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Le grandi battaglie di Alessandro Magno
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Le grandi battaglie di Alessandro Magno
E-book427 pagine5 ore

Le grandi battaglie di Alessandro Magno

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L'inarrestabile marcia del condottiero che non conobbe sconfitte

Fino alle soglie dei tempi moderni, e in alcuni casi anche in seguito, qualunque generale che aspirasse a lasciare una traccia di sé nella Storia si è posto come modello Alessandro Magno. Il sovrano macedone fu un conquistatore impareggiabile, in grado di costituire in soli otto anni un impero che andava dalla Grecia all’odierno Pakistan; uno stratega raffinato, capace di allestire campagne ed eserciti di un’efficienza straordinaria; un tattico lucido e brillante, sempre consapevole dei punti deboli del nemico; un generale imbattuto, determinato a superare ogni sfida e ogni prova, tanto più se ritenuta un ostacolo insormontabile dagli altri; e, soprattutto, un condottiero di inarrivabile coraggio, sempre in prima fila in battaglia e sotto gli spalti di una roccaforte nemica, colpito, ferito e vicino alla morte decine di volte ma in grado, con il suo esempio, di motivare i propri uomini come nessun altro comandante. Ma quanta parte ebbero, nelle sue vittorie, le innovazioni e le conquiste di suo padre, Filippo II di Macedonia, la debolezza di un impero in decadenza come quello persiano, e infine la fortuna, che gli permise di uscire vivo, seppur malconcio, da tutte le più temerarie azioni belliche? Questo libro racconta le imprese di Alessandro depurandole dall’incredibile mole di leggende fiorite sul suo conto dopo la prematura morte, analizzando, oltre agli strumenti e alle capacità che gli consentirono di diventare il più grande condottiero di tutti i tempi, i limiti e i difetti della sua strategia militare e le circostanze che favorirono i suoi successi.

Divenne re a 20 anni. Conquistò l’Asia minore a 22 anni. A 24 anni fu proclamato faraone. Quando morì, a 33 anni, era a capo del più grande impero del mondo allora conosciuto.


Andrea Frediani

è nato a Roma nel 1963. Laureato in Storia medievale, ha collaborato con numerose riviste specializzate, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Attualmente è consulente scientifico della rivista «Focus Wars». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Gli assedi di Roma, vincitore nel 1998 del premio Orient Express quale miglior opera di Romanistica; Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; Le grandi battaglie del Medioevo; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; Guerre, battaglie e rivolte nel mondo arabo e L’ultima battaglia dell’impero romano. Ha scritto inoltre i libri 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano e 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita, e i romanzi storici 300 guerrieri; Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011), Marathon e La dinastia. Le sue opere sono state tradotte in cinque lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854144323
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    Le grandi battaglie di Alessandro Magno - Andrea Frediani

    Cheronea

    Potremmo definire la Macedonia una folgore, che fece irruzione sullo scenario del mondo antico in uno scacchiere, quello eurasiatico/mediterraneo, che dopo la metà del millennio precedente l’era volgare era andato consolidandosi in quattro poli politico-militari destinati, in maggioreo minore misura, a divenire imperi. Più a occidente, alla metà del millennio, dopo due secoli e mezzo di vita, Roma si era appena sbarazzata dei suoi sovrani etruschi e iniziava la sua espansione nel Lazio prima, nella penisola italica successivamente. Di fronte a essa, nel meridione, Cartagine, già colonia fenicia di lunga data, con le sue ramificazioni commerciali e il possesso di territori, come la Spagna, ricchi di risorse economiche, poneva a sua volta le basi per un’espansione della sua area di controllo che l’avrebbe inevitabilmente fatta entrare in collisione con l’Urbe.

    Nel settore orientale, altri due colossi si disputavano una posizione di preminenza, dando luogo, nei secoli, a una disputa perfino più estesa nel tempo di quella tra punici e capitolini. Si trattava dei greci, la cui espansione si era estesa ben oltre la penisola ellenica, fino alle coste dell’Italia meridionale a ovest e lungo quelle dell’Asia Minore a est, e i persiani, il cui impero, nel corso del tempo, si era esteso in modo abnorme, dalle coste dell’Asia Minore, a occidente, fino all’Indo, ad oriente, inglobando anche, a sud, una parte del continente africano, ovvero l’Egitto.

    Quando queste due entità vennero in contrasto, alla fine del VI secolo a.C., i greci si erano insediati nella penisola ellenica da almeno mezzo millennio, se non di più; di lì, avevano condotto la loro espansione in un modo piuttosto simile a quanto avrebbero fatto due millenni dopo i vichinghi, i quali, invece di coalizzarsi e dar luogo a un impero, se ne sarebbero andati a colonizzare chi verso la Russia, come gli svedesi, chi in Inghilterra, come i danesi, chi in Francia, e perfino in Groenlandia e in America, come i norvegesi, senza un piano coordinato. Dori, achei, eoli, ioni furono così artefici di magnifici e fiorenti centri commerciali e culturali, dalla Magna Grecia dell’Italia meridionale alle colonie oltre l’Ellesponto - l’odierno stretto dei Dardanelli - ognuna delle quali dipendente dalla città-madre, a sua volta legata ad altre póleis greche, nella migliore delle ipotesi, mediante tenui ed effimere leghe.

    Nessuna forma di aggregazione duratura sorse infatti per lungo tempo in Grecia, se non per fronteggiare contingenti minacce esterne o le velleità di una delle città-stato, e comunque ebbe luogo, tutt’al più, quasi sempre in forma confederativa: nulla che somigliasse alle centralizzate entità politiche che il mondo antico ha prodotto in quantità impressionante e che, in molti casi, hanno conservato il loro impero per secoli.

    Ogni impero contiene in sé i germi della decadenza: la stessa centralizzazione e le necessità espansionistiche che lo portano al culmine della sua potenza lo condannano all’implosione e alla paralisi, ovvero a un progressivo crollo, che tuttavia può durare secoli, come nel caso di Roma nell’età antica e del dominio ottomano nell’evo moderno. Ma un insieme di microcosmi, come le póleis della Grecia antica, sufficientemente forti da espandersi all’esterno ma non abbastanza da imporre e mantenere la loro leadership sui vicini, si condannano in partenza a vita breve, oltre che a precludersi la possibilità di costituirlo, un impero.

    Lo si potrebbe definire un equilibrio delle impotenze, mutuando la teoria coniata per descrivere la guerra fredda tra America e Unione Sovietica e la loro impossibilità a distruggersi a vicenda; solo che i due colossi dell’era contemporanea non hanno corso il pericolo di essere sopraffatti da altri avversari che non fossero uno di loro due, ovvero da un nemico il quale potesse approfittare del logorio cui si sono sottoposti nel corso del loro lungo conflitto; al contrario, le città greche potevano fruire di un’esistenza autonoma solo fino a quando non si fosse interessata a loro una potenza di caratura superiore.

    Per fortuna dei greci, i persiani non costituirono mai un impero in grado di sopraffarli, e ciò regalò loro un paio di secoli di libertà in più: libertà, va detto peraltro, di farsi guerra tra loro. Primo artefice della ribalta assunta nella Storia dal dominio persiano fu Ciro, detto il Grande, che alla metà del VI secolo non era altro che un principe di una provincia, quella dell’Arshan, compresa nel settore orientale dell’impero dei medi. Questi sconfisse il re Astiage e, in un triennio, si impadronì dell’intera Media, per poi rivolgere le proprie attenzioni alla Lidia di Creso, che a quel tempo inglobava nei propri domini le città costiere di matrice greca nell’Asia Minore. L’ultimo sovrano di Lidia terminò la propria esistenza al servizio del conquistatore, dopo aver subìto prima la sconfitta in battaglia, poi l’assedio e la caduta della sua capitale, Sardi.

    Della coalizione anti-persiana che sorse immediatamente dopo l’ascesa di Ciro faceva parte, oltre alla più lontana Sparta, anche il regno di Babilonia, che poco dopo cadde anch’esso nelle mani del conquistatore, unitamente ai territori siriaci. Di lì l’Egitto era a portata di mano, ma Ciro morì in battaglia nel 528 a.C., dopo aver costituito un impero nell’arco di soli dodici anni. Il testimone passò allora al figlio Cambise, la cui opera non fu meno efficace, tanto che, alla sua morte, sei anni dopo, la nuova entità geopolitica lambiva a oriente l’India e affacciava a occidente sull’Egeo, inglobando quattro regni, Egitto, Babilonia, Lidia e Media, ciascuno dei quali aveva costituito una sorta di icona del mondo antico.

    Il successivo monarca, dopo un periodo di torbidi, il figlio del satrapo di Ircania e Partia Dario I, conferì una solida struttura amministrativa all’impero, dividendolo in venti distretti con a capo i rispettivi satrapi, governatori con funzioni sia civili che militari; i territori amministrati erano tenuti a pagare un tributo e a fornire una leva per il servizio in guerra, e ciò era particolarmente sgradito alle refrattarie città della Ionia. Inoltre perfezionò il confine a est raggiungendo l’Indo, mentre al polo opposto affrontò con decisione il problema rappresentato dalla continuità etnica tra l’estremo lembo occidentale del suo regno, le coste dell’Asia Minore, e l’Europa orientale, che rendeva estremamente precaria la frontiera di ponente dell’impero persiano.

    Il suo obiettivo fu, pertanto, di avanzare verso ovest il confine, che conseguì sbarcando le sue truppe al di là dell’Ellesponto e inglobando il basso Danubio. La Tracia cadde nell’orbita persiana, ma tale strategia, se perseguita con coerenza, non poteva non contemplare anche la conquista della penisola ellenica.

    Tuttavia, combattere contro i greci non era come combattere contro le popolazioni asiatiche. Gli elleni erano fior di combattenti, artefici, con le loro possenti falangi cittadine, di un cambiamento epocale nella grande storia della guerra, pari solo all’invenzione della polvere da sparo, in un certo senso. Combattere, fino all’avvento degli opliti, era stata soprattutto una dimostrazione di valore e di abilità bellica, senza che ciò presupponesse, necessariamente, battaglie cruente e stragi indiscriminate, né un armamento pesante da parte dei guerrieri i quali, anzi, necessitavano di un equipaggiamento ridotto all’osso, per muoversi con agilità nel corpo a corpo. Sconfiggere dei campioni in duello e mettere gli avversari in condizione di non nuocere era sufficientemente gratificante per il vincitore di uno scontro campale. Questo era il tratto bellico distintivo delle società primitive e protostoriche, ma perfino dei primi greci, quelli che mossero alla conquista di Troia con una serie di campioni ricordati da Omero per i loro successi in scontri individuali, più che in battaglie vere e proprie.

    Gli asiatici, pur dotandosi di armi più letali, come i micidiali archi delle orde nomadi, i carri da guerra e la stessa cavalleria, non si discostavano molto da questa mentalità; la loro guerra era a distanza, grazie all’ampia gittata delle frecce e agli spostamenti repentini dei cavalieri. Furono i greci a inventare il corpo a corpo tra reparti e non più tra singoli combattenti, a coniare tattiche che presupponessero il violento cozzare di due eserciti schierati in file serrate. Intorno al settimo secolo avanti Cristo, infatti, vigeva un clima di prosperità sufficiente a consentire a un largo numero di cittadini di procurarsi una panoplia completa. I regimi democratici delle città-stato fecero perdere alla guerra la sua connotazione di attività riservata ai ceti più elevati, e la guerra stessa, a sua volta, contribuì al livellamento della società: con l’istituzione della falange, che pare abbia tratto origine da Sparta, dietro l’elmo di metallo dell’oplita, il pettorale, due schinieri e uno scudo rotondo, poteva celarsi un esponente della nobiltà al pari di uno del popolo, entrambi obbligati a disimpegnarsi con una lancia e una spada a doppio taglio.

    Le battaglie iniziarono così a divenire quelle orge di sangue da cui la storia dei regni più antichi è stata dispensata. Il clangore delle armi che cozzavano l’una contro l’altra si moltiplicò in misura esponenziale; le grida di incitamento dei guerrieri impegnati a osservare le imprese individuali dei propri campioni cedettero il passo alle urla disumane che caratterizzano, in ogni epoca, le mischie tra uomini che devono guardarsi, oltre che dall’avversario che gli è di fronte, da continue minacce sul fianco e da tergo. Va aggiunto, inoltre, che i greci combattevano spinti anche da un forte senso civico e da un accentuato spirito campanilistico, che ne aumentava l’aggressività; tutt’altra spinta interiore, rispetto alle sterminate masse di uomini degli imperi asiatici, che andavano a morire in nome di un’autorità centrale la quale, spesso, gli era del tutto estranea e dalla cui vittoria avrebbero tratto ben poco giovamento.

    In questi termini, il numero contava poco. Il primo, grande impatto tra i due blocchi - e tra le due opposte mentalità, dell’arco e della spada - si risolse, naturalmente, a favore del contendente più aggressivo e motivato. Quando Dario diede avvio all’invasione della Grecia, ritardata a causa di una ribellione delle città ioniche, all’altro capo del Mediterraneo Roma si era appena costituita in repubblica, e iniziava a imporre la propria supremazia ai vicini latini. Sembrava che il gigante persiano dovesse fare un solo boccone dei greci, tanto più che questi non sembravano in grado di affrontare l’esercito imperiale facendo causa comune; e invece, gli ateniesi furono in grado di cavarsela da soli, con il solo, modesto aiuto di Platea. Nella piana di Maratona, nel 490 a.C., le falangi di Callimaco e Milziade riuscirono a vanificare l’efficacia degli arcieri nemici, accerchiando sulle ali l’esercito persiano e provocandone la rotta.

    Si trattò di una vittoria sufficiente a far concludere quella guerra, ma non il conflitto tra Grecia e Persia, che riprese un decennio dopo con il figlio di Dario, Serse. Questi badò a non lasciare nulla al caso e mobilitò un esercito sterminato, che confluì sull’Ellesponto da tutti i settori dell’immenso impero: Erodoto parla di oltre due milioni e mezzo di uomini, ma le stime dei moderni fanno ascendere l’armata d’invasione a non più di 150/180.000 soldati. Quasi 800 navi andarono a costituire i ponti di barche necessari per far attraversare lo stretto a una tale fiumana d’uomini.

    Stavolta, però, i greci si fecero trovare uniti. Gli spartani di Leonida difesero, pur se inutilmente, il passo delle Termopili dall’irruzione dell’esercito terrestre di Serse, mentre gli ateniesi di Temistocle si predisponevano ad affrontare la sterminata flotta persiana. A dire il vero, la collaborazione tra Sparta e Atene, inficiata dai sospetti reciproci e dalla endemica rivalità che caratterizzava le due città - e che mezzo secolo dopo si sarebbero tradotti in un devastante conflitto - fu tutt’altro che brillante; tuttavia Temistocle era uomo di genio, e a Salamina, nel settembre del 480 a.C., riuscì a sconfiggere la composita flotta persiana - dove trovavano spazio vascelli fenici, ionici ed egiziani - privando così l’esercito di Serse del contestuale appoggio marittimo. L’anno seguente, a Platea, la questione fu chiusa anche sul fronte terrestre da un’armata per una volta formata da numerosi contingenti greci, agli ordini dello spartano Pausania e dell’ateniese Aristide; è lo stesso Erodoto a informarci che le schiere persiane disponevano di un armamento troppo leggero per opporsi all’impatto della potente falange ellenica.

    Serse dovette abbandonare i suoi sogni di impero universale, mentre i greci non fecero in tempo a ricostruire le loro città - a cominciare dalla stessa Atene - distrutte dall’invasione, che già si ritrovarono impegnati in uno stato pressoché endemico di guerre per la supremazia sulla penisola. Le principali città-stato erano uscite galvanizzate dal confronto vincente col gigante persiano, fin troppo consapevoli della propria forza e piuttosto decise a costituire, ciascuna per proprio conto, un piccolo impero che le dispensasse dal ricercare aiuto in caso di ulteriori aggressioni esterne.

    È stupefacente pensare come i centocinquant’anni intercorsi in Grecia tra le prime guerre persiane e l’assoggettamento della penisola alla Macedonia siano stati, ad un tempo, lo scenario di una fioritura artistica e culturale con pochi eguali nella Storia - tanto da permetterci di individuare l’Ellade come la base principale della formazione culturale della società occidentale per tutte le epoche successive - e il palcoscenico di una serie di conflitti cruenti e sanguinosi. Si trattò anzi di un periodo di guerre senza soluzione di continuità e senza risoluzione, poiché per quanto efficaci potessero dimostrarsi le falangi di una città o di un’altra, per quanto brillanti risultassero le tattiche escogitate dai generali, alcuni dei quali consegnati alla Storia come condottieri di primo piano, i limiti connessi alla natura civica del servizio prestato dagli opliti, restii a impegnarsi in lunghe campagne e ansiosi di tornare alle loro occupazioni e famiglie, impediva di volta in volta al vincitore di sfruttare i propri successi e di imporre una supremazia che non fosse solo effimera.

    Le póleis in guerra

    La rassegna degli episodi bellici salienti della storia greca è necessaria per comprendere come mai le città-stato della penisola si siano consegnate alla decadenza e al nuovo astro macedone, nonostante le grandi vittorie contro Dario e Serse, con le stesse rapide cadenze che avrebbero contraddistinto la conquista dell’impero persiano da parte di Alessandro Magno. E ci aiuta a capire come mai l’unità greca - propugnata solo da alcuni intellettuali - non solo non potesse essere raggiunta pacificamente, ma anzi fosse destinata ad essere imposta dall’esterno.

    All’indomani del trionfo di Platea, si delinearono due poli principali nella penisola, ovvero due leghe facenti capo alle due póleis artefici della vittoria: la Lega peloponnesiaca, istituita da Sparta già da molto tempo, e la sua risposta ateniese, la Lega di Delo - dal nome del sito ove sorgeva il tempo dedicato ad Apollo nel quale era conservato il tesoro della confederazione.

    Una ripresa della guerra con la Persia - stante lo scopo prioritario della Lega di Delo, la liberazione delle città ioniche - si ebbe nel 468, con le vittorie di Cimone; ma poi venne l’era di Pericle, convinto assertore del fatto che Atene dovesse, prima di prefiggersi qualsiasi altro obiettivo, imporre la propria egemonia nella penisola ellenica. Nel 458 ebbe inizio la sua guerra di aggressione nei confronti delle altre città greche, al fine di sottrarre loro territori vitali per la crescita economica e militare della stessa Atene; contestualmente, Pericle si premurava di fomentare le rivolte anti-persiane in Asia Minore e in Egitto. Tuttavia, non doveva trascorrere molto tempo prima che la sua aggressività inducesse alla reazione Sparta: al comando delle forze della Lega peloponnesiaca, nel 457 quest’ultima riuscì a infliggere agli ateniesi una sconfitta non decisiva sul campo di Tanagra in Beozia.

    Nonostante che Atene avesse allargato notevolmente la zona sotto il proprio controllo, che andava ormai dall’istmo di Corinto al più settentrionale Golfo di Malide, la sua potenza non era ancora tale da indurre tutte le città greche a fare causa comune con Sparta, che dovette rinunciare, per il momento, a sfruttare la propria superiorità campale. Tuttavia, gli ateniesi avevano preteso troppo dalle loro risorse, e in Egitto lasciarono un gran numero di navi e uomini, mentre non furono neanche in grado di sedare una ribellione in Tessaglia; essi furono quindi costretti a stipulare nel 448 la pace con la Persia, detta di Callia, dal nome del negoziatore, che era il cognato di Cimone, e tre anni dopo, a seguito di altre sconfitte sul suolo greco, un’altra pace trentennale con la lega peloponnesiaca.

    Ma si trattò di poco più di una tregua, che resse meno della metà del periodo previsto. I motivi del contendere tra Atene e Sparta erano talmente tanti che non è questa la sede per esaminarli; sia sufficiente sapere che l’appoggio dato da Atene a Corcira nei contrasti tra quest’ultima e Corinto minacciava di sottrarre ai peloponnesiaci il controllo del Mar Jonio.

    La loro reazione si tradusse, in un primo momento, nell’assedio e nella caduta di Platea ad opera dei tebani.

    Pericle, ancora al timone della città ateniese, era convinto che i suoi dovessero sfruttare la loro superiorità navale sugli avversari concentrando tutti gli sforzi offensivi sul mare e mantenendo sul fronte terrestre un atteggiamento difensivo, contando anche sugli imponenti sistemi di difesa di cui egli stesso aveva promosso la costruzione negli anni precedenti. Ma la sua morte nel corso di un’epidemia di peste e la vittoria di Sfacteria nel 425 ad opera del suo successore Cleone, indussero gli ateniesi a perdere nuovamente il senso della misura e ad avviare una strategia offensiva su più fronti, come prima della pace di Callia; un tale atteggiamento, però, non portò ad altro che a nuove disfatte, e di conseguenza a una nuova pace, detta di Nicia; la potenza di Atene, che tornava alla situazione vigente prima delle sue conquiste, ne usciva pesantemente ridimensionata, rendendo pertanto inutili quei terribili anni di

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