leggermente gli scuri della finestra della cucina che dà sul cortile e spiai, cercando di capire quali fossero le sue finestre. Ebbi la netta sensazione, guardando attraverso gli alberelli del giardino e la siepe, che lei stesse facendo la stessa cosa.

    Nei giorni seguenti, come sempre accade in questi casi, la incontrai di continuo: in edicola, la sera quando buttavo l’immondizia. Al bar. Così le dissi: «Ma sai che non so neanche come ti chiami?».

    Rise. «Martina, e tu?»

    «Marco». E questa fu la prima bugia, anzi mezza. «Posso offrirti la colazione?»

    «Perché no?».

    Ci sedemmo ai tavoli del bar La Fiorentina, in via Doria. Io ordinai caffè e cornetto integrale al miele, lei cappuccino e una fetta di crostata. «Mi piace un sacco questa crostata», disse. «Mi ricorda quelle di mia zia».

    «Mai assaggiata».

    «Una volta dovresti».

    Rimaniamo un attimo in silenzio, poi le chiedo: «Be’, insomma, cosa fai di bello?»

    «Lavoro in una casa editrice».

    «Wow, accidenti, sembra fico».

    «Sì, sono una editor. Leggo manoscritti, cose così».

    «L’editor… però».

    «Sì, sai, sono una specie di… Come si chiamano quei poliziotti che fanno gli infiltrati? Hai presente, no?»

    «Gli undercover

    «Ecco, quelli. Io lavoro dietro le quinte».

    «Capisco».

    «Tu invece lavori in televisione?».

    La guardai.

    «Perché?»

    «Be’, abiti a casa di Bruno, e lui è un produttore televisivo. Ti ho visto spesso qui al bar con Bruno. E hai l’aria di uno che lavora in

    TV

    . Ecco sì, sembri uno di quelli. Cioè, non direi mai che tu faccia un lavoro tipo, che ne so… il poliziotto!».

    Risi. «Non sembro un poliziotto, quindi. Ti sembro un attore?»

    «No. Hai l’aria più da intellettuale. Fai lo sceneggiatore o qualcosa del genere. Ci ho preso?»

    «Quasi. Faccio l’adattatore di dialoghi».

    «E cioè?»

    «Adatto i copioni dei film in lingua straniera, inglese soprattutto, in quella italiana. Cerco le parole che si adattino al movimento delle labbra dell’attore in fase di doppiaggio». E questa fu la seconda bugia.

    Mi guardò con aria stupefatta: «Confesso che non immaginavo che esistesse una professione del genere! Quindi sei anche tu un undercover?».

    Risi ancora. «Già, esatto, ci hai preso: proprio un undercover!».

    E ci aveva preso sul serio. Perché io sono un undercover. Anche se preferisco il termine italiano che è agente sotto copertura. Sono un poliziotto. E non mi chiamo Marco, ma Mork. Sì, Mork, come il telefilm. Il mio nome, in realtà, doveva essere Marco. Ma papà, nel registrarmi all’anagrafe, quel giorno era raffreddatissimo e disse, starnutendo: «Si chiama Morc…». Si accorse dell’errore solo dopo qualche tempo, controllando il certificato, ma non andò mai a rettificarlo. Poi venne lo sceneggiato Mork & Mindy e il nome mi restò appiccicato. E ora che papà è morto, citando la canzone di Dalla, «il ricordo più grosso è tutto in questo nome che io mi porto addosso».

    Abito a casa di Bruno, che in effetti è un importante produttore televisivo. Lo conobbi più o meno quattro anni fa. Venne nei nostri uffici perché voleva fare una sorta di documentario sul nostro mondo (lui è specializzato in docufiction e real

    TV

    ). La cosa non si fece, ma diventammo amici. In quel periodo cercavo una casa più centrale. Abitavo in zona Tuscolano, vicino al mio ufficio, ma lontano dal centro. Così Bruno propose: «Se vuoi io ho una casa sfitta, a Prati. Sei il benvenuto».

    «Sarebbe bello, ma lì gli affitti costano un botto».

    «Ascoltami, Mork, casa è libera, invece di stare vuota ci stai tu. Ti paghi le spese di bollette e condominio e per me, fino a quando non mi serve o non trovi di meglio, puoi abitarci tranquillamente».

    «Ti ringrazio, ma non posso accettare. Non è nelle mie abitudini e non sarebbe giusto per te».

    «Facciamo così», mi disse. «Io ho preso in affitto un box da quelle parti, pago quattrocento euro al mese. Mi dai quattro sacchi, così con i tuoi soldi ci pago il garage e siamo tutti a posto. Che ne dici?»

    «Mi pare un buon compromesso…».

    Sto lì da tre anni e mezzo e sono felice. Io non ho la macchina. In ufficio ci vado con la metropolitana, da Ottaviano. Mi lascia a cento metri dal lavoro, e da casa mia alla fermata saranno quattro passi. Tutto quello che mi serve ce l’ho a portata di mano: il mercato Trionfale, i cinema, la Feltrinelli. Non faccio una gran vita mondana, se serve prendo un taxi, per il resto il mio mondo sta lì, in pochi chilometri quadrati. Tutti percorribili a piedi o col Vespone.

    Casa è piccola. Ma come si dice? Parva sed apta mihi.

    Un bagno, un unico ambiente cucina-salone, una specie di studiolo dove c’è un divano letto e la televisione, e la mia camera. Settanta metri quadrati in tutto. Del resto, gli adattatori di dialoghi non vivono nei superattici alla moda.

    All’inizio era una specie di scherzo con Bruno.

    Per via del mio lavoro, non amo far sapere che sono uno sbirro. Non si sa mai con chi hai a che fare, gente che magari tu non conosci affatto ma che conosce te. Sai, no, quello che pulisce le scale chiede alla portiera: «E il nuovo tizio del pianterreno che fa?».

    Capito?

    Bruno ci rifletté: «Possiamo dire che lavori nel mondo della televisione. Non come tecnico, perché richiede competenze, né come sceneggiatore, perché quelli in un modo o nell’altro li leggi nei titoli, ma l’adattatore di dialoghi è perfetto. Nessuno se li incula, anche se sono molto importanti. È la copertura

    DOC

    ».

    «Mi piace».

    Per questo dissi a Martina che facevo ’sto cazzo di lavoro. Ma chi se l’immaginava che avremmo fatto coppia fissa?

    Ora, tornare indietro mi pare male, andare avanti pure.

    Che fare?

    Boh.

    A tempo debito vedremo.

    Sono un abitudinario. Tra le mie abitudini c’è quella di andare in piscina il sabato mattina. Spesso ci vado con Bruno, che è un ottimo nuotatore. Quel giorno eravamo insieme. Avevamo fatto un bell’allenamento in coppia, tiravamo due vasche l’uno per fare un po’ di fiato e resistenza. Durante la doccia mi fa: «Ascolta, Mork, ti dovrei parlare di una cosa delicata. Sono un po’ imbarazzato».

    «Oh, Bruno, non mi dire così mentre siamo nudi sotto una doccia a un metro di distanza. Mi fa un po’ impressione!».

    Ride. «Nun dì cazzate. No, è un’altra questione».

    «Mi offri l’aperitivo e me la spieghi».

    Sgranocchiamo noccioline e patatine sorseggiando un analcolico, al nostro bar. «Allora», dico. «Qual è il problema?»

    «Be’, non so da dove iniziare». Sospira e prende una manciata di mandorle tostate. Ne mastica un paio e lascia cadere il resto su un tovagliolo. «Si tratta di questo», attacca. «Ho indirizzato un tecnico di ripresa a una grossa produzione cinematografica, un lavoro ben pagato che gli consentirà di farsi conoscere e fare strada. Sai, è un ragazzo sui ventisette anni. Gli piace divertirsi, sballarsi un po’. Ora cosa succede… Si è fatto un paio di piste con il produttore e uno degli attori. Sono entrati in confidenza e il produttore gli ha chiesto la cortesia di portare una certa borsa da una parte. Quello ha detto di sì, ingenuamente, solo che si è accorto che dentro la borsa c’era cocaina…».

    «Minchia».

    «Sì. Dopo quella volta gli ha fatto fare altre due consegne, quantità significative, gli ha allungato un paio di centoni e qualche grammo. Però ora il mio amico comincia a farsela sotto, perché l’ultimo passaggio l’ha fatto in un ministero, a uno in vista…».

    «E lui non può smarcarsi?»

    «Ci ha provato, però il tipo gli ha detto: Amico, ormai ci sei in mezzo, e se vuoi lavorare nel cinema, te la devi accollare, se no non ti faccio fare manco una televendita. E poi sta’ tranquillo che siamo coperti».

    «È in una situazione di merda».

    «Esatto. Si è confidato con me perché davvero è entrato in paranoia, ma io non so bene cosa dirgli. Così ho pensato a te. Quello è il tuo mondo, no?».

    Prendo un po’ di mandorle. Mi piace molto la frutta secca, non resto mai senza. Ora non ricordo se c’era un fumetto o un telefilm poliziesco in cui il protagonista, una specie di detective, teneva sempre le arachidi nelle tasche dell’impermeabile, e le sgranocchiava sulla scena del crimine.

    «E lui sa chi c’è dietro a questa cosa?»

    «Che intendi?»

    «Dico, la roba, come gli arriva? Con chi è in contatto il produttore?»

    «Non lo sa esattamente, però mi ha detto che spesso sul set vengono a trovarlo certi tipacci. Gli sono sembrati calabresi».

    «Questo pezzo grosso del ministero a cui ha consegnato la coca?»

    «Non me l’ha voluto dire».

    «Di che ministero?»

    «Non si è sbottonato. Te l’ho detto, se sta a cacà sotto».

    Bevo il mio long drink. «Diciamo che così, su due piedi, mi viene da dire che potremmo fare una zampata sul set al momento dello scambio tra il produttore e questi calabresi e arrestarli in flagranza, o al ministero dopo la consegna. Ma in tutti e due i casi la posizione del tuo amico è scoperta».

    «Eh!».

    «E poi quanto beccheremmo, due, trecento grammi, anche un chilo? Ma è pochino e soprattutto non risolve il problema. L’ideale sarebbe studiare qualcosa per risalire il flusso dello stupefacente e farsi i fornitori, i calibri da novanta».

    «Sarebbe bello».

    «Però come ci intrufoliamo nel meccanismo? Potrei tentare un approccio del tipo: Voglio comprare un po’ di roba eccetera eccetera. Ma non mi convince, così a naso direi che non avremmo molte chance di riuscita. Ci devo ragionare su».

    «Cosa dico al mio amico?»

    «Fratello, non dirgli nulla al momento, fammici pensare. Che provi a non farsi beccare, se ci riesce. Non è che ci sia molto da fare. Al fondo della questione c’è che il tuo amico è un perfetto imbecille, perdonami se te lo dico, ma la storia è questa».

    «Certo».

    «Non gli dire nemmeno che ne hai parlato con uno sbirro, capace che entra in ansia e si fa sgamare. Digli: Ciccio, stai con gli occhi aperti. Ma non per telefono. Di presenza e a voce, magari non nella sua macchina. In mezzo a una strada».

    «Addirittura?!».

    «Bruno, non possiamo sapere chi c’è sopra a questa storia. Piuttosto, sai cosa mi incuriosisce?»

    «Cosa?»

    «Che il produttore abbia detto: Siamo coperti. Mi sorge il dubbio che il pezzo grosso del ministero sia uno che può sapere certi fatti».

    «Tipo?»

    «Tipo… Viminale, Grazia e Giustizia o Difesa. Sono questi i ministeri che più di altri possono sapere le cose. Ne convieni?»

    «In effetti».

    Rolla una sigaretta. Lo guardo ammirato, perché è un vero maestro a rollare. È un cannarolo. A casa sua ho trovato tracce inequivocabili: cartine lunghe, un pacchetto di sigarette mutilato per farne filtrini, una scatola di metallo con residui di tabacco… Non è che me ne freghi nulla. Per quanto mi riguarda, se legalizzassero le droghe leggere, farebbero una gran cosa. Non sono gli spinelli la rovina del mondo.

    È buffo. Io sono buddista, e il paradosso è che la Pratica buddista l’ho conosciuta proprio grazie a un trafficante di hashish. Un sacco di anni fa. John si chiamava, un inglese, un vero hippie. Aveva vissuto l’epoca d’oro dei supergruppi: The Rolling Stones, The Who. Per un certo periodo della sua vita aveva fatto lo stilista. Aveva vestito nientepopodimeno che Jimi Hendrix!

    Solo per questo era un mito assoluto.

    Lo conobbi nel corso di una indagine. Una di quelle che si definiscono da Deep Cover, cioè quando l’agente si infiltra proprio nell’organizzazione. Io ero agli inizi, facevo da spalla a uno più anziano ed esperto. Facevamo quelli che volevano aprire una cazzo di piazza in un’isola dell’Egeo, no? Quei posti da turisti in cerca della natura.

    John era buddista. Mi parlò della Pratica e mi fece pregare con lui. Così sono diventato buddista a mia volta.

    La Pratica mi ha aiutato molto. Mi ha fatto superare tutta una serie di problemi, mettendo a tacere certi demoni che mi sconquassavano l’anima.

    Su tutti, quello della morte di mio padre.

    Il buddismo di Nichiren Daishonin, quello che pratico io, non è esattamente una religione. Non c’è un Dio da venerare. Per il buddismo, la forza ce l’hai dentro, devi solo tirarla fuori. Dio sei tu. Punto. E io sono abituato a cavarmela da solo.

    L’ho detto, faccio l’agente sotto copertura. Questo significa che a sbrigliare la matassa di una trattativa con tizi feroci e paranoici sono io, da solo, e basta.

    Certo, c’è una squadra di sorveglianza. Ma le mani nella merda ce le metto io. Mi ci rotolo nella merda. E un po’ di merda, un giorno dopo l’altro, ti rimane attaccata addosso. Ecco perché a Martina non ho ancora detto la verità sul mio conto. Perché mi piacerebbe davvero essere un adattatore di dialoghi per il cinema. Mi piace quell’idea di normalità che ti consente di ridere e scherzare, senza dover guardare negli occhi un merdosissimo trafficante di morte e fare l’amico.

    Il problema sta nel fatto che sono un Bugiardo Matricolato. Non perché non sia un tipo sincero, ma perché per lavoro sono costretto a mentire. Sono anche un paranoico e cerco di tenere la gente lontana dal mio mondo. Quella dell’undercover è per certi versi una condizione da spia, da agente segreto. Non mostrare mai la faccia è il Comandamento. Nelle conferenze stampa che seguono le operazioni importanti non compaio mai. Né incappucciato né di spalle, perché un dettaglio fisico potrebbe essere riconoscibile e crearmi problemi seri.

    Non ho account Facebook, non ho telefoni intestati, il contratto con Bruno non l’abbiamo mai depositato e tutte le utenze sono registrate a suo nome. Anche il Vespone non è intestato al sottoscritto. Risulta ancora come fosse di mio padre, che è morto da venticinque anni.

    Di fatto non esisto.

    La posta mi arriva in ufficio. Le uniche tracce sono il conto corrente bancario e le coordinate dello stipendio. Per il resto, nessuno sa niente di me.

    Un buddista fa molta attenzione al karma, perché sa che regola l’esistenza. Il karma in qualche modo lo determini tu con le tue azioni, le tue scelte. E se il karma che ti stai creando intorno è sbagliato, i problemi ti raggiungeranno prima o poi.

    Temo che il mio karma con Martina sia sbagliato.

    Dovrei dirle la verità, ma come faccio? Per ora è bello trascorrere il tempo con lei, senza complicazioni. Non abbiamo fatto l’amore, per esempio.

    L’altra sera siamo andati alla festa di una scrittrice e ognuno è stato per i fatti suoi a parlare con gli altri invitati. Però, ogni volta che alzavo lo sguardo sulla sala, la cercavo e lei guardava me. Non ci perdevamo mai di vista. Dopo un po’ ci siamo avvicinati e ci siamo messi a scherzare con la festeggiata. Non so come, ma abbiamo messo insieme una fila di battute, facendoci reciprocamente da spalla, e a un certo punto la scrittrice ha detto: «Siete davvero comici. Si vede che state insieme da un sacco. Siete proprio una bella coppia».

    Ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere.

    Tornando a casa, sul Vespone, l’aria era fresca, non fredda, e lei si è stretta a me.

    Forse davanti al portone avrei potuto baciarla. Salutandomi, aveva alzato il viso verso il mio. Mi sono limitato a un bacio sulla fronte.

    Poi, mentre preparavo una tisana, è arrivato un sms:

    Ma davvero quella pensava che siamo una bella coppia?

    Dovresti saperlo, gli scrittori hanno una gran fantasia.

    Già! Kiss…

    Besos.

    Ne sono innamorato? No. Però c’è qualcosa in lei che mi stuzzica. Quelle vibrazioni, il profumo, i gesti che ti risultano immediatamente familiari. Come un déjà-vu. E dici: Cavoli, ma io questa l’ho sempre conosciuta. Ora non so se sia più giusto dire l’ho sempre conosciuta o l’ho sempre aspettata; però siamo lì. A volte penso che l’amore sia come un paio di scarpe comode. Di quelle che pur se un po’ vecchiotte, quando le calzi dici: Ecco, ora sono io.

    Questo mi succede con Martina. No, non ne sono innamorato. Con lei è come se fossi passato direttamente alla fase successiva.

    Le parole di Bruno mi girano per la testa: cinema, calabresi, ministero, cocaina. È uno di quei cocktail che promettono bene. Non ho appigli per cominciare a studiare il caso. Cinema e cocaina vanno a braccetto, quindi non è questo il punto di partenza migliore. Politica e cocaina, be’, anche qui c’è molta affinità.

    I calabresi e la coca. Questo è un binomio inscindibile. È un buon inizio, perché ho un database dei calabresi, qui a Roma, più o meno aggiornato.

    Si fa un gran parlare delle ingerenze mafiose al Nord, come se ci fosse un confine che possa limitare il campo d’azione delle mafie. La mafia sta dove ci sono opportunità di reinvestire i soldi. Soldi che hanno fatto inizialmente al Sud, ma che devono essere riciclati al Nord, e il Nord comincia già dopo lo stretto di Messina. Ne parliamo spesso con Bruno, che sta realizzando una monumentale docufiction sui rapporti tra la mafia siciliana e l’imprenditoria milanese, rapporti che sono saldi sin dalla fine degli anni Sessanta. Perciò che caspita mi vengono a dire che al Nord non c’è mafia?

    Stronzate.

    Il mio è un ufficio interforze, forse uno dei pochi in cui l’interforza funzioni in maniera ottimale. Lavoro alla Direzione Centrale per i Servizi Antidroga. Questo significa che noi coordiniamo tutte le attività investigative delle sezioni antidroga delle tre forze di polizia: Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza. Tutte le informazioni che provengono dal territorio sono concentrate in un unico posto. In questo modo evitiamo le sovrapposizioni e intrecciamo le varie indagini.

    D’altronde, anche loro sono ottimamente coordinati, non da un’intelligenza superiore ma da un interesse superiore, che è quello di rastrellare più moneta possibile.

    Mi metto al lavoro, spulcio le informative sui calabresi

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