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La spia di Venezia
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E-book587 pagine7 ore

La spia di Venezia

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Info su questo ebook

«Uno tra i migliori thriller storici dell’anno!»
The Telegraph

Un’indagine di William Shakespeare
Un grande thriller storico

Stratford upon Avon, primavera del 1585. Il giovane William Shakespeare, insoddisfatto della propria vita, decide di abbandonare la città natale e di trasferirsi a Londra in cerca di fortuna. Giunto nella capitale, si unisce a una compagnia di attori, dove spicca per il suo incredibile talento con le parole. E questa sua dote non passa inosservata negli ambienti che contano, tanto che la corona inglese, in piena crisi, gli affida un incarico diplomatico estremamente delicato a Venezia. Viaggiare in Italia è sempre stato il suo sogno e William accetta di buon grado. Ma appena arriva nella città lagunare, il giovane è rapito dalle tante bellezze che lo circondano e si lascia distrarre dal fascino delle maschere e delle donne veneziane, ignaro del fatto che assassini senza scrupoli stiano seguendo da vicino ogni sua mossa, pronti a far fallire nel più cruento dei modi la sua missione. Per Shakespeare inizia un’avventura che metterà a rischio la sua sopravvivenza e che richiederà tutta la sua abilità di uomo di teatro esperto di travestimenti e maestro di finzioni. 

Bestseller in Inghilterra
Un successo di pubblico e critica

Shakespeare così non lo avete mai letto

«Dialoghi meravigliosi. L’autore di La spia di Venezia ha una grande inventiva.»
The Times

«Divertente ed esuberante. I giochi di parole di Shakespeare sono eccezionali.»
Daily Mail
Benet Brandreth
È un esperto di Shakespeare e del suo linguaggio. Lavora per la Royal Shakespeare Company e la Donmar Warehouse, scrive e interpreta storie per la radio. Il suo spettacolo teatrale The Brandreth Papers ha riscosso un grande successo di pubblico. Istruttore di arti marziali filippine, vive a Londra con la moglie e due figli e fa del suo meglio per apparire un uomo del Rinascimento.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2017
ISBN9788822707611
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    Anteprima del libro

    La spia di Venezia - Benet Brandreth

    1635

    Titolo originale: The Spy of Venice

    © 2016 by Benet Brandreth

    All rights reserved.

    Map copyright © Bonnier Zaffre, 2016

    Traduzione dall’inglese di Barbara Cattaneo

    Prima edizione ebook: luglio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0761-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    Benet Brandreth

    La spia di Venezia

    01_OMINO-1.tif
    Newton Compton editori

    Indice

    Personaggi
    Nota al lettore
    Prologo
    Che notizie da Rialto?
    ATTO PRIMO, STRATFORD-UPON-AVON, WARWICKSHIRE, MARZO 1585

    La mia sfrenata giovinezza

    Il sobborgo del suo piacere

    Una botte d’uomo

    Il guardarobiere

    Focacce e birra

    Nell’usare il vostro ingegno a esaltare il mio

    Un giuramento con il vino in corpo

    I miei pensieri sono ormai maturi a ogni maleficio

    Il critico, il guardiano notturno

    La recita è la trappola

    Con falsa voce poesie di finto amore

    A cavallo, grullo mio, a cavallo!

    Immaginare grandi imprese

    Segugi decisi e tenaci danno loro la caccia

    Molti Giasoni vi approdano alla conquista di lei

    Un ragazzo privo di maniere

    I ricchi doni si fanno povera cosa

    «Povero cervo», dice, «tu fai testamento»

    INTERLUDIO, ROMA, MARZO 1585, VILLA MONTALTO

    Ti riterrei un ipocrita davvero principesco

    ATTO SECONDO, LONDRA, APRILE 1585

    Cose tanto gradite e no, assieme

    Questa pettegola dalla lingua lunga? No di certo, signori

    Secondo gli statuti cittadini

    Sciogli di colpo, coi tuoi denti aguzzi, l’aggrovigliato nodo della mia vita

    Son brutti segni; ma io spero, spero

    Viviamo sulla gran bocca del mondo coperti d’ignominia

    La loro coscienza non consiste nel non fare una cosa, ma solo nel tenerla nascosta

    …il più capriccioso dei poeti, l’onesto Ovidio

    Che c’è adesso? Un ratto?

    E sono ora votati dal destino a recitare un altro atto

    Prova quel che può darti a Venezia il mio credito

    Sii Mercurio, metti le ali ai piedi

    Conosciuto da me solo per lettera

    È un uomo onesto e leale

    Pericolose congetture nelle menti dei malintenzionati

    Penso che abbia ricevuto un buon avvertimento

    Compiere fatti mirabili senza l’aiuto del demonio

    Porto tuttavia in me qualcosa di pericoloso

    Avrò incontrato almeno venti volte l’orso Sackerson, libero, e l’ho preso per la catena

    Un uomo che è stato scelto in mezzo a diecimila

    Ferito, ma dagli occhi di una donna

    INTERLUDIO, VENEZIA, APRILE 1585

    I servi dell’Oscuro dicono la verità

    ATTO TERZO, SULLA STRADA PER VENEZIA, GIUGNO 1585

    Exeunt omnes

    Una pestilenza di affanni e di dolori

    Quella bolla d’aria che è la gloria

    Dicono che sia stato istruttore di scherma dello Scià

    …ha scommesso per dodici contro nove

    …assai poco posso parlare di questo grande mondo

    L’infuriare di una battaglia

    La corte sovrana della possente Europa

    Cinque miserrime spade di latta ammaccata

    Buona notte, dolce principe

    Dinanzi alle picche dei loro cacciatori

    Come pregarvi di questo favore…

    Le nostre sorti sono appese a un filo

    Nella coppa può nascondersi un ragno

    Quali nefandezze può celare in sé l’uomo

    Detto in parole povere

    INTERLUDIO, VENEZIA, GIUGNO 1585

    Gli fecero affrontare la leonessa

    ATTO QUARTO, VENEZIA, LUGLIO 1585

    Potrei dire di te come il viaggiatore dice di Venezia

    Che cos’è la città, se non il popolo?

    Non perdiamo tempo: l’indugio ha sempre un esito funesto

    …tre cose che le donne hanno a dispregio

    Con più forte sicurezza di quanta possa offrir d’Achille il braccio

    Una trama tutta d’oro per irretire i cuori degli uomini

    L’onore, clessidra di se stessi

    Non ha mai visto una bellezza simile dall’inizio del mondo

    Anche la beffa, vile diavolessa, immonda cortigiana!

    Troppo bollente, troppo bollente!

    Confidano al cielo i loro capricci

    Voi ridete a sentirvi raccontare da ragazzi o da donne i loro sogni

    Ama tutti, fidati di pochi

    Ah, per il cielo, sono innamorato e l’amore m’ha insegnato a scrivere versi

    Come se, al pari di Circe, volesse mutare la mia forma!

    E ogni nostro indugio non fa che rimpinguare il loro vantaggio

    Se Cupido non ha sperperato tutte le sue frecce a Venezia

    Il pazzo, l’amante e il poeta

    Con quale dignitosa maestà

    Un contratto eterno con la Morte ingorda!

    Quali nuove, messaggero? Sii conciso e parla chiaro

    Signori, vi saluto. Io corro al mio dovere!

    Perché son gli occhi tuoi che t’han tradita

    Sono d’avanzo io, che sempre ti molesto

    Può suscitare più ilarità che proponimenti di vendetta

    Foss’anche il diavolo a guidar la danza

    Di pari dignità

    Tanto smanioso e avido di perseguire la rovina d’un uomo

    Voglio vivere nel tuo cuore, morire sul tuo seno e venir sepolto nei tuoi occhi

    Fino a stanotte m’hai voluto bene, e tuttavia stanotte m’hai lasciata

    Astuti come la volpe per cacciare la preda

    Posso sorridere, e mentre sorrido uccidere

    Oh, mai ci fu regina più tradita!

    L’esteriorità delle cose può sminuire le cose stesse

    Vero! Sentite qua

    Ogni tacca la tomba d’un nemico

    Cappi buoni ad acchiappar beccacce!

    Dall’ornamento esterno sempre si lasciò ingannare il mondo

    Vedete amici, questa caccia con quale accanimento viene condotta

    Ciò non lo si potrebbe creder vero a Venezia

    Voi siete nato sotto una buona stella

    Non più un rozzo attore

    Così disfatto, così svigorito?

    Stai sprecando la tua furia per un abbaglio

    L’uomo che ha lingua, dico, non è uomo se si dimostra incapace di usarla per conquistare una donna

    INTERLUDIO, VENEZIA, AGOSTO 1585

    Non affidarti a legni marci

    ATTO QUINTO, VENEZIA, AGOSTO 1585

    Questa severa corte di Venezia

    Chi sceglie me sarà obbligato a dare e rischiare tutto ciò che possiede

    Dovessi perdere così scioccamente a una partita a tris

    Il tuo scherzo è serio

    Abbiamo avuto ben più lauti banchetti

    Le speranze e le promettenti attese della tua giovinezza

    Con a fianco Ate

    Questa tua bellezza, essa sola, è stata causa di quell’effetto

    Non c’è un uomo qui?

    Seguimi allora, se hai coraggio, andiamo a vedere chi vanta più diritti, se tu o io, su Elena

    La trottola implacabile del tempo

    Ebbene, ecco qui. Benvenuti giorni belli!

    Esse furon fatte per baciare

    EPILOGO, VENEZIA, AGOSTO 1585

    La conclusione di una zuffa e l’inizio di un banchetto

    Nota storica
    Ringraziamenti
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    A Kosha
    Mentono i versi che una volta scrissi,
    dissi: Di più non ti potrei amare.

    Dramatis personae

    Stratford

    Londra

    Venezia

    Altri

    Nota al lettore

    Ho usato il calendario gregoriano in tutta la narrazione, per coerenza e per facilitare la comprensione al lettore moderno. Ho provato a evitare anacronismi nel lessico e nella grammatica, ma non ho cercato un corrispettivo per tutte le espressioni in uso nel 1585. Ho approfittato della nostra ignoranza di certi avvenimenti per riempirli con la mia immaginazione, ma mi sono sforzato di attenermi agli eventi storici in tutti gli altri casi.

    Questa non è un’opera storicamente corretta, ma le cose sarebbero potute andare in questo modo…

    Prologo

    Venezia, agosto 1585

    Coi vostri pensieri alle nostre imperfezioni: dividete

    un solo uomo in mille parti e create

    un’armata immaginaria. Quando parliamo di cavalli

    pensate di vederli che stampano gli zoccoli alteri

    sulla soffice terra; sono i vostri pensieri che ora

    debbono addobbare i nostri re, portarli

    di qua e di là, scavalcando i tempi, chiudendo

    le gesta di molti anni nel giro di una clessidra,

    a questo scopo ammettetemi come Coro

    di questa storia, io che, da Prologo,

    umilmente prego la pazienza vostra di volere

    ascoltare, e benignamente giudicare, il nostro dramma.

    Che notizie da Rialto?

    È una giornata nefasta che comincia con un omicidio.

    Alba a Rialto.

    Il sole che sorge scuce ripide ombre nei vicoli stretti fra i canali. Tutto è silenzio, a eccezione del dolce bussare delle barche contro i loro ormeggi… e del rumore di un uomo che corre.

    William si precipita lungo San Giovanni e oltre lo stretto ponte de l’Olio. Respira con affanno. Lo sfinimento e il terrore della notte hanno disegnato solchi tesi intorno ai suoi occhi scuri. Occhi saggi, che lo fanno sembrare più grande dei suoi ventun anni. William cerca una via di fuga. Si accorge, nella furia, che una scarpa è allentata. Davanti a lui c’è una piccola piazza, immersa nel silenzio del primo mattino.

    Si fionda all’ombra del portico accanto al ponticciolo. Si preme contro la pietra scura di una delle colonne, lottando per governare il suo respiro. Si sentono passi di corsa avvicinarsi da nord. Un uomo ancora all’inseguimento, dopo tutte queste ore, pensa. Poi, il graffiare di unghie sulla pietra, il rumore delle zampe del cane. La bocca gli si prosciuga. Infila più a fondo il piede nella scarpa. L’occhio gli cade su un remo spezzato appoggiato contro un muro. Si sporge in avanti e lo afferra.

    I piedi che correvano ora rallentano. Si sente il cane ansimare e tirare. Non c’è modo di nascondersi dal cane nemmeno volendo. Guarda l’estremità spezzata del remo, lo tiene davanti a sé con entrambe le mani, come la croce in una processione.

    Il cane gira l’angolo, un massiccio fulmine di carne scura, fauci rosse e zanne. William colpisce. Tutta la sua forza è concentrata sull’estremità del remo spezzato mentre si abbatte sulla schiena del cane. Il mastino crolla, guaisce, agonizza. Le convulsioni dell’animale gli strappano il remo dalle mani. William osserva la rovina di cui è responsabile. Il padrone del cane gira l’angolo, vede la scena e scosta il suo mantello per estrarre una pesante pistola ad acciarino.

    Si sente il sinistro stridere del metallo sulla pietra quando l’acciarino viene azionato. William sente riecheggiare dentro di sé il suo stesso grido, sente i suoi sforzi dissolversi nel nulla, ridursi a una morte violenta sotto un portico di Venezia.

    Poi nulla.

    Nessuna reazione.

    L’uomo fissa la pistola che ha appena fatto cilecca. William fissa il suo braccio, steso in avanti come per fermare il proiettile. I due alzano lo sguardo ognuno sull’altro con un ghigno. L’uomo armato reagisce per primo. Solleva la pistola sopra la testa, come una clava, ma William gli è già addosso.

    C’è un istante in cui la faccia di William e quella del suo aggressore si trovano a pochi centimetri di distanza. William può sentire l’odore pungente di aglio e sudore. La pistola cala sulla schiena di William, ma non c’è l’energia in quel colpo. Tutta la forza dell’uomo lo sta abbandonato insieme al sangue che sgorga dalla ferita che William ha aperto con il suo pugnale.

    Il guaito del cane agonizzante continua, mentre l’uomo si accascia a terra con la bocca in cerca d’aria come quella di un pesce. William afferra il remo e pone fine alle sofferenze del cane. Mentre getta via lo strumento insanguinato, lancia un’ultima occhiata alla carcassa. Ignora l’uomo. La rabbia ha scacciato da lui la compassione.

    La piazza è ancora vuota e immersa nel silenzio quando William la riattraversa e imbocca il vicolo.

    Mucche e capre ne aveva già uccise in passato. Il lavoro di quella mattina aggiungeva un cane e un uomo alla conta. Gli vien da pensare che il suo amico Oldcastle approverebbe l’esperienza che ha guadagnato.

    «Fa tesoro di tutto questo, ragazzo mio», direbbe Oldcastle col calice alzato. «Poiché ti costerà ottenerlo».

    È davvero un mondo cattivo, Oldcastle, pensa William mentre si affretta verso Cannaregio. Se fossi un qualche pio tessitore, canterei salmi per la sua salvezza.

    Campo San Bartolomeo non è vuoto. La mattina ha iniziato a portar fuori casa chi deve andare al lavoro. Sui balconi intorno alla piazza le donne stendono la biancheria perché prenda i primi raggi del mattino. William rallenta il passo finché non si ritrova a camminare. Non vuole attirare l’attenzione. Deve riprendere fiato. La scarpa maledetta continua a scivolar via dal tallone. Gettando un’occhiata indietro vede due uomini entrare nella piazza a un centinaio di metri da lui. I mantelli li avvolgono stretti nonostante il calore delle prime ore del giorno. I loro occhi sono puntati su William che si unisce alla folla in aumento. I passi si fanno più rapidi.

    Si spinge fra la calca intenta ai suoi acquisti mattutini. La sua testa ruota avanti e indietro come quella di un uccello. Dove sono i suoi inseguitori? Testa bassa, il mantello chiuso per nascondere le macchie di sangue, cerca di confondersi nella ressa. Non ha altro pensiero che raggiungere l’altro lato del Canal Grande. Se riesce a seminarli fra la folla fuori San Giacomo di Rialto, allora potrà tornare indietro lungo la riva occidentale del canale e da lì andare da Salarino e Oldcastle.

    Se solo riuscisse a calmarsi, pensa, potrebbe ideare un piano. Viene per un momento distratto dall’idea. Non è cosa di tutti i giorni, riflette, diventare un assassino. Essere calmo sarebbe innaturale. Si fa strada verso il canale dove i traghetti aspettano i passeggeri. Alza il braccio per fare segno a uno di loro, ma si accorge della sua mano imbrattata di rosso dal lavoro della mattinata.

    Quasi si scontra con lei.

    È ancora per metà voltato a guardarsi le spalle, ed eccola là. Isabella, davanti a lui. Sembra stanca quanto lui. Si acciglia al vederla lì. La sua presenza inaspettata, la sua persona esposta alla minaccia che lo insegue. Apre la bocca per metterla in guardia del pericolo.

    William intravede per un attimo il luccichio del metallo che gli viene incontro. Sente la lama dello stiletto che attraversa il mantello e le vesti e la calda fitta di dolore. Abbassa gli occhi sulla piccola mano che tiene la lama e poi li alza sul viso di Isabella. Viene sorpreso dalla furia che trova nella linea tesa della sua mandibola e nei denti stretti fra le sue splendide labbra. Perché? Perché è lei ad essere arrabbiata con lui, quando è lui quello tradito?

    Spinto all’indietro, il piede incontra una pietra sollevata sul bordo del canale. Inciampa e sbatte forte contro una balaustra di legno, la quale, con il rumore di qualcosa che si spezza, nitido nell’aria del mattino, cede.

    Poi cade nel Canal Grande sotto di lui.

    Prima che l’acqua lo sommerga, c’è solo il tempo di domandarsi come le cose siano arrivate a quel punto.

    ATTO PRIMO

    Stratford-upon-Avon,

    Warwickshire, marzo 585

    La mia sfrenata giovinezza

    William non sapeva cosa voleva dalla vita, ma di sicuro non voleva tutto questo.

    Faceva rotolare una mela lungo il piano di lavoro mentre osservava la strada vuota e buia sotto tetre nuvole grigie. La pioggia intermittente batteva contro la finestra del negozio di guanti. Era appena prima di mezzogiorno. La mela continuava a passare distrattamente da una mano all’altra, come faceva ormai da mezz’ora. Davanti a lui, aperto, c’era il registro, con le sue righe ordinate di somme nella scrittura piccola e svelta di William.

    «La pelle nuova è pronta?», domandò Mary, la madre di William.

    «Tagliata e sistemata», rispose William senza spostare lo sguardo dalla finestra.

    Mary sperava che il tempo si aprisse prima che la pazienza del figlio si esaurisse. Il lungo e tranquillo inverno del Warwickshire mal si addiceva al carattere di William. Tirava fuori il peggio da lui. Anzi, temeva lo avesse già fatto, e così lo aveva riempito di lavoro.

    «Hai preparato il pizzo?», domandò.

    «Già cucito».

    «Su entrambe le paia?». Mary non riuscì a evitare una nota di sorpresa nella sua voce. Suo figlio aveva senza dubbio mani abili, ma questo era un lavoro veloce davvero. William fece semplicemente cenno di sì senza voltarsi.

    William aveva vent’anni. Già sposato e con tre figli a dimostrarlo. Non gli mancava certo il talento. La mente del ragazzo era molto svelta, troppo svelta: mai ferma nello stesso posto abbastanza a lungo.

    «La contabilità?»

    «Fatta».

    Il roteare della mela si interruppe per un attimo. William girò il registro perché sua madre potesse leggerlo, ma non si disturbò a togliere lo sguardo dal panorama deprimente al di là della finestra.

    «I fratelli Apsley stanno ricaricando troppo sulla tintura», disse William. «Prova da Mathew Deller. Ho sentito dire che ne ha comprata a un buon prezzo».

    Mary non chiese come suo figlio fosse venuto a conoscenza di questa informazione. William non mostrava particolare interesse in materia d’affari, eppure era una fonte di notizie più attendibile del banditore della città. Mary aveva il sospetto che nei giorni del vecchio rito cattolico saresti potuto andare a confessarti solo per trovare William all’uscita a dirti di non disturbarti. Aveva già confessato tutti i tuoi peccati al posto tuo.

    «William», disse Mary.

    William smise di giocare con la mela. Si voltò a guardare sua madre da sopra la spalla. Se aveva provato un qualche sussulto alla nota aspra nella voce di lei non l’aveva dato a vedere, solo curiosità.

    «Guarda qui», disse sua madre, «questo, che ho trovato in una confezione di guanti già pronta per essere consegnata. Cosa significa?».

    The gift is small, the will is all¹

    Alexander Aspinall

    La madre lo guardò da sopra il bigliettino.

    «Mastro Aspinall ha chiesto i guanti come dono per la sua amante», disse William. «Mi ha chiesto se potevo pensare a qualche parola adatta ad accompagnare il regalo». William fu incapace di nascondere a sua madre un’espressione d’orgoglio.

    «Hai incontrato l’amante di mastro Aspinall?», domandò lei.

    «Sì», rispose William, «e merita certo un dono migliore di un paio di guanti… persino dei nostri».

    «Quindi è per questo che hai ritenuto saggio fare riferimento a te stesso nella nota?»

    «Cosa? Io non ho…».

    «Non sono una stupida, William», replicò. «"The Will is all"? Credi che non colga il riferimento? Credi che mastro Aspinall non lo capirà?».

    Mary appallottolò il bigliettino nella mano e lo gettò sul bancone. «È stato saggio, William?»

    «Non saggio, ma abbastanza divertente». William si raddrizzò per affrontare sua madre. «Chissà quali opportunità potrebbe portare».

    Un piccolo ghigno si allargò in un gran sorriso. Mani veloci lisciarono il bigliettino stropicciato.

    «Inoltre, madre, sei molto più intelligente tu di mastro Aspinall. Se l’ho inquadrato per bene, sarà fin troppo concentrato su come il dono verrà accolto dalla signora per comprendere la sottigliezza della rima».

    Sua madre si appoggiò alla parete dietro di lei. Gli occhi non lasciarono William per un minuto intero. Forse il ragazzo aveva ragione. A Mary era già capitato di pensare che il figlio fosse un acuto giudice del carattere altrui, anche se non riusciva a controllare il proprio.

    «La rima è arguta», disse. «Mi chiedo solo se sarà prima la tua arguzia o il tuo desiderio a cacciarti nei guai. Forse i due insieme? È un difetto dell’intelligenza avere un’opinione troppo bassa del resto del genere umano. Dar valore ai propri pensieri e desideri, ma non a quelli degli altri. Potresti aver interpretato con chiarezza il carattere di Aspinall, ma hai compreso il tuo? La stima che hai di te stesso è così grande?».

    William non rispose ma, non sentendo arrivare nessun altro rimprovero, si appoggiò di nuovo al bancone. Il sorrisetto era ancora al suo posto, tenuto lì dal ricordo del giovedì passato. Il suo tenace inseguimento all’amante di Alexander Aspinall era giunto a una vittoriosa conclusione in un granaio che… oh, il caso… aveva dato loro riparo da una tempesta totalmente prevedibile. Non era stato altro che un breve diversivo. Una volta consumato, la malinconia lo aveva nuovamente avvolto.

    William pensava che sua madre avesse torto ad accusarlo di egoismo. Sapeva cosa fosse il dovere. Il dovere verso il padre che andava aiutato nell’impresa familiare. Il dovere verso Anne, sua moglie da tre anni e madre dei suoi tre bambini. Il dovere era noia e costrizione e gravava su di lui più del firmamento sulle spalle di Atlante. Oh, se il dovere avese potuto condurlo lontano da Stratford e fra le braccia di nuove opportunità. Appena venti inverni e già la sua vita gli si presentava come un’infinita serie di giornate uggiose come quella.

    La campanella sulla porta d’ingresso del negozio tintinnò quando quest’ultima si aprì. Si trascinò dentro Matthew Holmes, l’apprendista del conciapelli, con il viso increspato dall’eccitazione.

    «Avete sentito?», urlò. «Arrivano gli attori!».

    William si raddrizzò. Queste erano notizie.

    «La loro carrozza si è appena fermata nel cortile di King’s Hall», continuò Holmes, «una grande compagnia. Grande».

    Le dita di William tamburellavano. La prospettiva della fiera alla fine di quella settimana non era stata che una lieve consolazione. Aveva temuto che tutto si sarebbe ridotto a premiazioni del bestiame e trattative sul prezzo del cuoio. Solo le voci sull’arrivo degli attori gli avevano dato un po’ di speranza.

    La prima volta che William aveva assistito a una rappresentazione aveva sette anni. Seduto a gambe incrociate ai piedi di suo padre, rapito. Il flusso delle parole, la vivacità dei costumi, le danze alla fine, lo avevano estasiato. Suo padre lo aveva portato poi a conoscere gli attori. Era rimasto sconvolto dalla forza delle loro voci. Anche senza i loro costumi, sembravano più importanti degli uomini comuni; più vasti.

    Crescendo aveva trovato quegli spettacoli divertenti e ancora di più gli attori stessi. Ascoltare le storie dei loro viaggi per il paese e a volte oltre la Manica, fino alla Francia e oltre, era come assistere a un secondo spettacolo, con personaggi più straordinari ed eventi più incredibili dei primi.

    «Madre?».

    Mary Shakespeare non si disturbò ad alzare lo sguardo. «Vai», disse.

    Tanto valeva provare a trattenere la marea, piuttosto che il figlio in negozio quando gli attori erano in città.

    «Mantieni un certo contegno, ragazzo», gli disse come per un ripensamento, ma alzando gli occhi si accorse di parlare soltanto a un perplesso Matthew Holmes.

    William lo si poteva vedere solo attraverso la finestra, impegnato in una piccola e inattesa danza.

    1 Il dono è modesto, il desiderio è tutto. Will è desiderio, volontà, ma anche l’abbreviazione di William.

    Il sobborgo del suo piacere

    William non poteva far visita agli attori con indosso gli abiti del negozio. La sola idea di uno sguardo storto da parte di uno della compagnia, un’occhiata di commiserazione al suo grembiule macchiato e sfilacciato, lo faceva rabbrividire. Sarebbe andato a casa, da Anne, a cambiarsi. Presa la decisione, si mise in marcia.

    A poche porte di distanza dal negozio, raggiunta da una stradina sul retro, c’era la casa di Henley Street, che William divideva con suo padre, sua madre, i fratelli e le sorelle, sua moglie e i suoi figli. Entrò. Anne era nella prima stanza con i bambini. Il grido di uno dei gemelli colpì l’orecchio di William non appena fu all’interno. Intorno ai piedi di Anne correva un’altra bimba, Susanna, la primogenita. Stava urlando a pieni polmoni e brandiva un coniglietto di pezza come un’ascia. Al centro di questa tempesta, Anne sorrideva tranquilla. William restava sempre ammirato dal contrasto fra la propria reazione al caos prodotto dai bambini e la misurata serenità di sua moglie.

    Sua figlia si accorse di lui e gli corse incontro, abbracciandogli una gamba.

    «Mela», squittì, gli occhi in su verso di lui.

    William aveva ancora in mano la mela intatta dal negozio di guanti.

    «Ne vuoi un po’, piccolina? Aspetta che papà te la taglia», disse.

    William andò verso la credenza in cucina e prese un coltello.

    «Guarda», ordinò a Susanna.

    Prese la mela con la mano destra, a palmo in giù, e appoggiò con cura il coltello sul dorso della mano. Poi sollevò l’indice della sinistra verso l’alto per avvertire il suo attento pubblico, composto dalla bimba di due anni, di prepararsi a essere meravigliato, e fece schioccare la mano destra. Coltello e mela volarono alti per aria. Il coltello, più pesante, ricadde per primo e William lo prese al volo dal manico, punta in su, per arpionare la mela che lo seguiva. Dopo un momento di pausa, utile affinché Susanna potesse ammirare la mela impalata sul coltello come una testa su una picca, William iniziò a tagliare il frutto a fettine.

    «Buon Dio, William», lo rimproverò sua moglie, «devi proprio giocare coi coltelli intorno a Susanna?»

    «Niente di cui preoccuparsi, tesoro», disse.

    «Questo lo dici tu, eppure anche i più abili posso sbagliare una volta ogni tanto».

    William, accovacciandosi all’altezza di Susanna, fece sparire una fetta di mela nella mano e la fece ricomparire dietro l’orecchio della figlia. Susanna emise un urletto di gioia. Anne guardò in cagnesco la testa piegata del marito. Lui allungò il collo per guardarla e fece balenare un sorriso da lupo. Lo sguardo di lei si ammorbidì e venne sostituito da una scrollata del capo.

    Il sorriso di lui continuò e lei gli sorrise a sua volta.

    «La compagnia degli attori è in città», annunciò William.

    Il sorriso di Anne si allargò. «Ah, c’è una spiegazione per il tuo buon umore».

    «Il mio buon umore nasce dalla tua compagnia, tesoro», protestò William.

    Anne sbuffò.

    «Ci sarà una rappresentazione alla fiera», disse.

    «Lo sai che non mi sono mai interessate le recite», rispose Anne.

    Le spalle di William crollarono.

    «Non mettere il broncio, Will», rispose Anne alla sua posa.

    William si alzò in piedi davanti a Susanna. Baciò Anne e andò verso la camera da letto che dividevano. Non per la prima volta, si domandò come avrebbe potuto essere la sua vita se non fosse rimasto sedotto da Anne o se le loro schermaglie amorose non avessero portato alla nascita di una figlia. Era quello che era. Pensò a quanto l’aveva trovata calma durante il loro primo incontro. Così serena anche quando lui le ronzava intorno, un giovane uomo pieno di vitalità, che faceva sfoggio delle sue azioni davanti a una donna più matura che sperava di sedurre. «Stai fermo», aveva detto lei, e così lui aveva fatto. Ora lui e Anne, grazie a quel pomeriggio di calma nella quiete del campo, si ritrovavano insieme, sebbene avessero, per carattere e interessi, molto poco in comune l’uno con l’altra. Il vecchio adagio era vero: amicizie e matrimoni vengono decisi dal destino. Erano due pianeti vaganti le cui orbite si erano scontrate, avevano prodotto scintille, e dal loro incontro erano stati strappati alla loro traiettoria verso un nuovo corso.

    «Non ti spiacerà se vado?», le disse.

    La sua voce era attutita mentre cercava nella cesta ai piedi del letto una camicia pulita.

    «Sarò contenta della quiete», gli rispose Anne. «Che i bambini corrano ai miei piedi posso sopportarlo, ma dovrei anche avere te che ti aggiri come un lupo in gabbia?».

    Il viso di William spuntò dalla porta della camera da letto. «Un lupo, eh?»

    «Sarai di nuovo ubriaco?», domandò Anne, ignorando il suo sorriso.

    «Di nuovo?». L’espressione di William si trasformò in quella di un’innocenza ferita mentre si abbottonava la camicia. «Non mi ubriaco mai, moglie. Sebbene, ti concedo, io sia soggetto a momenti di grande brio seguiti da un sonno profondo».

    «Cerca di non svegliare i bambini quando rincasi», lo rimproverò Anne. «È già abbastanza che debba sopportare il tuo russare, senza che tu dia anche il via agli strepiti dei piccoli».

    «Sarò silenzioso come Lavinia», rispose William.

    «Chi è?», domandò Anne.

    «Una gentildonna romana», disse William. «Le tagliarono la lingua».

    William mimò l’atto, provocando i gridolini deliziati e inorriditi della figlia, prima di scomparire fuori dalla porta con un gesto di saluto.

    «Dio, William», disse Anne. «Dici certe cose!».

    Una botte d’uomo

    «Una caraffa di vino», chiese William a gran voce.

    Il King’s Hall in Rother Street era una grande locanda a nord di Stratford, ed era là che alloggiavano gli attori. Un nuovo compagno viene accolto meglio se porta doni e William lo sapeva, così si era fermato a ordinare da bere a Susanne, figlia del proprietario e principale vanto della locanda, prima di presentarsi agli attori.

    Il retro si apriva su un cortile adibito a scuderia, dove cinque uomini, un mosaico di corporature, età e attività, erano riuniti intorno a una lunga carrozza coperta. Sul tetto della carrozza stava in bilico un uomo massiccio sui trentacinque. Gettava sacchi a un altro che stava di sotto. Aveva un aspetto davvero forzuto. Si voltò e gettò un altro sacco insieme a una potente bestemmia. Si fermò un momento quando William spuntò dalla porta sul retro e lanciò un’occhiata al nuovo arrivato prima di tornare al suo lavoro.

    Sotto stava un compagno tarchiato e panciuto, che cercava di afferrare i sacchi che gli venivano lanciati e combatteva con il loro peso.

    «Fa’ attenzione, Hemminges», gridò all’uomo sul tetto della carrozza.

    Hemminges non diede segno di averlo sentito. La pioggia di sacchi continuò.

    Davanti alla carrozza un uomo, faccia rossa e butterata, lottava per farsi dar retta dal cavallo e imprecava nel farlo.

    «Maledetta bestia», disse.

    «Sta’ attento», gridò Hemminges dall’alto, «vale molto più di te, Ben Nightingale».

    Nightingale sputò.

    Di fianco, a osservare tutta questa attività, sedeva un giovane con gli occhi chiari e le mani incrociate compostamente in grembo. L’esile giovanotto sembrava non curarsi della lotta che avveniva fra l’uomo e il cavallo accanto a lui.

    Sopra, seduto al posto di guida della carrozza, c’era un uomo enorme; tondo e pieno all’altezza del petto come un barile di birra, con guance rubizze affondate in una folta barba bianca, come un sole che tramonta dietro a un campo innevato. All’arrivo di William la barba dell’uomo si aprì per rivelare un ampio sorriso di denti gialli.

    Emerse una voce risonante, come William non ne aveva mai sentite.

    «Ah, un ambasciatore ci accoglie».

    Il grosso uomo si alzò dal suo sedile, rivelando un’altezza che pareggiava la sua prodigiosa circonferenza, e scese lentamente a terra. Si avvicinò a William, con la mano farcita d’anelli tenuta davanti a sé come una lancia. William si trovò la mano destra stretta con decisione e la sinistra liberata dalla caraffa col vino. Fu condotto verso una piccola collezione di coppe lì vicino, dove il vino venne copiosamente versato, sempre col grande sorriso che accompagnava l’uomo.

    «Alla tua salute, e tante grazie per questo generoso benvenuto», disse l’omone.

    «Il piacere è mio», replicò William. Guardò l’altro portare la coppa alla bocca e fare un lungo sorso.

    «William Shakespeare», disse per riempire il silenzio mentre la bevuta continuava. Il grassone indossava un acceso farsetto di lana gialla, molto scolorito e macchiato lungo i pettorali. Il suo viso era dominato da un naso che già la natura gli aveva affidato di generose dimensioni e che poi lui aveva ulteriormente ingrossato e arrossato col bere. Occhi grigi brillavano maliziosi dal bordo della coppa, che, ora svuotata, veniva abbassata.

    «Oldcastle, signore», si presentò l’uomo. «Nicholas Oldcastle. Attore e impresario della nostra piccola compagnia. Preparare uno spettacolo è un lavoro che mette sete». Fece un gesto indicando il vino mentre si versava un’altra coppa. «Per questo ristoro, molte grazie».

    William si voltò all’avvicinarsi di Hemminges. Una mano callosa prese quella di William in una stretta salda come quella di una morsa.

    «John Hemminges. Anch’io della compagnia».

    Ignorando William per un istante, Hemminges cercò di attirare l’attenzione di Oldcastle.

    «Il primo spettacolo è fra due ore. Un pezzo verboso».

    Fissò con insistenza la coppa in mano a Oldcastle.

    «Un pezzo che ho recitato molte volte», rispose Oldcastle, agitando una mano in aria come per ordinare a un cane di sedersi, ma William notò che aveva posato la coppa.

    «Sembri giovane per essere un membro del venerabile consiglio cittadino di Stratford», continuò Oldcastle rivolto a William.

    «Non ne faccio ancora parte infatti», disse William. «Sono solo un grande ammiratore delle opere teatrali. Qual è questa parte che hai già recitato molte volte?»

    «Pietà, Signore. Non farlo cominciare», disse Nightingale.

    Il tizio butterato che aveva combattuto contro il cavallo aveva rinunciato alla lotta e veniva ora a unirsi alla compagnia, specialmente al vino. Senza aspettare un invito si fece avanti e afferrò una coppa.

    «Mancano solo due ore allo spettacolo», disse, «e dobbiamo ancora fare tutto. Oldcastle ha già cominciato a raccontare le sue storie ed è già al punto in cui ti dà di gomito e ti dice: Ti piacerà questa parte. Qua è dove arrivo io».

    Nightingale iniziò a ridere convulsamente alla sua stessa battuta.

    «È la parte di Piramo nella tragica storia del suo amore che ho già recitato molte volte», disse Oldcastle.

    «Così tante volte che il naso e le guance gli si sono riempite di macchie come un cespuglio di more», lo motteggiò Nightingale.

    William doveva aver fissato un po’ troppo a lungo Oldcastle. L’idea che questo corpulento gigante potesse recitare il ruolo del giovane amante Piramo era difficile da figurarsi, senza considerare l’età avanzata, o la pancia.

    «Devi essere davvero un grande attore», riuscì a dire William.

    Ciò fece comparire un ghigno sul volto di Hemminges.

    «Non reciterà Piramo stasera», disse, «quei giorni sono ormai lontani».

    Le guance di Oldcastle si gonfiarono d’indignazione.

    «Grandi erano quei giorni», terminò Hemminges. «A ogni modo, William, porti qualche messaggio dal consiglio?»

    «No, no, soltanto il dono d’accoglienza del vino», rispose William, «e la curiosità del sempliciotto di una piccola città interessato ad ascoltare i racconti del vasto mondo da coloro che l’hanno attraversato».

    Hemminges si guardò intorno. «Mi spiace aver poco tempo adesso per i pettegolezzi, signore. C’è troppo da fare prima che lo spettacolo inizi».

    «Magari dopo?», domandò William.

    «Ma certo, ma certo», disse Oldcastle. Avendo riconosciuto la promessa di altro vino gratis era meno desideroso di Hemminges di allontanare William.

    Hemminges si era già voltato verso Nightingale, impegnato a versarsi altro vino nella coppa. «Perché il cavallo non è ancora nella stalla, Ben?», domandò, afferrando l’uomo per il braccio e facendogli versare il vino dal bordo della coppa.

    «Mannaggia a te, Hemminges. M’hai fatto male».

    Hemminges ignorò il suo piagnucolare. «Il cavallo, Ben, e dobbiamo portare il fondale nella piazza del mercato e montarlo».

    «Quando avrò finito di bere. Quel dannato ronzino ha il diavolo in corpo».

    «Adesso, Ben».

    Hemminges gli diede uno spintone che gli fece perdere l’equilibrio, facendogli versare tutto il resto del vino. La rabbia balenò sul viso di Nightingale. Fece un passo verso Hemminges e quest’ultimo si voltò per trovarsi faccia a faccia con lui. Nel vedere le spalle larghe e la faccia calma che lo fissava, Nightingale rivalutò la sua arrabbiatura e tornò verso il cavallo, borbottando fra sé e sé.

    «Che compagnia, Nick», disse Hemminges a Oldcastle e sputò sulla polvere del cortile.

    «Per la paga che offriamo,

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