Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Ogni battito del cuore
Ogni battito del cuore
Ogni battito del cuore
E-book372 pagine5 ore

Ogni battito del cuore

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Falling Series

C'è sempre un modo per ricominciare, soprattutto se qualcuno ti tende la mano

Prima ho dovuto ricordare come si respira. Poi ho dovuto imparare a sopravvivere. Erano passati due anni, tre mesi e sedici giorni dalla tragedia quando sono partita per il college. Ho fatto una scelta: riattraversare il confine, per stare con i vivi. Non sapevo da dove cominciare, ma poi ho incontrato Nate Preeter. Un giocatore di baseball nella All-America, che non avrebbe dovuto neppure accorgersi di un fantasma come me. Ma l’ha fatto…

«Una storia d’amore dolce e toccante su una ragazza intrappolata dal proprio passato e un ragazzo che la spinge a godere del presente e a guardare avanti.»

«Non c’è una sola cosa che non abbia amato di questo libro. La scrittura, la trama, lo stile ironico, i personaggi principali e quelli secondari. Mi è piaciuto tutto!»
Ginger Scott
è autrice bestseller di Amazon, nominata ai Goodreads Choice Award, autrice di diversi romanzi d’amore young adult e new adult. Collabora da sempre con quotidiani, riviste e blog.
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2017
ISBN9788822707543
Ogni battito del cuore

Correlato a Ogni battito del cuore

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica contemporanea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Ogni battito del cuore

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Ogni battito del cuore - Ginger Scott

    1640

    Titolo originale: This Is Falling

    © 2014 Ginger Scott

    All Rights Reserved

    Traduzione dall’inglese di Chiara Beltrami

    Prima edizione ebook: luglio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0754-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Ginger Scott

    Ogni battito del cuore

    Falling Series

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Ringraziamenti

    A mia madre

    Capitolo 1

    Rowe

    Mi sentivo coraggiosa quando ho scelto la McConnell. Era uno di quei pomeriggi in cui mi sembrava di soffocare, e il plico del college mi fissava.

    Due anni di istruzione scolastica a domicilio con una donna che insegnava economia all’università statale preparavano chiunque a una performance stellare in un test attitudinale. La prova era incredibilmente semplice. Ho terminato rapidamente e non ho dedicato nemmeno del tempo a verificare le risposte come mi avevano consigliato di fare tutti i testi preparatori. Ho consegnato il mio stampato al supervisore del campus universitario e me ne sono andata di corsa dall’aula della prova. Tre settimane dopo, è arrivato per posta il risultato, un punteggio di 2390, quasi perfetto. Significava una borsa di studio. E le borse di studio vogliono dire alternative.

    Per mesi avevo combattuto l’idea di allontanarmi per frequentare la scuola. Non sono pronta ad andarmene, a stare per conto mio. Penso che non lo sarò mai. Due anni di studio a casa mi avevano anche disabituata alle relazioni sociali. E il college ruota interamente su di esse.

    I miei genitori facevano pressione. Non credo che pensassero che mi sarei adeguata ai loro desideri scegliendo una scuola distante migliaia di chilometri. Speravo piuttosto che si adeguassero loro ai miei quando ho fatto scivolare sul tavolo il modulo di accettazione della McConnell.

    Non è andata così. Mio padre ha sorriso e ha osservato mia madre, hanno inspirato entrambi profondamente, pronti ad affrontare la prova. Io non lo ero. Non lo sono neanche adesso. Non sono minimamente vicina al sentirmi pronta. Ma voglio esserlo. Muoio dalla voglia di esserlo. Ho trascorso gli ultimi settecento giorni della mia vita a guardare gli altri vivere dalla campana di vetro che mi sono autoimposta. La mia relazione più significativa è stata osservare alcune coppie innamorarsi in un reality show e l’unico ballo studentesco a cui ho partecipato era in un film. È come essere intrappolata in un tiro alla fune interiore con me stessa, il cuore che implora di battere per l’eccitazione, ma imprigionato dalla paura.

    Eppure in qualche modo ero giunta fin lì – una cartina tra le mani conduceva alla mia stanza alla Hayden Hall nel campus della McConnell. I miei genitori hanno spinto per raggiungerla in auto. Occorrono quindici ore per andare dall’Arizona all’Oklahoma, e mio padre ci ha dato dentro per tutto il viaggio: credo fosse preoccupato che mi tirassi indietro se si fosse fermato. Ci ho pensato su in effetti. Quasi sono crollata in una stazione di servizio in New Mexico, piangendo incontrollabilmente in un bagno della Texaco. Ma per quanto non volessi abbandonare davvero la sicurezza di casa, ero più spaventata di ciò che mi sarebbe accaduto se fossi rimasta.

    È chiaro che stavo morendo lì. Be’, magari non morendo, ma certamente non stavo vivendo. Spuntavo i giorni sul calendario, facevo le cose come si deve, conducevo un tran tran abitudinario preparandomi a ciò che sarebbe venuto poi. Come potevo? La mia mente era pervasa dalla colpa che rendeva impossibile vivere.

    Adesso, lì in piedi, la mano aggrappata alla maniglia del mio gigantesco baule su ruote e i miei genitori che trasportano le valigie dietro di me, non sono così certa di aver fatto la scelta giusta.

    «Rowe, siamo quasi arrivati, tesoro? Credo di aver perso tre litri di sudore. Quest’umidità è tremenda», dice mia madre, sventolandosi il viso con uno di quegli opuscoli che distribuiscono durante l’orientamento.

    Venendo dall’Arizona, pensavo che la calura sarebbe stata tollerabile, ma suppongo di non aver mai provato l’umidità vera. La mia canottiera era incollata alla schiena per il sudore, e davanti a me, la

    T

    -shirt di mio padre stava producendo lo stesso effetto sulla sua pelle. Mi sentivo imbarazzata, ma tutti al campus avevano esattamente il medesimo aspetto – come se stessimo cercando di vincere una prova di Survivor.

    Finalmente vedo l’indicazione per la Hayden Hall sul vialetto e mi volto sorridendo verso mia madre, facendo cenno col capo in quella direzione.

    «Grazie a Dio!», dice lei, un tantino melodrammatica. Me lo lascio scivolare di dosso. In meno di un’ora, so che Tom e Karen Stanton se ne andranno, e sarò completamente sola. Così come mentalmente ha fatto mia madre con me negli ultimi due anni, mi aggrappo all’ultima goccia di lei, terrorizzata per come riuscirò a farcela quando se ne sarà effettivamente andata.

    Prendiamo un piccolo ascensore fino al secondo piano e troviamo la mia stanza all’estremità del corridoio sulla destra. 333. Ricordo di aver pensato che era di buon auspicio quando avevo ricevuto il mio pacchetto con le indicazioni per posta. Di buon auspicio. Mi sento così distante dalla fortuna ora.

    La porta è aperta, e riesco a vedere che due letti su tre sono già stati occupati. L’unico rimasto è quello più vicino alla porta: ovviamente sono arrivata per ultima, e mia madre si accorge dell’ansia dipinta sul mio volto.

    «Magari potete spostare i letti, sistemare il tuo più all’angolo», dice, dandomi una strizzatina alla spalla e facendo scivolare una delle valigie vicino a quello che sarà il mio letto per i prossimi otto mesi e mezzo.

    Tutto quello che riesco a fare è annuire. Mio padre fa scivolare il resto dei miei averi nella stanza e solleva la valigia sul letto in modo che possa iniziare a disfarla. Ho portato con me tutto ciò che possiedo. Credo che in qualche modo pensassi che circondarmi delle mie cose mi avrebbe fatto sentire questo posto più simile a casa, e forse potevo resistere sotto la mia campana di vetro e non dovermi avventurare troppo fuori dalla mia camera.

    «Non l’ho ancora incontrata. Dio, spero che non sia una stronza incredibile o qualcosa di simile!», dice una delle due bionde mentre entrano nella nostra stanza. Mia madre tossisce un poco per attirare la loro attenzione, e quando sollevano lo sguardo, una di loro è imbarazzata – sfortunatamente non quella che desiderava apertamente che io non fossi una stronza.

    «Oh, bene. Sei arrivata!», dice quella spigliata, venendo verso di me con la mano tesa, quasi come se mi stesse dando il benvenuto a casa sua. Non andrà bene; me ne rendo conto.

    «Ciao, mi chiamo Rowe», dico, la voce a malapena un sussurro. Non chiacchiero spesso, così talvolta mi ci vuole un po’ per scaldare le corde vocali, ma so di aver parlato a voce sufficientemente forte perché lei mi sentisse, il che rende la sua reazione molto più offensiva.

    «Mi dispiace… hai detto Rose?», chiede ad alta voce, il volto tutto corrucciato come se le avessi appena servito dei broccoli stantii. Tutto in lei è ostile e irritante.

    «Rowe», ripeto, e lei continua a fissare. «Come… come una barca?». Curiosamente, inizio a pagaiare per aria.

    «Ohhh. Carino», dice, volgendo l’attenzione al suo letto, che è ricoperto da strati di vestiti. «Sono Paige. E quella è Cassidy».

    «Cass», cinguetta l’altra, scuotendo la testa con le labbra strette e gesticolando verso Paige. Credo che mi stia dicendo di non prenderla sul personale. Non è un problema, ho già classificato lei e questa stanza nella categoria del come-fare-a-svignarmela-in-fretta-da-qui. «Mi piace farmi chiamare Cass. E Paige e io siamo felici di conoscerti».

    Paige non sta nemmeno più ascoltando la nostra conversazione, interessata invece a chi le ha appena inviato un messaggio sul cellulare. Sono in un dormitorio per studenti del primo anno, ma nulla in Paige indica che sia una di noi. È alta e ha le curve al posto giusto, la sua pelle è bronzo dorato come immaginerei l’aspetto di un bagnino in Florida. I capelli biondi sono lunghi e lisci e ogni ciocca è perfettamente in piega, come una cornice dorata attorno ai suoi occhi blu cristallino.

    Anche Cass è bionda, ma ha un aspetto più reale. I capelli sono tirati indietro in una coda di cavallo e a un certo punto mi accorgo che aveva un trucco leggero, prima che l’umidità ne sciogliesse la maggior parte.

    È evidente che il mio ruolo qui sarà quello della tipa stramba, quella fuori posto. A dire il vero, è ciò che mi aspettavo. Due anni prima ero condannata a non essere mai più adeguata – come un supereroe ferito colpito dalla kryptonite. E lì in piedi, senza trucco, gli occhi castani, una maglietta semplice e shorts di jeans, i capelli color noce raccolti in uno chignon, ancora aggrovigliati dalla doccia fatta quasi un giorno prima, rende solo le differenze tra me e tutte le altre ancora più evidenti.

    «Paige e io siamo arrivate ieri. Abbiamo scelto i letti; spero che vada bene», dice Cass, sedendosi sul suo materasso, che per fortuna è quello più vicino a me.

    «Va bene. Mi adatto a tutto», dico, sapendo che mia madre sarà felice di sentirmi resistere alle avversità. Dentro di me mi faccio un appunto di verificare con la reception, quando i miei genitori se ne saranno andati, sperando fortemente che ci sia un letto libero da qualche parte in questo campus che non sia a pochi passi dalla porta.

    Dopo un’ora trascorsa a disfare la valigia e qualche chiacchiera con Cass, i miei genitori finalmente se ne vanno. Non sono riuscita a mascherare le lacrime che si sono accumulate negli occhi quando mia madre mi ha abbracciata per salutarmi, e mio padre mi ha fatto un semplice cenno con la mano dalla porta, sapendo che lui è il più fragile tra i due e che sarebbe crollato se gli avessi domandato di portarmi a casa.

    Lo sconforto ha potuto solo aumentare quando la ragazza della reception mi ha detto che ogni stanza del campus era occupata. Mi ha consigliato di controllare di nuovo dopo la settimana degli arrivi, perché un sacco di studenti finisce col traslocare nei dormitori delle confraternite. Ma ci sarebbe voluto un mese da oggi. Un mese: potevo sopravvivere un mese. O no?

    Paige è scomparsa quasi nel momento in cui l’ho conosciuta, il che è stato un sollievo. Avrei dovuto sviluppare un certo tipo di approccio per avvicinarmi a lei. Per fortuna Cass aveva anche lei un sacco di bagagli da disfare, così ho trascorso il resto del tardo pomeriggio con gli auricolari premuti nelle orecchie e la musica sufficientemente alta da sovrastare qualsiasi altro rumore.

    Probabilmente avrei potuto trovare un modo per tenermi impegnata coi miei vestiti, la musica e delle fotografie stupide per il resto della serata, ma Cass agitava le mani animatamente, indicando le sue orecchie e sillabando con le labbra per attirare la mia attenzione, così alla fine ho ceduto e messo via gli auricolari. «Mi dispiace, li tenevo un po’ troppo forti».

    «Sì, direi di sì. Hai dei bei gusti musicali, tra parentesi». Mi piace Cass. Il suo sorriso è sincero, e mi ricorda gli amici che avevo alla Hallman High. In più riconosce cose come la grandiosità di Jack White e i Broken Bells. Scommetto che Paige è più un tipo alla Katy Perry.

    «Grazie». Non so come portare avanti la conversazione, così gli occhi guizzano verso le sue cose, in cerca di qualche spunto per ricambiare il complimento. «La tua trapunta è carina».

    È forse la più banale sulla terra. È grigia e c’è un’etichetta sopra, quindi non è nemmeno confezionata a mano. Nel momento in cui lo dico mi sento ridicola, ma il modo in cui Cass sorride e poi ride non mi fa sentire stupida o piccola, così mi unisco a lei. Per la prima volta in due anni, mi sento di nuovo un’adolescente, una ragazza normale che non si sveglia con gli incubi e non sente urlare nei suoi sogni.

    Noto cose che la maggior parte delle persone non vede, come il fatto che Cass indossa una maglietta viola col collo a

    V

    e degli shorts bianchi col risvolto. Le unghie dei piedi sono blu, leggermente scheggiate, e ha una cavigliera al piede destro con alcune perline blu scuro. Sono così dal giorno in cui il mio mondo è andato in frantumi. È come se stessi cercando di rimediare per aver fallito nel notare certe cose quando avevano la massima importanza.

    «Ti piace?». Mi ci vuole un po’ per capire ciò di cui sta parlando Cass, ma alla fine comprendo che si è accorta che fisso la sua cavigliera.

    «Sì, scusami. Stavo guardando le perline. Sono meravigliose», dico, sperando che la mente di Cass non stia rimuginando sull’idea che potrei avere una qualche forma di feticismo per i piedi o roba del genere.

    «Grazie. Mia madre ha un negozio che vende perline, quindi faccio una tonnellata di cose come questa. Potrei fartene una, vuoi?».

    Per lei, il gesto è probabilmente piccolo e insignificante. Ma sorrido e annuisco alla sua offerta e il mio stomaco si agita un tantino per l’eccitazione, tipo quando si sentono le farfalle a un primo appuntamento. In qualche modo posso aver fatto l’impossibile. In qualche modo ho provato a me stessa che mi sbagliavo. In un modo o nell’altro… ho stretto amicizia.

    Capitolo 2

    Rowe

    A tarda notte i bagni sono bui, a parte alcuni pannelli rimasti accesi in modo che gli studenti possano trovare la strada entrando e uscendo. Fa parte del criterio di abbattere i consumi, convertirsi alle energie ecosostenibili. Ci sono delle ore suggerite, ma preferisco essere sola. Le luci nei corridoi sono fioche, ma luminose a sufficienza da vedere se uso il box doccia più vicino alla porta. Questa è la cosa che mi preoccupa maggiormente: fare la doccia in uno spazio pubblico. La maggior parte delle ragazze probabilmente si farà la doccia al mattino, però, quindi ho intenzione di farla la sera, al buio.

    Cass e Paige sono uscite questa sera. Cass ha tentato di spingermi a unirmi a loro, ma l’ho convinta che ero sfinita dal viaggio. Non tutti sono già arrivati al campus, ma sono giunti un sacco di studenti del primo anno, e ci sono delle festicciole negli appartamenti nei sobborghi della città. Non sono pronta per le feste.

    Non ci vuole molto all’acqua per scaldarsi, così dopo aver guardato in giro per la stanza ancora una volta e aver sbirciato fuori dalla porta, decido che è abbastanza sicuro svestirsi. Ci sono un sacco di docce aperte e non riesco a immaginarmi abbastanza a mio agio nella mia pelle da camminare disinvoltamente nuda. Anche se il mio fianco non fosse solcato da cicatrici, non credo che sarei il tipo di donna capace di mostrare a tutti le sue grazie.

    Accatasto con cura i miei abiti sulla piccola panchina proprio all’esterno del box doccia ed entro, tirando la tendina dietro di me. Il cuore batte così velocemente che devo ricordare a me stessa di respirare – a lungo e profondamente – proprio per rallentarne il ritmo. Mi manca la doccia di casa, nel bagno dei miei genitori, dietro due porte chiuse a chiave. Mi manca il ronzio del ventilatore, e il modo in cui interrompeva i miei pensieri. È tranquillo qui dentro, e mi spinge a fare la doccia in fretta, sbrigandomi con lo shampoo e il balsamo, facendo scorrere a malapena il bagnoschiuma sulla pelle prima di ruotare il pomello della doccia chiudendo l’acqua e avvolgermi nell’asciugamano.

    Mi infilo rapidamente la casacca del pigiama sopra la testa e lascio cadere l’asciugamano; mi sono appena infilata l’intimo quando noto che i tubi dell’acqua stanno ancora vibrando. Il pensiero di non essere sola invia un’ondata di panico nelle vene; mi sento in preda alle vertigini. Mi siedo sulla panchina e tengo stretti i vestiti sporchi e l’asciugamano al corpo, piegandomi in avanti a sufficienza in modo che i miei occhi possano scrutare gli altri box doccia in cerca di piedi.

    Ma sono sola. Il rumore dei tubi cessa qualche secondo più tardi; presumo che l’acqua stesse probabilmente giungendo dal piano di sopra. Finisco di vestirmi, indossando i miei shorts di cotone e facendo scivolare i piedi nelle infradito prima di entrare in corridoio.

    «Buonasera», dice lui, facendomi spaventare al punto tale che lascio cadere tutte le mie cose e mi appiattisco arrossendo contro il muro. Sembro uno di quei detenuti in un vecchio film in bianco e nero che cercano di sfuggire al riflettore durante un’evasione. «Mi dispiace, non avevo intenzione di spaventarti, ma immaginavo che se non avessi detto nulla, e tu mi avessi visto nell’oscurità, sarebbe stato peggio».

    Raccoglie le mie cose e in qualche modo riesco a calmare il battito del cuore abbastanza da comprendere che sta bistrattando il mio intimo. Oh, dio! Afferro i miei averi, ma le mani rimangono annodate alle sue, il che mi crea solo ulteriore panico e lascio cadere tutto nuovamente.

    «Accidenti, ti ho spaventata per benino, uhm?», ridacchia. Tutto ciò su cui riesco a concentrarmi è radunare le mie cose e farmi strada verso la mia stanza – quello e il leggero accento del Sud quando parla. «Ehi, stai bene?».

    È solo quando la sua mano è aggrappata al mio braccio che finalmente sollevo lo sguardo su di lui. Non sono per nulla preparata alla mia reazione e sono certa che si stia divertendo perché arrossisco così rapidamente che non avrei avuto un’opportunità migliore se mi fossi rovesciata in testa una lattina di vernice. È carino. È più che carino; è esattamente il tipo di ragazzo su cui fantasticavo quando avevo quattordici anni e sognavo di andare al college con la mia migliore amica Betsy. Capelli castani, lunghi quel tanto che basta da ricadere sulla fronte e sulle sopracciglia, occhi blu nascosti da ciglia scure e la barba un po’ lunga che mi ricorda immediatamente che non è affatto un ragazzo. No, sono lì davanti a un uomo. È da così tanto tempo che non mi trovo in presenza di un uomo; in un certo senso ho saltato quel momento di transizione. È come un gigantesco simbolo, su due gambe e senza camicia, della mia vita prima che tutto ciò che amavo se ne andasse. Prima che Betsy se ne andasse. E prima che il mio primo – e unico – ragazzo se ne andasse con lei.

    Devo parlare. Chiaramente vive al mio stesso piano, e se me la filo da qui senza dire una parola, sarà solo più strano quando mi scontrerò con lui in ascensore, sulle scale, in classe.

    «Mi dispiace, sono ancora tutto un fremito a causa dell’adrenalina, ho fatto fatica a trovare le parole», dico, ricordando a me stessa di inspirare. È quello che Ross, il mio psicologo, mi dice di fare quando mi sento accerchiata dal mondo. Fermati. Respira profondamente. Ross si trova a migliaia di chilometri di distanza, ma devo chiamarlo due volte al mese. Sto iniziando a pensare che per un po’ potrebbero essere necessarie due volte alla settimana.

    «Comprensibile». Accento del Sud. Fossette. Sorriso. «Quindi, tu vivi… laggiù?», chiede, gesticolando verso il lungo corridoio che conduce alla mia stanza.

    «Stanza 333», dico. Perché diavolo gli ho detto in quale stanza sono? Non è proprio da me, e mi fa sentire… insicura.

    «Ah, bene… lieto di conoscerti, Trentatré. Io sono alla 357». Mi tende la mano e la stringo, avvertendo una scossa elettrica tra le nostre dita. La sensazione è estranea, spaventosa e divertente allo stesso tempo.

    «Hai intenzione di andare a qualche festa, stasera, Trentatré?». Mi piace quando mi chiama col mio numero, e il fatto che mi abbia dato improvvisamente quel nomignolo mi provoca calore allo stomaco, indipendentemente da quanto irrilevante suoni con tutta probabilità a lui. Mi fa capire anche che non gli ho mai detto il mio nome. Dovrei farlo. O no?

    «No, sono abbastanza stanca. Abbiamo fatto tutta una tirata dall’Arizona. E puoi chiamarmi Rowe», dico, il cuore in tumulto solo per riuscire a superare questa parte della conversazione. Non ne conosco la ragione, ma per quanto mi riguarda, ogni interazione mi provoca la medesima lotta interiore che gli altri avvertono quando devono fare un discorso. Solo che per me, sono i discorsetti, quelli a quattrocchi che mi fanno sentire completamente vulnerabile.

    «Rowe». Sorride dopo aver detto il mio nome, e mio dio, desidero con forza che lo pronunci di nuovo. Allo stesso tempo, continuo a guardare verso la mia stanza con la coda dell’occhio, l’altra parte del mio cervello – quella dominante – cerca di convincermi a tornare a quella sicurezza e nascondermi. «Mi chiamo Nate. E sono davvero lieto di aver deciso di fare la doccia stasera».

    Questo si chiama flirtare. Lo ricordo, vagamente, mentre sorride e torna indietro verso la sua stanza all’altra estremità del corridoio, gli occhi che indugiano su di me abbastanza a lungo da inviarmi un fremito lungo la spina dorsale. Lo imito eppure non mi volto immediatamente, disponibile a continuare a sorridere, a lasciare che la notte vada così, a imprimere lo sguardo sul suo viso nella mia memoria – un volto nuovo di zecca nella mia vita, e lontano diametralmente dal demone che mi perseguita ogni notte nel sonno.

    Approfitto del fatto che le mie compagne di stanza siano uscite e spingo il mio letto di alcuni centimetri più distante dalla porta, quasi a filo con la finestra. Cass lo noterà, ma sono abbastanza sicura di riuscire a convincere Paige che il letto era sempre stato in quella posizione. E per qualche ragione, credo che Cass mi darà pieno appoggio.

    Preparare il letto è sempre un gran lavoro. Ho quattro cuscini e due coperte. Non perché abbia freddo, ma perché ho imparato che la mia mente riposa più facilmente se ho una sorta di barriera che spinge contro il mio corpo. So che la schiuma e il cotone della trapunta faranno poco per proteggermi in realtà, ma per qualche ragione, facilitano il sonno. Quindi mi metto al lavoro, arrotolando e piegando finché ho costruito una sorta di fortezza lungo un lato del mio materasso, qualcosa contro cui adagiarmi in modo da sentirmi nascosta mentre dormo.

    Se dormo.

    Poi è il momento dei farmaci. C’è la prima dose che ho preso alcune ore fa, la melatonina. Adesso prendo l’Ambien. Ho lottato a lungo sul fatto di prendere le pillole. Non volevo vivere come una drogata. Ma non dormivo. Per niente. E va a finire che non dormire produce dei danni al cervello, e si comincia a vedere delle cose – cose che si dovrebbero vedere solo durante il sonno.

    Anche dal secondo piano riesco a sentire il frinire dei grilli fuori dalla mia finestra. Mi piace il loro suono. È regolare e ininterrotto, qualcosa su cui concentrarsi. Così tengo la finestra aperta, lasciando che l’aria calda si mescoli con l’aria condizionata mentre fuoriesce attraverso la zanzariera. Tiro il portatile sul letto con me, incrocio le gambe e accedo a Facebook. Scrivere a Josh è diventato un rituale, e la mia stringa di messaggi per lui è più che un diario ora. Non li leggo mai una volta che premo invio, però. Riprendo dove ho lasciato ogni volta, iniziando un pensiero nuovo senza mai tornare indietro.

    Così l’ho fatto. Sono una studentessa del college. College. Dovevamo farlo insieme, ricordi? E sono sicura come non mai che non sarei finita in Oklahoma. Lo so, lo so, la colpa è solo mia su questo punto. L’ho scelto io. A dire il vero è un campus abbastanza carino. Gli edifici sono tutti di mattoni rossi, e gli alberi qui sono enormi. Tutto è così… verde. Ho due compagne di stanza. Una delle due mi piace. Credo di poter vivere con l’altra. È la settimana dell’orientamento. Non sono certa di riuscire a nascondermi nella mia stanza per tutto il tempo. Non voglio farlo. Questa è la mia grande prova, ciò su cui ho lavorato per due anni. Ma il mio coraggio è diminuito a ogni chilometro lungo il percorso verso l’Oklahoma, e temo che le mie riserve siano prossime all’esaurimento. Una delle mie compagne di stanza, Cass, quella che mi piace, ha lottato strenuamente per spingermi a uscire stasera. Credo che dovrò farmi coinvolgere in una di quelle cose sociali, quindi tanto vale che sia una di quelle stabilite.

    Sono stata a trovare tua madre prima di partire. Mia madre mi ha portata da lei. Ha un bell’aspetto. Tuo padre non era nei paraggi, così non ho avuto la possibilità di salutarlo, ma sono sicura che lo vedrò durante la pausa autunnale. Quello faceva parte dell’accordo coi miei genitori. Abbiamo già prenotato tutti i voli di ritorno a casa per il semestre. Ho la possibilità di tornare quattro volte. La prima non sarà prima di un mese, quindi la vedo dura. Naturalmente devo salire anche in aereo. Da sola. So che non devo spiegarti nulla a riguardo. Immagino sia questa la ragione per cui scrivo.

    Mi piacerebbe che rispondessi.

    Baci, Rowe

    Lui non risponderà. Non lo fa mai. Ma questo non mi impedirà di scrivergli. Sposto il cursore per uscire da Facebook quando il suono di un nuovo messaggio mi coglie di sorpresa. Mia madre è l’unica persona con cui in effetti comunico su Facebook, ma non è la sua immagine quella che sto guardando ora.

    È un’immagine di Nate, da qualche parte su una spiaggia, senza la maglietta. Credo che il tipo non le indossi mai. Clicco per aprire, la mano tremante, e il cervello inizia a rallentare a causa degli effetti del sonnifero.

    Allora, il primo messaggio che ho inviato è stato a una ragazza che si chiama Row. Aveva dodici anni ed è stato imbarazzante. E sono abbastanza sicuro che i suoi genitori mi abbiano messo tra i contatti bloccati, dato che l’ha intercettato sua madre. Comunque ti ho trovata. Rowe, con una

    E

    … almeno, credo che sia tu… Volevo vedere se eri interessata a dare un’occhiata in giro con me domani? Ci facciamo una passeggiata, attorno alle 11? Fammi sapere.

    Cinquantasette ;-)

    Non so come regolarmi. Non so come regolarmi in un caso simile. E non sono nella posizione di farlo. Flirtare è una cosa. È innocuo. Potevo renderlo un hobby. Non che sia brava nemmeno in quello, ma fare dei progetti? I progetti conducono a dei luoghi. E non posso andare in certi posti – i posti sono come le relazioni. E decisamente non so come comportarmi in una relazione, avendone avuta solo una in tutta la mia vita. Inoltre, avvelenerei solo l’esistenza di un’altra persona.

    Chiudo il portatile e lo spingo lontano da me, come fa un bambino con un piatto di verdure. I grilli stanno ancora frinendo fuori, e in lontananza riesco a sentire la musica che pompa dal balcone dell’appartamento di qualcuno. Se ascolto più attentamente, riesco quasi a distinguere le risatine delle ragazze e dei ragazzi che festeggiano. Magari è tutto nella mia testa – la colonna sonora che ho immaginato per il college, basata su tutti quei film che ho visto. O forse è reale. Non lo saprò mai perché mi sono tenuta in disparte, troppo spaventata per stare nella mischia. Odio me stessa per essere così spaventata.

    I capelli sono ancora umidi, così mi allungo sotto il letto in cerca di un asciugamano asciutto per coprire il cuscino. Quando colgo il mio riflesso nella finestra, esito. Nulla in me è straordinario. I capelli sono lunghi e diritti, del colore delle noci pecan, proprio come i miei occhi. Ero brava negli sport; facevo parte della squadra di tennis prima di lasciare la scuola e ho continuato a giocare con mio padre, quindi il mio corpo è slanciato. Non somiglio per nulla a Paige – non ho curve, e non c’è nulla di formoso in crescita. Fare l’inventario della mia persona mi fa ridere di me stessa ora, e di gusto.

    Nate probabilmente non si ricorderà di me al mattino e in questo momento ho lasciato libera la mente e ho immaginato una sorta di scenario folle in cui siamo una coppia, in un mondo in cui tutto cambia rapidamente, lontano dalla realtà. Sono una delle poche ragazze arrivate al dormitorio finora; una gradevole perdita di tempo finché non giunge qualcosa di meglio. E se non altro, è un potenziale amico, e forse la mia unica speranza di incrementare il numero della mia cerchia da uno – se conta

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1