Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Vita segreta degli antichi romani
Vita segreta degli antichi romani
Vita segreta degli antichi romani
E-book497 pagine7 ore

Vita segreta degli antichi romani

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

I loro vizi hanno conquistato il mondo

Vizi privati, misteri occulti e costumi discutibili dei conquistatori del mondo

Cosa si nasconde dietro una civiltà conosciuta per la sua grandezza e il suo splendore?
L’immagine dei romani è da sempre ambivalente. Furono conquistatori, ottimi amministratori, valenti giuristi; il loro esercito era invincibile, il loro diritto immortale e universale. Questi meravigliosi traguardi però andavano di pari passo con miseria e violenza, corruzione, immoralità, follia e lussuria. Dietro il candore dei marmi e delle toghe, gli acquedotti, le terme pubbliche, le infrastrutture materiali e amministrative della vita civile, affioravano il brulichio sotterraneo dei disperati, il marciume di una nobiltà decadente e divorata dal vizio, un sistema clientelare che assai di rado premiava il merito. E si tratta di un’ambivalenza che i romani stessi, nella loro letteratura, ci hanno tramandato. Questo libro scava negli aspetti più nascosti della vita dell'Urbe, quelli di cui Roma non poteva certo farsi vanto e che non emergono facilmente dai racconti celebrativi dei condottieri e delle battaglie. Un viaggio alla scoperta delle fondamenta profonde di una civiltà che ebbe un successo incomparabile, costruendo un impero durato quasi mille anni. Le impressionanti somiglianze con la nostra cultura, pur nelle innegabili differenze, inducono inevitabilmente a riflettere sul significato reale della civiltà come siamo soliti intenderla, sul valore della politica, sulla natura stessa di una convivenza complessa.

Una ricerca appassionante e documentatissima sulla vita degli antichi romani, per conoscere finalmente luci e ombre della grande civiltà da cui discendiamo.

I temi trattati nel libro:

• dei vizi e delle virtù
• dell’arte della politica
• delle facce di bronzo
• dell’altra metà del cielo
• dell’occulto e del mistero
• della famiglia imperiale
• degli adulatori e delle malelingue
• di miscellanea e varietà


Enrico Benelli
(Roma 1967), archeologo, è specializzato in modo particolare nello studio dell’epigrafia etrusca. I suoi interessi lo hanno portato ad approfondire soprattutto il periodo più recente della storia etrusca, dedicandosi a quei temi storici e sociali connaturati allo studio della documentazione epigrafica. È redattore del Corpus inscriptionum Etruscarum e del Thesaurus linguae Etruscae, e svolge attività di ricerca e insegnamento in Italia e all’estero; la sua produzione scientifica conta numerosi articoli e monografie su riviste scientifiche, oltre ad alcuni articoli di divulgazione su «Storica» del «National Geographic» e «Focus Storia».
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854149328
Vita segreta degli antichi romani

Correlato a Vita segreta degli antichi romani

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia antica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Vita segreta degli antichi romani

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Vita segreta degli antichi romani - Enrico Benelli

    82

    Prima edizione ebook: febbraio 2013

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4932-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di geco srl

    Enrico Benelli

    Vita segreta

    degli antichi romani

    Questo è per mio nonno,

    che mi ha portato al Colosseo

    Ai lettori

    L’interesse per la storia romana sta conoscendo un periodo di nuovo fulgore, dalla letteratura alla cinematografia (non solo occidentale: si veda il recentissimo Thermae Romae, con un improbabile architetto nippo-romano catapultato nel Giappone di oggi), fino ad assumere a volte toni carnascialeschi da sagra paesana. La curiosità per una conoscenza più approfondita è, di conseguenza, molto aumentata; musei e siti archeologici, anche minori, stanno attraendo sempre maggiore attenzione. Di fronte a un proliferare infinito di saggistica, perché aggiungere un altro titolo?

    La questione sta soprattutto nel metodo, nelle domande che stanno alla base di questo libro.

    Chi erano i romani? L’immagine vulgata di questa civiltà è schizofrenica come poche altre. Da una parte ci sono i conquistatori, gli amministratori, i giuristi, l’esercito invincibile, un diritto immortale, laico e universale; dall’altra, immagini torbide di miseria e di violenza, di corruzione, di immoralità scandalosa, di follia e di lussuria. Da una parte il candore dei marmi e delle toghe, gli acquedotti, le terme pubbliche, le infrastrutture materiali e amministrative della vita civile; dall’altra il brulichio sotterraneo dei disperati, il marciume di una nobiltà decadente e divorata dal vizio. Il paradosso è che queste immagini, nel bene o nel male, risalgono ai romani stessi, a quello che la loro stessa letteratura ci ha tramandato.

    Dov’è la realtà? Com’erano davvero i romani? Sarebbe facile rispondere che la realtà sta nel mezzo; invece non è così. La questione è mal posta. Bilanciarsi tra questi due poli significa rimanere sempre su un’unica linea, ragionare in senso monodimensionale. La storia non sta su quella linea, sta da un’altra parte.

    Intendiamoci, in questo libro non c’è tutta la storia romana. Questo è per lo meno ovvio, visto che si tocca solo qualche tema specifico. Ma anche all’interno di ognuno di questi temi ho scelto solo alcuni esempi, selezionandoli da un repertorio immenso; probabilmente mancano molte cose che vi aspettereste di trovare. Ma, sicuramente, c’è qualcosa di inatteso anche per il lettore più disincantato.

    La massa della produzione bibliografica è immensa. Il database Dyabola, che raccoglie quasi tutto l’esistente sull’antichità classica dal 1955 a oggi, conta, a ottobre 2012, 670.000 titoli, dei quali circa 400.000 solo per gli ultimi vent’anni. Un terzo di questi, più o meno, riguarda direttamente o indirettamente la storia romana. Cifre analoghe si ricavano dal «Bulletin analytique d’histoire romaine». Libro più, libro meno, ogni anno vengono pubblicati circa 6000 titoli di storia romana, tra volumi e articoli. Ossia venti volte la capacità di lettura di una persona, ammesso che qualcuno abbia la possibilità di passare la propria vita solo a leggere, dieci ore al giorno, tutti i giorni dell’anno.

    Per usare un linguaggio aristotelico, tra estensione e comprensione ho optato per la seconda. In sostanza, ho preferito parlare di pochi argomenti in modo approfondito, più che di tanti in modo superficiale. Credo che solo così si possa dare un’idea del dettaglio quotidiano dello svolgersi della storia, dei mille fattori che si incrociano dietro a ogni evento.

    Oltre a questa, c’è un’altra limitazione, di carattere cronologico. La storia romana dura tredici secoli, ma non tutti sono documentati allo stesso modo. Le vicende che sono trattate in questo libro cominciano ad apparire nelle fonti con qualche consistenza solo a partire dalla metà del ii secolo a.C.; è il momento in cui la struttura statuale della repubblica romana comincia a maturare. Peccato solo che maturerà così in fretta che marcirà sulla pianta. Prima di allora, a parte poche eccezioni clamorose, sembra che Roma fosse popolata solo da galantuomini perennemente interessati al bene del Paese. Il fatto, in sé, è abbastanza improbabile. Diciamo, piuttosto, che in quel periodo il potere stava così saldamente in mano a una élite aristocratica, che nessuno avrebbe potuto nemmeno pensare di avanzare dubbi sui suoi detentori.

    Per quanto riguarda il termine inferiore, non ho ritenuto opportuno spingermi oltre l’età dei Severi e dei loro epigoni immediati, se non con qualche citazione sporadica. Dopo l’uccisione di Severo Alessandro, come è noto, inizia una fase caotica di disgregazione dell’impero, sia per la pressione dei popoli confinanti (quando andavo a scuola si chiamavano invasioni barbariche, anche se adesso è passato di moda), sia per lo sviluppo di spinte centrifughe dallo stesso interno. Per questa epoca difficile disponiamo di pochissime fonti storiche, spesso di affidabilità piuttosto dubbia, e ci sono molti punti essenziali che restano ancora completamente oscuri. È il periodo, per esempio, della straordinaria parabola dell’impero palmireno, secessionista ma romano al tempo stesso, e di quelli che gli storici tedeschi chiamano Soldatenkaiser, gli imperatori-soldati: un altro libro, eventualmente.

    Con il passaggio al IV secolo d.C. la situazione si inverte: il problema, ora, è che le fonti sono davvero troppe. Solo che gli storici diventano, se possibile, ancora più problematici (fatto salvo, forse, solo il grandissimo Ammiano Marcellino, e poco più), limitandosi essenzialmente a panegirici stucchevoli dell’imperatore in carica e dei suoi modelli, accompagnati da denigrazioni diffamatorie dei suoi rivali. Ma esistono altre fonti fondamentali per ricostruire la storia, tante fonti, e ottime: una massa immensa di documenti di carattere giuridico, più il mare infinito della letteratura cristiana. Entrambi questi settori, per poter valutare correttamente ogni informazione, richiedono la competenza di chi dedica solo a questi la propria vita professionale. Toccarli con una visione superficiale non avrebbe senso; oltre a ciò, parti importanti di questa documentazione sono state appena dissodate, e molto è ancora da scoprire.

    In conclusione, per unità di argomento, sempre per dirla con Aristotele, gli avvenimenti descritti in questo libro si concentrano sostanzialmente in soli quattro secoli, che sono considerati il periodo classico della civiltà romana. Se vogliamo dare delle date simboliche, possiamo mettere da una parte il 146 a.C. (la distruzione di Corinto e Cartagine, e l’inizio dell’irreversibilità della dominazione romana sul mondo euromediterraneo) e dall’altra il 235 d.C. (la salita al trono di Massimino il Trace, la quintessenza del Soldatenkaiser). Solo in pochi casi ho fatto accenni a eventi anteriori o posteriori.

    Per ogni argomento ho cercato di usare le ricerche storiche più aggiornate possibili – analizzandole, ovviamente, a partire dalle mie posizioni critiche. In qualche caso, alcuni lettori potrebbero trovare uno scostamento sostanziale rispetto a molte convinzioni diffuse a proposito di certi episodi della storia romana. A differenza di molti testi rivolti al grande pubblico, non ho mai usato letteratura secondaria, ma sempre e solo le fonti primarie, verificando tutta la bibliografia più aggiornata sugli argomenti che ho trattato; il che, ovviamente, non esclude che ci possano essere degli errori, ma la perfezione non è di questo mondo. La storia, di qualunque luogo e di qualunque tempo, non si può mai ricostruire sulla letteratura secondaria: in un saggio noi non troviamo le fonti, ma la loro lettura da parte di un autore moderno, che magari si è a sua volta appoggiato su altri autori moderni per parte del suo lavoro. Tutto questo può essere correttissimo, intendiamoci, ma non possiamo non sottoporlo a valutazione e, per farlo, dobbiamo conoscere le fonti.

    La cosa importante, è che ho cercato di rispettare sempre l’imperativo metodologico di ogni ricerca, portando in un testo destinato al grande pubblico gli stessi criteri che si usano nell’editoria scientifica. I punti essenziali sono due: verificare sempre la fonte diretta (un testo letterario, un papiro, un’epigrafe ecc.), in lingua originale – quanto meno per le lingue accessibili, il greco e il latino, letterari, dialettali o volgari che siano; e considerare sempre il contesto della fonte. Per uno scrittore antico, per esempio, in ogni singolo passo bisogna sempre chiedersi: «Perché ha scritto questo?». E, per rispondere a questa domanda, si deve passare per altri interrogativi: quando scrive, dove, a quale strato sociale appartiene, qual è la sua formazione, quali sono le sue fonti, e così via. Il fatto di andare direttamente alla lingua originale è cruciale, anche perché quasi tutte le fonti dirette (come le epigrafi o i papiri) non sono disponibili in traduzione, e a volte presentano problemi interpretativi che richiedono pratica abituale della lingua.

    Non si può ricostruire la storia prendendo le notizie degli autori antichi e considerandole pura cronaca, soprattutto quando fanno riferimento a fatti privati, e quindi non verificabili. E, tutto sommato, storicamente insignificanti. Che l’imperatore Augusto si facesse mordicchiare i testicoli da bambini che nuotavano nella sua piscina, come racconta Svetonio, non è un fatto: non possiamo sapere se è vero, Svetonio aveva tutto l’interesse a intorbidare la fama degli imperatori anteriori a Nerva e Traiano, e, soprattutto, anche se fosse vero, non avrebbe alcuna rilevanza.

    In questo libro sono contenuti dei racconti che esemplificano alcuni argomenti a mio avviso importanti per affacciarsi alla storia romana. Uno dei messaggi che ho inteso trasmettere è che ogni evento storico, grande o piccolo, per poter essere valutato, deve essere conosciuto il più possibile nel dettaglio; le generalizzazioni mandano sempre fuori strada. Per questo, la sua struttura è ribaltata rispetto a quella di un manuale. Un manuale è come una foto panoramica con un grandangolo: si vede l’insieme, ma i dettagli sono confusi; questo libro è come una serie di scatti con un macro, che cercano di penetrare all’interno della struttura stessa del processo storico. Scegliendo un numero limitato di racconti, e dettagliando questi il più possibile (compresi tutti i riferimenti esterni che mi sono sembrati necessari), ho cercato di mettere il lettore nella condizione di poter riflettere su alcuni singoli punti della storia del mondo romano. Dietro ognuno di questi episodi, c’è un lavoro di analisi delle fonti. Per questo, a volte non troverete scritto successe questo, ma il tale autore dice che successe questo: non è semplice pedanteria, è un’informazione indispensabile per relativizzare determinate notizie.

    Cicerone diceva che la storia è maestra della vita; forse è così, forse no. In ogni caso, dalla storia romana abbiamo molto da imparare. In un bell’articolo sul «Corriere della Sera», circa un ventennio fa, Viviano Domenici notava che i fantarcheologi si trastullano volentieri con egiziani, etruschi, maya, e similari, ma mai con i romani. L’antichità romana, scriveva Domenici, è troppo familiare nel nostro quotidiano per potervi ricercare il mistero e l’occulto. In questo sta l’universalità della storia romana, una storia dalla quale forse non siamo ancora usciti; se sia stato il cristianesimo ad assorbire la romanità, o piuttosto il contrario, è discussione irrisolta. Forse, verrebbe da pensare, gli dèi hanno ascoltato la preghiera del carmen saeculare di Orazio, e veramente il sole non ha ancora visto nulla al mondo più grande di Roma. È questo che fa sì che l’approccio alla storia romana non sia mai neutro, ma sempre carico della nostra visione del mondo contemporaneo. Nel bene o nel male, Roma è ancora con noi; lo hanno mostrato in modo magistrale i Monty Python, che nel loro capolavoro Brian di Nazareth hanno proiettato nell’antichità romana i nostri anni Settanta. Quando il protagonista deve scrivere su tutti i muri di Gerusalemme Romani ite domum, non fa altro che latinizzare, e romanizzare, Yankee go home.

    Il senso di questo libro, sostanzialmente, è portare al grande pubblico un metodo della ricerca antichistica, che spesso viene abbandonato quando si passa alla divulgazione, perché si ritiene sufficiente raccontare le solite storielle, tanto i lettori non capirebbero, e comunque si annoierebbero. Credetemi, sarebbe stato molto più facile anche per me.

    Il senso di questo libro, in poche parole, è scardinare la storia romana da una visione consueta, filtrata attraverso la lente deformante della moralità. La deformazione è già antica, intendiamoci, risale agli storici romani; ogni evento, ogni personaggio, è giudicato. La storia è una sequenza di scontri, giusti o ingiusti, tra buoni e cattivi; magari gli scrittori possono accapigliarsi tra loro su chi esattamente sia il buono e chi il cattivo, ma la chiave di lettura è sempre la stessa. Non dobbiamo cadere nella loro trappola. La storia è un’altra cosa.

    Roma, ad Spem veterem, novembre 2012

    Avvertenza

    Le traduzioni dei passi citati nel testo sono tutte dell’autore, con le seguenti eccezioni:

    • Plauto, Tutte le commedie, a cura di E. Paratore, Newton Compton, Roma 1972-2004.

    • Sallustio, Svetonio, Tacito: Storici romani, a cura di F. Casorati, C. Conti, G.D. Mazzocato, L. Storoni Mazzolani, M.P. Vigoriti, Newton Compton, Roma 2011.

    Parte prima

    Dei vizi e delle virtù

    Dove si vede quali siano i valori e i disvalori del mondo romano, e si nota che in fondo non tutti li condividono, e che comunque certi ideali sono sì bellissimi, ma tanto tutti sanno che restano solo ideali e la realtà è un’altra cosa; e dove si discorre del mestiere più antico del mondo e delle sue sfaccettature, banali o inattese che siano.

    1

    Mos maiorum

    I costumi degli antenati

    Non appena Dante emerse infine sull’isola del Purgatorio, subito apparve «un veglio solo, / degno di tanta reverenza in vista, / che più non dee a padre alcun figliuolo». Chi egli fosse, lo apprendiamo dal discorso di Virgilio, che per sostenere le ragioni del viaggio del suo discepolo, lo blandisce con le famose parole: «libertà va cercando, ch’è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta. / Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara / in Utica la morte ove lasciasti / la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara». In che modo un pagano, e per giunta suicida, potesse essere destinato alla beatitudine eterna, Dante non lo spiega, e gli esegeti si affannano da secoli per capirlo. Ma Catone (detto Minore, per distinguerlo dal suo antenato noto come il Censore) era immagine troppo esemplare per richiedere chiarimenti dottrinali.

    Dalla letteratura medievale, alle gallerie di quadri, affreschi, incisioni, stampe, arazzi, e via discorrendo, che affollano il mondo europeo dal Rinascimento fino almeno al xix secolo, l’antichità romana compare, e massicciamente, quasi solo sotto la forma di esempi morali, in un profluvio di ratti delle Sabine, Muzi Scevola, giuramenti degli Orazi, suicidi di Lucrezia, uccisioni di Virginia, e chi più ne ha più ne metta.

    L’accento sulla moralità è caratteristico della stessa letteratura romana; scrittori e artisti del secondo millennio non hanno fatto altro che prendere ciò che trovavano. Questo è un effetto della natura dell’etica romana: tecnicamente parlando, i romani non avevano una morale come la intendiamo noi, ma un mos maiorum, gli usi degli antenati. La differenza è profonda. Pur con tutte le diversità del caso, che a volte sembrano radicali, nel mondo moderno non esiste forma di moralità che non si appoggi su una religione rivelata; anzi, su un insieme di religioni rivelate che, rivendicando basi comuni, tendono a somigliarsi parecchio, soprattutto in una componente laica come l’etica. La fonte primaria delle norme è, quindi, unica. Si può discutere sulla sua interpretazione; si può arrivare, in alcuni punti, anche a conclusioni opposte, ma sempre e comunque a partire da una base che, come tale, è intangibile in quanto rivelata. Anche gli eroici sforzi degli illuministi di trovare una religione (e un’etica) naturale erano minati in partenza dal fatto di ragionare su elementi che le religioni, strutturalmente, non possono che condividere; che sono un punto d’arrivo necessario alla loro conservazione e perpetuazione, non un punto di partenza ancestrale innato nel genere umano.

    Nel mondo romano, come in tutta l’antichità, le cose stavano diversamente. Che cosa fosse giusto o ingiusto, lo stabilivano gli esempi degli antenati illustri. Scopo della storia era quindi, primariamente, preservare e spiegare questi esempi. Anche nel mondo ormai disincantato della tarda età repubblicana, la prospettiva non cambiò di molto; certo, le spiegazioni diventarono meno ingenue, si cercarono i retroscena dietro le apparenze… ma, in fondo in fondo, anche questi scrittori andavano sempre a cercare moralità e immoralità come motori primari del processo storico. La storia romana ci appare come un’opera teatrale, dove i protagonisti più o meno grandi agiscono solo perché spinti da motivazioni profondamente morali (come giustizia e magnanimità) o immorali (come cupidigia e invidia), e tutti gli altri esseri umani sono solo un coro indistinto che loda i trionfi e piange le disgrazie. I re sono stati cacciati perché Tarquinio il Superbo ha stuprato Lucrezia, e nello stesso modo ogni evento storico viene fatto discendere solo da pulsioni positive o negative di singole persone: questo è il quadro che ci presenta la letteratura antica. Ma che la storia non fosse questa, i romani lo sapevano benissimo; basti leggere, a esempio, le disincantate lettere di Cicerone, oppure le migliaia di testimonianze della vita quotidiana che, più o meno fortunosamente, sono giunte fino a noi. Spesso onesti, a volte ingenui, altre volte attenti a difendere i propri interessi anche con la forza, legati alla famiglia e agli amici, ma critici verso parenti o vicini importuni, i romani della strada sono semplicemente persone che conducono un’esistenza nella quale anche noi potremmo riconoscerci. La letteratura è il regno delle gesta esemplari dei grandi, nel bene o nel male; la realtà è un’altra: ed è un’altra, ovviamente, anche per gli stessi grandi, che non sarebbero mai potuti essere tali se non avessero avuto una comprensione del mondo reale nel quale si muovevano.

    La personalizzazione delle vicende storiche e politiche sta inoltre dietro un comportamento tipico dei romani, che ritroviamo in tutta la letteratura. Prendiamo come esempio le orazioni di Cicerone (le uniche a noi pervenute, ma da quanto ne sappiamo anche i suoi colleghi si comportavano allo stesso modo). L’avversario veniva sempre attaccato sul piano morale, suggerendo, o dichiarando apertamente, fatti ignobili della vita personale che erano, per loro stessa natura, indimostrabili: in questa ottica, anche ammesso che l’azione politica dell’accusato fosse stata positiva e utile per lo Stato, la presenza di occulte motivazioni disoneste ne andava a demolire il valore. Ma che questo fosse solo un codice di comunicazione era evidente per chi ascoltava: non di rado, infatti, le accuse personali riguardavano fatti di gravissima rilevanza penale (stupri, incesti, omicidi abilmente occultati ecc.), ma non risulta che da queste siano mai derivati provvedimenti giudiziari, segno che nessuno, neppure l’accusatore, aveva mai pensato che potesse esserci qualcosa di reale. Gli ascoltatori sapevano riconoscere il codice; noi dobbiamo seguire il loro esempio. Lo stesso discorso vale per molti storici di età imperiale, che hanno quasi sempre la necessità di esaltare il sovrano regnante, e quindi di demolire i suoi predecessori: compito facile per chi aveva lasciato una cattiva fama, più arduo per chi invece era ricordato come esempio positivo. In questi casi, si ricorreva appunto all’insinuazione di innominabili vizietti privati: anche qui, dobbiamo riconoscere il codice, e non prenderli alla lettera.

    Per chi volesse farsi un’idea del significato della moralità come chiave di lettura della storia e della società, consiglio la lettura dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo: non certo per qualità letteraria, né per profondità di riflessione, ché se la prima è modesta, la seconda è pressoché assente. Ma è proprio per questo che l’opera è interessante: si tratta di un repertorio, un vero e proprio prontuario di esempi morali positivi e negativi attinti dalla storia passata, compresa quella mitica. Il conformismo da benpensante dell’autore è la garanzia che quello che leggiamo riflette opinioni largamente condivise.

    Di Valerio Massimo sappiamo pochissimo, a parte quello che ci dice lui stesso nel testo dell’opera; i riferimenti cronologici più evidenti ne collocano la vita nel periodo di Tiberio (al quale è dedicato un panegirico di un tono adulatorio quasi imbarazzante, soprattutto se lo leggiamo in parallelo all’immagine devastante che danno dello stesso imperatore Svetonio e Tacito), anche se è possibile che la composizione dell’opera si sia protratta fino ai primi anni del regno di Claudio, se è corretta l’identificazione del suo amico Sesto Pompeo, ricordato tristemente nel testo come già scomparso, con l’omonimo personaggio che Caligola fece morire di fame in prigione. I Detti e fatti memorabili, nonostante il valore letterario tutt’altro che esaltante, furono largamente usati e citati dagli scrittori di epoca romana (Plinio il Vecchio, Plutarco, e Aulo Gellio, tra gli altri), a testimonianza di una diffusione amplissima, che certamente partì dalle scuole di retorica, alle quali faceva comodo un prontuario di esempi da citare. Sull’uso di questi nobili exempla nell’oratoria giudiziaria ci informa, tra gli altri, un sapido epigramma di Marziale, dedicato al pomposo avvocato Postumo: «La mia causa non è per violenza, omicidio o avvelenamento, ma per tre caprette; ho denunciato il vicino perché me le ha rubate, e il giudice vuole che lo provi. Tu declami a gran voce, e con ampi gesti, di Silla, di Mario, di Muzio Scevola, degli spergiuri dei Cartaginesi, di Canne, della guerra di Mitridate… per favore, Postumo, ora parla delle tre caprette!».

    Nel Medioevo Valerio Massimo ebbe un successo enorme, e fu precocemente tradotto in italiano (esiste una volgarizzazione attribuita addirittura al Boccaccio). L’estrazione sociale certamente non eccelsa del suo autore (che dovette cominciare la sua carriera letteraria come segretario al seguito del già citato Sesto Pompeo), il successo dell’opera, la concordanza con opinioni morali che sappiamo essere largamente diffuse, tutti questi elementi ci fanno capire che nel testo leggiamo una visione del mondo caratteristica del romano medio e perbene della prima età imperiale.

    La corrispondenza tra i valori teorici di una società e il comportamento reale è sempre una questione piuttosto difficile da definire, anche perché questi valori non sempre si traducono in regole giuridiche, e a volte esistono solo come norme comportamentali del tutto generali. Inoltre, non è detto che l’esistenza di una legislazione significhi in maniera automatica che determinate norme vengano fatte rispettare realmente, e in modo sistematico; il potere costrittivo di una società, che obbliga i suoi appartenenti a conformarsi a determinati imperativi comportamentali, può essere estremamente variabile, ed è molto difficile ricostruire la realtà a tanti secoli di distanza. A livello molto generale, gli studi antropologici mostrano che, più o meno in ogni luogo e tempo, comunità di dimensioni molto ridotte hanno una capacità costrittiva fortissima, dal momento che viene esercitato un controllo universale e incrociato sui loro appartenenti, che sono quindi tenuti a comportamenti rigidamente conformi alle norme universalmente accettate. In comunità di dimensioni più ampie questo sistema di costrizioni tende a dissiparsi; qui subentra allora la necessità di una legge anonima e impersonale, e di strutture amministrative che si curino del rispetto della legge stessa. Ma naturalmente, la legge non può coprire minuziosamente ogni aspetto della vita quotidiana, lasciando margini di libertà che, a seconda degli individui e delle circostanze, possono essere percepiti come positivi (la vita libera della città, senza l’occhiuta sorveglianza di parenti e vicini che soffoca l’individuo nei piccoli paesi) o negativi (l’incapacità di controllare realmente le metropoli, che diventano, o vengono viste, come covi di iniquità e di depravazione, dove il delitto regna sovrano in sostanziale impunità).

    Quando ci confrontiamo con gli scrittori antichi dobbiamo sempre tener presente che il periodo romano, caratterizzato com’è da un forte sviluppo economico generale, da una diffusione sempre più larga del benessere materiale, e dall’enorme espansione dei centri urbani – e di forme di vita che sono squisitamente cittadine, in contrapposizione con quelle vicane o rurali – offre ai commentatori tutta la possibile gamma delle letture compresa tra questi due poli estremi, e che quindi lo stesso fenomeno può dare adito a interpretazioni diversissime. È impossibile dire se esistessero nel mondo antico le legalizzazioni diffuse di pratiche illegali, evidentemente percepite da molti come poco gravi o poco dannose, alle quali siamo spesso abituati oggi. In questo senso, è sicuramente interessante osservare come la ricostruzione del rapporto tra legislazione e vita dei cittadini nel mondo romano sia molto diversa a seconda delle esperienze di vita dei diversi studiosi moderni. Per esempio, il ripetersi di leggi contro l’ostentazione del lusso nel corso dell’età repubblicana, secondo alcuni è segno del vigore con cui il legislatore aveva deciso di affrontare la questione, secondo altri indica al contrario l’inefficacia delle leggi stesse. Un esempio straordinario di quanto possa influire l’esperienza contemporanea dello storico si trova nelle diverse opinioni a proposito dell’ager publicus romano formato con le confische di terreni a città italiane sconfitte in guerra; molti di questi terreni, nonostante appartenessero nominalmente allo Stato romano, erano lasciati di fatto in mano ai vecchi proprietari, non più in condizione di proprietari beninteso, ma di possessores. È opinione largamente diffusa che questi possessores pagassero un canone allo Stato romano; ma vi sono illustri studiosi (non italiani) che ritengono che questo sia impossibile, dal momento che Roma non intraprese mai operazioni di catastazione sistematica di questi terreni, e quindi non si sarebbe potuto determinare con precisione l’importo del canone dovuto. Chi sa come funzionano le imposte sui beni immobili nell’Italia di oggi, pagate in base a un calcolo approssimativo riferito a valori dichiarati dalla buona fede del contribuente, può solo sorridere di fronte a questa posizione di principio.

    Ciò detto, vi sono state certamente molte azioni politiche che sono state motivate da convinzioni morali, anche se difficilmente possiamo penetrare la mente degli antichi uomini di Stato, e ricostruire le motivazioni soggiacenti a un determinato atto. Se gli eroismi di Muzio Scevola, Orazio Coclite e Clelia non sono forse storici, affondati come sono in quello straordinario affresco epico dell’assedio di Porsenna che è, a tutti gli effetti, il mito fondante della repubblica romana, catalizzatore di tutti gli esempi di virtù ai quali deve ispirarsi il civis Romanus, vi sono altri fatti ambientati in momenti abbastanza recenti da non poter dubitare della loro storicità. Un esempio tra molti è quello del console Atilio Regolo, che per nessun’altra motivazione, se non una volontà di affermare l’adesione incondizionata alle virtù civiche del senatore e magistrato romano, ritornò a Cartagine per incontrarvi una fine orribile.

    Un altro caso di azione politica certamente dettata da considerazioni morali fu l’intervento di Cicerone nel processo per il ben noto scandalo della Bona Dea. Ricapitoliamo qui brevemente gli eventi. Sul finire dell’anno 62 a.C., la notte del 4 dicembre, come di consueto venne celebrata la festa tradizionale in onore della Bona Dea, una delle cerimonie più antiche della religione romana, che prevedeva l’esecuzione di rituali sacrificali a opera di sole donne (tra le quali le vergini vestali), in un ambiente chiuso e interdetto per l’occasione a qualunque uomo. La proibizione aveva un valore tanto forte che addirittura eventuali affreschi con soggetti di sesso maschile presenti nella casa (umani o animali che fossero) dovevano essere coperti da teli perché non contaminassero il rituale. Per motivi che restano assolutamente ignoti, il famigerato Clodio (che all’epoca si chiamava ancora Claudio, precisamente Publio Claudio Pulcro, e non era ancora famigerato, ma era semplicemente il rampollo cadetto di una famiglia nobilissima, appena eletto questore per l’anno successivo) decise di intrufolarsi nella casa del pontefice massimo durante la celebrazione dei riti. Il pontefice massimo era all’epoca niente meno che Giulio Cesare, e pare che Clodio avesse una relazione con la moglie Pompea; certamente, avrebbe potuto scegliere mille occasioni meno problematiche per andare a trovare la sua amante, e quindi non si riesce onestamente a capire perché proprio quella notte si fosse presentato alla porta della casa del pontefice travestito da donna e accompagnato da un’ancella connivente. Mentre l’ancella era in cerca di Pompea, il giovane decise di entrare a curiosare, imprudenza forse non prevista nel piano originario, e la sfortuna volle che venisse incontrato da un’altra ancella, che gli chiese chi fosse. Gli abiti femminili, con il velo che copriva pudicamente il volto, e la scarsa illuminazione, lo avevano protetto fino a questo punto; ma la voce lo tradì, e l’ancella diede l’allarme. La madre di Cesare, Aurelia, ordinò l’interruzione delle cerimonie, fece sigillare le porte e organizzò una caccia all’uomo, che portò alla fine alla scoperta di Clodio, sbattuto fuori in malo modo. La cosa avrebbe anche potuto finire qui; Cicerone, scrivendo ad Attico, rivela tutta la sua indignazione per il sacrilegio, ma la faccenda sembra di importanza relativa. Tuttavia, Quinto Cornificio decise che tutto questo non poteva passare sotto silenzio e portò il fatto formalmente all’attenzione del senato. I suoi motivi ci sono completamente ignoti: non si può escludere che una persona nota per essere un rigido bacchettone avesse agito per semplice indignazione per il sacrilegio; fatto sta che la denuncia attivò il processo. I pontefici dovettero dichiarare la necessità di ripetere i riti perché i precedenti erano da ritenersi nulli. Pur essendo ancora ai primi passi della sua carriera politica, Clodio aveva già dato fastidio a qualcuno, che ne approfittò immediatamente per soffiare sul fuoco; tanto per fare un esempio, era stato proprio lui che nel 65 aveva imbrigliato Catilina in un processo per concussione, conclusosi con un’assoluzione, ma protrattosi tanto a lungo da impedire la candidatura dell’accusato alle elezioni consolari – uno dei fattori che si andarono ad accumulare per scatenare la famosa congiura del 63, della quale parleremo più avanti. Gli storici sono pieni di allusioni a relazioni pericolose tra Catilina e Cesare, anche se di fatto nulla fu mai provato; ma, forse, l’occasione di punire un antico avversario dell’ormai defunto golpista, per giunta cacciatosi da solo in una situazione così paradossale e boccaccesca, era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, e Cornificio era notoriamente amico di Cesare. Durante il processo, sarebbe emersa un’altra e potente inimicizia, quella dell’ex cognato Lucullo.

    In effetti, i primi passi della carriera di Clodio erano stati disastrosi su tutti i fronti. Seguendo le tradizioni dell’aristocrazia romana, appena si era presentata la prima occasione, il giovane patrizio aveva approfittato della spedizione in Oriente di Lucullo, allora marito della sorella, per farsi le ossa nell’esercito, prima tappa obbligata di ogni carriera politica; il cognato, ovviamente, lo aveva accolto tra i suoi collaboratori, cominciando ad affidargli incarichi minori. Ma, in un momento in cui la campagna non stava andando tanto bene, e già si profilava l’arrivo del rivale Pompeo, che avrebbe rimpiazzato Lucullo con incarichi e mezzi superiori, una parte importante dell’esercito, che stava svernando a Nisibi, si ammutinò. Clodio si schierò dalla parte dei soldati, insoddisfatti della condotta della campagna, e anzi fu incolpato di avere causato lui stesso l’ammutinamento, mettendosi alla testa delle legioni ribelli. Radiato seduta stante dall’organico dei collaboratori del cognato, Clodio se ne andò tranquillamente nell’adiacente provincia di Cilicia, dove era stato appena nominato governatore Quinto Marcio Re, marito di un’altra delle sue sorelle. Ignorando gli eventi di Nisibi, Marcio gli affidò un incarico abbastanza importante, il comando di una flottiglia per la caccia ai pirati che infestavano la Cilicia. Anche questo fu un fallimento: Clodio fu sconfitto e fatto prigioniero; il re di Cipro, al quale si era rivolto per avere un prestito per pagare il riscatto, offrì una cifra tanto bassa che Clodio si sentì offeso, e i pirati la presero a ridere. La liberazione avvenne infine quando l’avanzata inarrestabile della flotta di Pompeo, e le notizie della clemenza da lui dimostrata nei confronti di chi si arrendeva, consigliarono ai suoi rapitori di compiere un gesto di distensione nei confronti della potenza romana: non prima, però, che avessero ripetutamente abusato del prigioniero, almeno se dobbiamo credere alle maligne insinuazioni di Cicerone. Rientrato in patria, e abbandonate le velleità militari, Clodio tentò l’altra strada praticata dai giovani al momento di iniziare una carriera politica, quella di farsi accusatore in un processo per delitti contro lo Stato: questo fu, appunto, il processo per concussione a Catilina, che fu un altro fallimento (anche se l’assoluzione fu palesemente scandalosa, ma l’imputato aveva amici ricchi e potenti). Gli andò meglio con il terzo tentativo; Licinio Murena, che stava partendo come governatore della Gallia, lo prese con sé e lo fece lavorare nel suo staff. Cicerone più tardi avrebbe sostenuto che anche in questo incarico Clodio avrebbe perpetrato ogni sorta di crimine; ma queste affermazioni risalgono al periodo nel quale i due erano ormai divisi da un odio personale insanabile, e non esiste insulto che l’arpinate risparmiasse al suo rivale. In realtà, lo stesso Cicerone, anni prima, sul finire del 63, difendendo (con successo) Murena da un’accusa di corruzione elettorale, appena dopo la sua elezione a console, non aveva lesinato lodi sul suo operato in Gallia, prendendolo a esempio di ottima amministrazione; probabilmente, almeno una volta, Clodio era riuscito a combinare qualcosa di buono, come dimostra anche la sua elezione alla questura nel 62, immediatamente prima della bravata della Bona Dea, con la quale rischiò seriamente di rimetterci il posto e forse anche qualcosa di più.

    Nel diritto romano (a differenza, per esempio, di Atene) non esisteva una procedura specifica per perseguire delitti di carattere religioso, a parte i furti nei templi e la fornicazione con le vergini vestali; anzi, si potrebbe dire che la stessa idea di un crimine a sfondo religioso non fosse assolutamente contemplata nel campo d’azione della giustizia: era materia che interessava esclusivamente i sacerdoti, che dovevano curarsi di placare gli dèi irati con opportuni riti e sacrifici. Per questo motivo, fu proposto al voto popolare un disegno di legge che istituiva un tribunale specifico incaricato di giudicare Clodio, identificando il suo crimine, con una notevole forzatura legislativa, come incestum, la fattispecie che raggruppava sia ciò che anche noi chiamiamo incesto, sia i rapporti illeciti con le vestali, ai quali veniva evidentemente equiparata, in base a questo provvedimento ad hoc, la violazione di un rituale riservato alle donne. Sembra che il testo della legge fosse stato redatto volutamente in maniera abbastanza ambigua, prevedendo che la giuria fosse composta su nomina diretta del pretore, fatto che non mancò di suscitare polemiche, e su cui si focalizzò tutto il dibattito: forse era proprio questo l’obiettivo dei proponenti, in modo da impantanare l’azione in tanti di quei cavilli procedurali che alla fine la si sarebbe abbandonata, vista anche la dubbia rilevanza penale del sacrilegio di Clodio. Al momento della votazione, dopo che lo stesso console aveva suggerito il respingimento del suo progetto di legge, bande di agitatori guidate da un gruppetto di giovani di buona famiglia amici di Clodio, infiltratisi con la probabile connivenza del console tra il personale che gestiva la procedura comiziale, fecero sparire le schede con il voto di approvazione, e distribuirono al popolo solo quelle con il voto negativo. Catone (proprio quello che abbiamo trovato all’inizio del capitolo) fu talmente disgustato da questa violazione palese della legalità, che insultava i comizi, pilastro ideale dello Stato romano e della volontà del popolo, riducendoli a una pura farsa, che, compiendo anche lui una gravissima infrazione a numerose leggi, balzò sui rostri e tenne un infiammato discorso che portò all’annullamento del voto e alla convocazione di urgenza del senato. Il sassolino stava diventando una valanga.

    Il senato sentì chiamato in causa lo stesso principio di legalità, e prese la decisione drastica di bloccare ogni attività legislativa fino alla definizione del tribunale che avrebbe giudicato il giovane scapestrato. Dal momento che l’opposizione al precedente disegno di legge era stata condotta sostanzialmente sul modo di selezionare i giurati, Ortensio riuscì abilmente a riformulare il progetto, prevedendo una composizione a sorteggio, come richiesto dagli stessi sostenitori di Clodio, e soprattutto dal tribuno Fufio: a questo punto ogni opposizione diventò impossibile, e il nuovo disegno di legge, sottoposto ai concili della plebe proprio da Fufio, fu subito approvato, consentendo l’avvio del processo. Tutti i personaggi coinvolti nella vicenda furono interrogati come testimoni, tranne Cesare e la moglie Pompea, probabilmente per risparmiare loro l’imbarazzo di una denuncia pubblica delle relazioni adulterine della donna, ed evitare che una vicenda, che probabilmente per molti non era poi tanto grave, coinvolgesse personaggi così importanti, con conseguenze imprevedibili. L’accusa, gestita in prima persona da un gruppo di Corneli Lentuli, che avevano rivalità tradizionali con i Claudi, prese subito toni violenti, che miravano a distruggere la reputazione personale dell’imputato; abbastanza comprensibilmente, il testimone più feroce fu proprio Lucullo, che nel frattempo aveva divorziato da Clodia, e che non esitò ad accusare i due di incesto (questa volta, nel vero senso della parola). Il collegio degli avvocati della difesa era guidato, non sorprendentemente, da Gaio Scribonio Curione, padre dell’amico di Clodio; il suo asso nella manica era una falsa testimonianza: il cavaliere Gaio Causinio Scola dichiarò che il giorno della cerimonia Clodio era suo ospite a Interamna Lirenas (Pignataro Interamna). Evidentemente, nell’oscurità, le donne avevano sbagliato a identificare l’intruso. A questo punto intervenne Cicerone, portando la sua testimonianza decisiva: tre ore prima della bravata, Clodio era passato a casa sua sul Palatino.

    Vista la reputazione di integrità di Cicerone, uscito trionfatore dalla vicenda catilinaria appena un anno prima, nessuno ebbe il minimo dubbio che la testimonianza falsa fosse quella di Causinio: scoppiò quindi il putiferio. I pretori sospesero il processo per un paio di giorni, che pare siano serviti per comprare la giuria, perché alla fine Clodio fu assolto. Il fatto fece scandalo: si parlò di ingenti mazzette, e anche di prostitute e prostituti messi a disposizione dei giudici, stando ai pettegolezzi raccolti da Cicerone, che cita anche il colpevole, non per nome (purtroppo per noi), ma con un oscuro giro di parole che ha sfidato l’acribia di generazioni di studiosi. Catone propose addirittura di mettere sotto inchiesta dei giudici tanto palesemente corrotti: senza successo, perché nessuno voleva che la faccenda si gonfiasse troppo; ma ormai la frittata era fatta, e l’intervento di Cicerone aveva trasformato una questione marginale, destinata a risolversi probabilmente con un semplice spavento per il giovane Clodio, in una questione di Stato, che avrebbe avuto ripercussioni pesantissime negli anni a venire. La sua carriera, nonostante l’assoluzione, era ormai finita, a meno di non percorrere strade diverse rispetto a quelle tradizionali (le uniche ritenute adeguate a un membro dell’illustre gens Claudia); Clodio fu quindi costretto a battere piste pericolose, cominciate con la clamorosa ricusazione del glorioso nomen dei Claudi, e il cambiamento ufficiale del gentilizio per farsi plebeo (e farsi eleggere tribuno), e terminate con il suo assassinio sulla via Appia presso Boville. Di queste storie riparleremo più avanti. Quello che qui preme sottolineare, piuttosto, è l’azione di Cicerone: il prestigio morale di cui godeva era talmente alto, che l’oratore sapeva perfettamente che il suo intervento avrebbe avuto conseguenze devastanti per il processo. E c’era anche da aspettarsi che l’esito sarebbe stato politicamente controproducente, come poi puntualmente avvenne (anche se forse nessuno avrebbe potuto prevedere tanta ferocia nella vendetta contro Cicerone, che divenne lo scopo supremo della vita di Clodio). Cicerone non aveva alcun interesse politico a intervenire; al contrario, ogni considerazione di vantaggio personale avrebbe consigliato di restare fuori dalla faccenda. In questo caso è veramente probabile che il movente dell’azione sia stato semplicemente e onestamente morale, e non motivato da ripicca per le accuse generiche che Clodio aveva rivolto contro il senato per l’annullamento della prima votazione comiziale, come pure si è pensato: il glorioso ex console non poteva tollerare che un processo pubblico, che aveva avuto tanta eco, venisse deciso da una testimonianza spudoratamente e palesemente falsa. I fondamenti

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1