Il più giovane prigioniero di Auschwitz
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L’incredibile storia vera del bambino salvato dall’inferno dei campi di concentramento
Un ormai famosissimo filmato d’epoca girato dai soldati sovietici nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, ha tramandato ai posteri l’immagine di Michael Bornstein bambino mentre, a soli quattro anni, viene portato fuori dal campo di Auschwitz tra le braccia della nonna. Il più giovane prigioniero di Auschwitz racconta la straordinaria storia dei Bornstein, ebrei originari di Zarki, in Polonia, e le incredibili traversie che permisero ad alcuni di loro di sopravvivere al campo di concentramento nazista più terribile e tristemente noto. Attraverso documenti personali e numerose interviste ai superstiti e ai parenti che hanno condiviso con i Bornstein l’orrore dell’Olocausto, Michael ha ricostruito, con l’aiuto della figlia Debbie Bornstein Holinstat, la straziante esperienza vissuta in un inferno dal quale in pochi sono potuti tornare indietro.
Un libro documentatissimo, ma soprattutto una narrazione diretta ed empatica che permette al lettore di ritrovarsi catapultato all’interno delle baracche di Auschwitz e capire come i Bornstein siano riusciti a sopravvivere e ad attraversare una delle più umilianti e terribili pagine della storia moderna.
Bestseller del New York Times dopo solo tre giorni dall’uscita!
Una straziante testimonianza sui legami che resistono all’orrore
«Un commovente omaggio alla speranza e ai miracoli che può portare con sé. Un potente libro di memorie.»
Booklist
«Arricchita da meticolose ricerche d’archivio, la storia della famiglia Bornstein è raccontata come fosse un romanzo.»
Publishers Weekly
«Un eccezionale libro di ricordi e storia… Una lettura avvincente.»
Jewish Book Council
Michael Bornstein
È sopravvissuto per sette mesi all’interno del campo di concentramento di Auschwitz, dove la vita media di un bambino era appena due settimane. Sei anni dopo la sua liberazione, emigrò negli Stati Uniti. Si è laureato alla Fordham University, ha conseguito il dottorato di ricerca alla University of Iowa, e ha lavorato nel campo della ricerca farmaceutica per più di quarant’anni. Attualmente in pensione, vive con la moglie a New York e tiene frequenti incontri nelle scuole sulla sua esperienza dell’Olocausto.
Debbie Bornstein Holinstat
È la terza dei quattro figli di Michael. Produttrice televisiva per i canali NBC e MSNBC, vive a North Caldwell, nel New Jersey. Ha collaborato con il padre alla ricerca dei documenti e alla stesura del libro; è cresciuta ascoltando molte storie di sopravvissuti.
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Anteprima del libro
Il più giovane prigioniero di Auschwitz - Debbie Bornstein Holinstat
515
Titolo originale: Survivors Club
Copyright © 2017 by Michael Bornstein
and Debbie Bornstein Holinstat.
All rights reserved.
Published in agreement with the author, c/o Baror International,
INC., Armonk, New York, U.S.A.
Traduzione dall’inglese di Serena Tardioli
Prima edizione ebook: ottobre 2017
© 2016 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-1494-7
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Michael Bornstein e Debbie Bornstein Holinstat
Il più giovane prigioniero di Auschwitz
L’incredibile storia vera del bambino salvato dall’inferno dei campi di concentramento
Indice
Prefazione. È giunto il momento di parlare
Il più giovane prigioniero di Auschwitz
1. Ricorda la coppa
2. Lunedì di sangue
3. La radunata
4. La sorpresa nel bucato sporco
5. Lo Judenrat
6. Guardare avanti
7. I soldi parlano
8. Previsioni clandestine
9. Ruth
10. Ultime decisioni
11. In trappola
12. Il regalo d’addio
13. B-1148
14. Punizione ad Auschwitz
15. Notizie dalla recinzione
16. Una partenza inaspettata
17. Una malattia fortunata
18. Visitatori per Ruth
19. Un filmato nella storia
20. Di ritorno a casa
21. Zia Hilda
22. Un fantasma
23. Qualcuno bussa alla porta
24. Una spruzzata di giallo a Z.arki
25. Il club dei sopravvissuti
26. Sogno americano
27. A un bivio
28. Tutto quello che rimaneva
29. Incontro in giardino
30. La città di macerie
31. Il lato oscuro di Monaco
32. La donna con la svastica
33. Bar mitzvah
Postfazione di Michael Bornstein
Appendici
La famiglia Bornstein
Glossario
Fonti
Ringraziamenti
Tavole fuori testo
Per Israel e Samuel Bornstein
Prefazione
È giunto il momento di parlare
Michael Bornstein
Quel bambino in primo piano a destra sulla foto, quello sono io. A quattro anni, sono riuscito a eludere la morte in quella fucina degli orrori, dove un milione di ebrei sono stati uccisi durante l’Olocausto. Sono stato uno dei prigionieri più giovani a uscire vivo dal campo di sterminio di Auschwitz.
Questa foto è stata presa dai filmati realizzati dall’esercito sovietico, dopo aver liberato Auschwitz il 27 gennaio del 1945. Oggigiorno si possono facilmente trovare frammenti di questi filmati online. Nell’immagine, sono con un gruppo di bambini e stiamo mostrando al cameraman i nostri numeri identificativi, tatuati sul braccio al nostro arrivo nel campo. Dei 2819 detenuti liberati dai russi, solo 52 avevano meno di otto anni.
Per moltissimo tempo, non ho parlato di quello che mi è successo durante la guerra. Le persone pensavano che me ne stessi in silenzio, perché il trauma era troppo profondo per poterne parlare. È vero, non mi piace pensare a queste cose così orribili. Quando le persone notano il mio tatuaggio,
B
-1148, nomino Auschwitz, ma non mi soffermo mai su quel posto.
C’è un’altra ragione, però. Ho sempre saputo di avere una storia da raccontare, ma per tantissimo tempo ho avuto paura di parlare, perché qualunque cosa avessi detto, sarebbe diventata una parte delle testimonianze scritte della seconda guerra mondiale e non volevo sbagliare nulla. I miei ricordi di quel periodo vanno e vengono come una cascata di immagini, alcune chiare, alcune sfocate. Ci sono momenti in cui riesco ad afferrare un barlume di un distante episodio tragico, ma poi l’immagine si dissolve.
Mi hanno detto: «È meglio non ricordare». Ma come reagireste se non riusciste a ricordare com’era il viso di vostro fratello? Per la maggior parte della mia vita, non sono riuscito a rispondere nemmeno alla domanda più semplice: come ho fatto a sopravvivere per sei mesi in un campo noto per aver ucciso i bambini al loro arrivo? Come ho fatto a sfuggire alla Marcia della morte
che ha sgomberato il campo di sessantamila prigionieri pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe sovietiche?
Finalmente lo so.
Non molto tempo fa, sono andato in Israele a visitare il Museo Storico dell’Olocausto Yad Vashem, dove è archiviato un documento con il mio nome. Questo documento è stato scritto e salvato dai soldati sovietici. Quel giorno ho saputo quel che c’era registrato su di me, ho capito che la mia sopravvivenza dimostra che i miracoli accadono nei modi più piccoli e improbabili.
Per quasi tutta la mia esistenza, ho pensato che non esistessero foto di me ad Auschwitz. La prima volta in cui mi sono reso conto di essere uno dei bambini in quei filmati sovietici, ero sbalordito. È stata una scoperta accidentale che condividerò alla fine di questo libro. Ultimamente, ho anche trovato qualcos’altro di scioccante. Un pomeriggio, ho cercato online la mia foto durante la liberazione di Auschwitz. Ho fatto una ricerca su Google e l’ho trovata senza troppe difficoltà. Poi ho cliccato sul link
VISITA LA PAGINA
presente accanto all’immagine e sono stato portato a un sito web dedicato a chi sostiene la tesi che l’Olocausto sia una menzogna, che non sia mai successo! La mia foto è stata manipolata su un sito web per le persone che volevano deformare la storia. Qualcuno aveva messo una didascalia all’immagine, affermando come mostrasse che gli ebrei mentivano quando dicevano che i bambini venivano uccisi al loro arrivo ad Auschwitz, o quando dicevano che Auschwitz fosse qualcosa di peggiore di un campo di lavoro.
Incredibilmente, decine di visitatori del sito avevano lasciato dei commenti, concordando che Auschwitz non potesse essere un posto così brutto. Puntavano il dito verso la mia foto e quelle dei molti altri bambini superstiti per far vedere come avessimo un aspetto sano
il giorno in cui siamo stati liberati: in realtà, i filmati sono stati girati qualche giorno dopo la liberazione. Eravamo stati infagottati con diversi strati di vestiti per proteggerci dal freddo e nel film alcuni di noi indossano addirittura uniformi da adulto.
Ho chiuso con forza e disgusto il mio computer. Ero inorridito. Mi tremavano le mani per la rabbia. Ma adesso sono quasi grato di averlo visto. Mi ha fatto capire che se noi sopravvissuti rimaniamo in silenzio, se non ci decidiamo a condividere le nostre storie, allora le uniche voci che restano da ascoltare sono quelle dei bugiardi e dei bigotti.
A quel punto, ero costretto a parlare. Solo che io non sono uno scrittore. Sono uno scienziato. Così mi sono rivolto alla terza dei miei quattro figli, Debbie Bornstein Holinstat, una produttrice di servizi giornalistici televisivi che mi aveva detto spesso che la mia storia doveva essere documentata. Ho deciso di prendere la penna in mano e fare tutto quello che potevo per guidarla nella stesura della mia storia.
Finalmente, con l’aiuto di Debbie, sto liberando le storie dei miei parenti che ho tenuto rinchiuse nella mia mente per più di mezzo secolo. È giunto il momento.
Debbie Bornstein Holinstat
Quando ero piccola, non ho mai dato molto peso ai numeri tatuati sull’avambraccio di mio padre. Facevano semplicemente parte della sua pelle. Sono sempre stati lì. A volte, in estate, quando le maniche corte erano necessarie, gli sconosciuti li notavano e chiedevano: «Dove te li sei fatti?»
«Auschwitz. Non sono di queste parti», diceva mio padre con una risata. Poi rivolgeva subito la sua attenzione a qualunque cosa stesse facendo in quel momento. Buona fortuna a tutti coloro che cercavano di cavargli altro di bocca!
Quando le mie sorelle, mio fratello e io avevamo raggiunto rispettivamente la quinta elementare, anche noi abbiamo cominciato a fare domande a nostro padre, con risultati solo un filo migliori. Se insistevamo, condivideva forse un ricordo orribile e straziante. Chiedevamo sempre più informazioni.
«Non lo so, Debbie», diceva. «Ero molto giovane. Non sono sempre sicuro di distinguere quello che mi ricordo da quello che penso di ricordare». Sentivamo spesso quella risposta. Poi andavamo a trovare uno dei suoi cugini e si lasciava sfuggire una storia. Origliavamo mentre parlava con nostra madre, e si lasciava sfuggire un’altra storia. Un vecchio parente prendeva il microfono per fare un brindisi a un matrimonio di famiglia, aggiungendo un’altra tessera del puzzle. Lentamente e a pezzi, noi quattro siamo cresciuti imparando gli aneddoti che si erano intrecciati nel tessuto del nostro essere. Come il tatuaggio sul braccio di mio padre, molte di quelle storie erano sempre state lì, raramente accennate, ma sempre presenti.
Quando ho raggiunto i vent’anni e sono diventata una produttrice di servizi giornalistici televisivi, ho iniziato a pensare di mettere per iscritto in un libro tutte le storie di mio padre. Non era ancora il momento giusto, però. «Non lo so, Deb. Forse un giorno», diceva lui.
Poi, all’improvviso, settant’anni dopo essere stato liberato da Auschwitz, sono rimasta sbalordita quando ho sentito mio padre dire: «Sai una cosa? Penso che dovremmo farlo». Ovviamente questo voleva dire che a quel punto ero io la persona che doveva sopportare il peso dell’accuratezza e del dettaglio sulle sue spalle. Ah! In cosa mi sono cacciata?
Quando ho visto, però, il sito web che ha usato la foto di mio padre per cercare di manipolare la storia, quello mi ha dato la spinta per riuscire nell’impresa. Per ogni forum che oggi racconta menzogne sull’Olocausto, fa’ che ce ne siano cento di più che dicono la verità.
Ansiosa di riempire ogni dettaglio che mio padre non poteva, sono entrata in modalità giornalista. Era stato imprigionato nel ghetto ebraico della città natale della famiglia, Żarki, in Polonia, e poi deportato ad Auschwitz. Ho parlato con le persone che conoscevano i parenti di mio padre prima e dopo la guerra. I musei e i centri genealogici da Washington
D.C.
a Varsavia mi hanno generosamente aiutato a svelare le documentazioni che hanno risolto vari misteri. Ho ascoltato le vecchie registrazioni su nastro di mia nonna Sophie e a poco a poco tutti i pezzi frammentati di informazioni che mi erano stati dati mentre crescevo si stavano incastrando al loro posto.
Mio padre ha menzionato la scoperta stupefacente allo Yad Vashem che ha risolto il mistero più grande: quello della sua sopravvivenza. Era un documento che anche i curatori del museo rimasero scioccati nel scoprire. Ma c’era molto di più da trovare. Una collezione di saggi pubblicati in ebraico raccontava le storie di Israel Bornstein, mio nonno paterno, un uomo che mio padre ha sempre desiderato di poter ricordare più chiaramente, soprattutto quando abbiamo letto i racconti dei suoi atti incredibili di eroismo. I saggi sono stati scritti dai superstiti nella piccola città natale della famiglia. Presto scoprirete perché tutti a Żarki conoscevano Israel Bornstein di fama. Inoltre, io e mio padre abbiamo fatto buon uso di un diario gentilmente condiviso con noi dalla famiglia di un cittadino che era nascosto con i parenti in un bunker di una fattoria. Quel diario è stato condiviso con noi in privato e contiene cruciali informazioni generali sulla città e sul trattamento degli ebrei prima e dopo l’invasione.
Adesso, più di sette decenni dopo che mio padre è uscito da Auschwitz davanti alle telecamere sovietiche, la storia della mia famiglia può essere finalmente raccontata con una confortante certezza sugli eventi della sua sopravvivenza. Mentre io e mio padre lavoravamo per svelare la vera storia di quello che è successo alla nostra famiglia durante l’Olocausto, abbiamo cercato di mantenere questo libro il più onesto possibile. Anche se i seguenti eventi sono interamente basati su fatti, c’è anche un pizzico di finzione: le conversazioni dovevano venir immaginate, pensieri e sentimenti ipotizzati, alcuni nomi sono stati cambiati e qualche piccolo dettaglio adeguato alla forma narrativa.
Per esempio, nella scena di apertura della nostra storia, possiamo dire con assoluta certezza che i soldati tedeschi sono piombati nella casa di famiglia poche settimane dopo l’invasione tedesca della Polonia nel settembre del 1939. Mentre possiamo solo fare un’ipotesi approssimativa sul colore del vestito che mia nonna indossava in questa scena o su cosa abbia detto o stesse pensando con esattezza, sappiamo che i soldati, come una banda di pirati e furfanti, hanno preteso soldi e si sono accaparrati qualsiasi tesoro desiderassero. È anche vero che nei momenti prima dell’arrivo dei soldati, Israel Bornstein era riuscito a nascondere qualche avere della famiglia. Tra gli oggetti, c’era una reliquia religiosa piccola ma speciale. Non sembrava valere molto, ma era importantissima.
Il più giovane prigioniero di Auschwitz
1
Ricorda la coppa
«Sophie, tieni Samuel con te e controlla la finestra», disse papà a mamishu, mia madre. «Non ti muovere».
Papà afferrò un sacco di iuta e corse dalla cucina alla camera da letto per riempirlo con delle cornici d’argento, un po’ di cristalleria, le perle di mia madre e molte monete d’oro.
Era l’ottobre del 1939 e i soldati tedeschi stavano arrivando alla casa di mattoni rossi della mia famiglia in via Sosnowa a Żarki, in Polonia.
Mamishu era alla finestra del salotto, mentre la luce del giorno cominciava ad affievolirsi, e tamburellava nervosamente l’indice sulla manina con fossette di mio fratello maggiore Samuel. L’altra mano era sulla sua pancia gonfia, dov’ero ancora in uno stato di beatitudine pre-nascita.
«Israel, avremmo dovuto pensarci prima! È troppo tardi. Metti tutto sotto il letto e speriamo che non controllino lì. Ti stai comportando come un pazzo!».
«So esattamente cosa sto facendo, Sophie. Rimani lì e dimmi quando si avvicinano».
Quando, anni dopo, venni a sapere di questo episodio, mi dicevano sempre che papà parlava con una voce così rassicurante che a malapena si accordava con i suoi movimenti frenetici, che mamishu poteva vedere riflessi sulla finestra.
Attraverso il vetro, osservava i gruppi di soldati tedeschi, ordinati ma terrificanti, con le loro uniformi abbottonate, gli alti stivali neri e le fasce rosse coordinate sul braccio con un simbolo simile a un ragno dentro un cerchio bianco. Ogni soldato aveva con sé una pistola o un fucile a tracolla. Le truppe marciavano nelle case dei nostri vicini e ne uscivano qualche minuto più tardi con mucchi di pellicce, cappotti in pelle e federe piene di gioielli tra le braccia.
Samuel, che allora aveva quattro anni, seppelliva il viso tra le pieghe della gonna multistrato color pesca di mamishu, ogni volta che uno sparo risuonava forte da dentro la casa di un vicino.
I soldati erano distanti solo di tre case e mamishu spostava nervosamente lo sguardo dalla porta d’ingresso a quella sul retro, mentre mio padre correva per le stanze. Bobeshi – un vezzeggiativo yiddish che la famiglia usava per nonna Dora, la madre di mio padre, con cui vivevamo – era seduta sul divano a guardare la scena.
Quel giorno stesso, i soldati tedeschi avevano annunciato che nel pomeriggio sarebbero andati porta a porta e avevano ordinato ai residenti ebrei di essere preparati a consegnare ogni oggetto di valore che il governo tedesco nazista (abbreviazione di nazionalsocialista) richiedeva. In circostanze normali, una richiesta del genere sarebbe stata chiamata rapina. Tuttavia, gli invasori tedeschi insistevano che era responsabilità del popolo ebreo contribuire al Terzo Reich, il nome che i nazisti utilizzavano per il loro regime, e aiutare a renderlo più ricco e più forte.
Nella nostra casa ci sarebbe stato un sacco da rubare. Papà era un contabile e aveva sempre avuto cura di risparmiare i propri soldi. Quel giorno, quando i soldati iniziarono a prendere i contributi
, papà si era ostinato a proteggere quello che avevamo.
«Se sei così determinato a farlo, almeno ricorda la coppa!», esclamò mamishu con voce sommessa e gli occhi ancora fissi fuori dalla finestra del salotto.
«Ce l’ho già», disse papà, sgattaiolando fuori, mentre le voci dei soldati diventavano più forti e più vicine.
Dalla porta sul retro, contò i suoi passi in yiddish: «Eyn, tsvey, dray, fir, finef, zeks». Si fermò a un punto morbido nel terreno e scavò con le mani, finché le dita non furono nere con la terra. Un passante l’avrebbe scambiato per un uomo che stava piantando i bulbi in autunno, aspettando con impazienza una primavera di boccioli. Immagino si potesse dire che mio padre stesse piantando. Stava seppellendo i semi di speranza della nostra famiglia.
Dopo un minuto, apparve una cavità nascosta: un buco rinforzato con un pezzo di ferraglia che papà aveva piegato in una forma cilindrica. Era una cassaforte improvvisata, in cui lasciò cadere il sacco con tutti i nostri oggetti di valore, inclusa una piccola coppa d’argento disadorna, chiamata coppa Kiddush, che viene utilizzata per lo Shabbat, una festa sacra celebrata ogni settimana nelle case ebraiche dal tramonto del venerdì a quello del sabato. È caratterizzata da preghiere, vino e canzoni. Lo Shabbat è destinato a essere un periodo di riposo e il giorno più pacifico della settimana. La coppa Kiddush viene sollevata in segno di gratitudine.
Ma a Żarki non c’era stato molto per cui cantare o festeggiare dall’invasione, soprattutto per gli ebrei. Tutto era cambiato in poche settimane.
Gli ebrei non potevano salire sull’autobus e i bambini ebrei non avevano più il permesso di andare a scuola. I nazisti chiusero o si impossessarono della maggior parte delle attività commerciali degli ebrei. Venne applicato un coprifuoco rigoroso alle otto di sera: chiunque venisse sorpreso fuori dopo quell’ora, veniva arrestato o ucciso. Gli ebrei erano costretti a indossare fasce bianche intorno alle braccia con una stella di David a sei punte, in modo che tutti li potessero distinguere.
Quando i soldati nazisti picchiarono alla porta, mamishu emise uno strillo strano, come un urlo strangolato dalla paura. Aveva intenzione di dire in tono calmo «Entrate pure», ma naturalmente simili convenevoli non erano necessari. La porta venne aperta con una spinta, ancor prima che mamishu ritrovasse la voce.
Ti prego appari, ti prego appari, ti prego ritorna, implorò senza dubbio mamishu mio padre nella sua mente, quando due soldati piombarono dentro, uno alto, uno tozzo.
Come se fosse stato evocato telecineticamente, suo marito si materializzò allo stipite della porta del soggiorno con la camicia sistemata e un’espressione che non aveva la minima traccia del panico a cui stava per cedere pochi attimi prima. Le mani, che aveva sporcato scavando nella terra, erano adesso pulite e insospettabili come la sua espressione. Papà era riuscito nell’impresa.
«Abbiamo bisogno di cinquecento złoty e dei vostri gioielli! Ora!», pretese il soldato alto.
«Certo», disse papà, consegnando un mucchio di denaro, insieme a una collana con ciondolo di poco valore e un anello per mignolo da uomo che aveva una volta trovato su un treno, senza aver mai potuto identificare il proprietario. Aveva lasciato questi oggetti insignificanti in un cassetto di un tavolino da parete prima dell’arrivo dei soldati, prevedendo che avrebbero voluto dei gioielli.
«Di certo non può pretendere di farci credere che questo sia tutto quello che ha», disse il soldato, rivolgendo al suo compagno un cenno col capo.
Il soldato basso si spostò di corsa più vicino a Samuel e a mia madre, tirando fuori la pistola e agitandola avventatamente verso di loro. «Vedo che ha così tanto da perdere. Sono sicuro che possa fare di meglio». Un’espressione cupa attraversò il volto dell’uomo quando si inginocchiò davanti a Samuel, prestando particolare attenzione alla mano sinistra di mio fratello.
La mano destra di Samuel era aggrappata alla gonna di mamishu, ma quella sinistra era lungo il fianco, chiusa in un pugno stretto.
«Perché non apri la mano, piccoletto?», chiese il soldato con una voce gentile. «Vediamo cosa stai nascondendo».
Mamishu stava piangendo, terrorizzata dal fatto che il soldato si stesse interessando a Samuel. Tuttavia, sapeva che il suo piccolo collezionista non stava nascondendo nulla di prezioso. Infatti, sapeva, prima che il figlio distendesse le piccole dita soffici, cosa ci fosse nel suo palmo.
«È solo un sassolino, signore», disse mamishu. «Li colleziona».
Samuel rivelò una piccola pietra rotonda e grigia, quel tipo di ciottolo che si poteva trovare su qualsiasi strada della Polonia. Samuel aveva quasi sempre una pietra in mano o in tasca: pensava che ognuna fosse unica e preziosa.
Il soldato non era divertito. Non gli piaceva sbagliare, certamente non di fronte a degli ebrei. Guardò i volti dei miei genitori. Guardò nonna Dora. Se uno di loro avesse mostrato un accenno di sorriso, avrebbe senza alcun dubbio sparato a tutti.
Nessuno sorrideva.
«Prego, prenda pure qualsiasi cosa di cui il governo potrebbe avere bisogno», interruppe mio padre.
Per allora, il primo soldato stava già cercando tra gli armadi e i cassetti. Non aveva bisogno di alcun invito.
Adesso sembra così irrilevante, ma in quel momento fu straziante per mamishu vedere la sua pregiata giacca di visone tirata fuori dall’armadio in corridoio e buttata sul braccio del soldato. Mio padre aveva risparmiato per un anno per farle una sorpresa con quel dono. Mamishu si sentiva come una di quelle star del cinema americano di Hollywood ogni volta che l’indossava, anche quando era solo per una passeggiata nel vicinato.
Dopo alcuni lunghi minuti, quando i soldati raccolsero i loro incassi ed erano pronti ad andarsene, il più basso dei due notò un orologio ornato con piedini intrecciati in ottone, posizionato vicino al bordo di un tavolino a gamba centrale in corridoio. Un regalo che i suoi nonni avevano dato a nonna Dora il giorno in cui si era fidanzata e che era stato lasciato a mamishu il giorno del suo matrimonio.
«Oh, questo non dovrebbe essere tenuto sotto vetro, qualcosa di così speciale?», chiese il soldato tozzo, facendo un cenno verso il tavolino. «Dovrebbe stare più attenta con i suoi cimeli». Poi guardò mia madre per