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Le grandi donne che hanno cambiato il mondo
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E-book485 pagine7 ore

Le grandi donne che hanno cambiato il mondo

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Info su questo ebook

Dietro ogni grande storia c'è una grande donna

Regine, pittrici, stiliste, scienziate, poetesse, politiche, cantanti, sportive: un viaggio nell'altra metà della storia

Chi ha scritto la grande storia non ha lasciato molto spazio ai personaggi femminili. E quando l’ha fatto, quando ne ha salvata qualcuna dall’anonimato, l’ha comunque condannata a un ruolo, o al rogo.
La verità è che molte donne hanno partecipato non solo a costruire la storia, ma in certi casi ne hanno addirittura mutato le sorti. E lo hanno fatto in molti modi, nel bene o nel male, con una corona o un seggio, con un gesto o un discorso, con un libro o un’opera d’arte, una composizione, una rappresentazione, uno scatto, un’immagine, un’invenzione, con un viaggio o una scoperta, con il sacrificio di una vita o della vita, con un “sì” o con un “no”. Riusciamo a immaginare un mondo senza Saffo, Ipazia, Olympe De Gouges, Marie Curie, Coco Chanel, Madre Teresa di Calcutta, Maria Callas, Audrey Hepburn? Riusciamo a concepire la Spagna senza Isabella di Castiglia, l’Inghilterra senza Elisabetta I Tudor o l’Argentina senza Evita Perón? A prescindere dalle rappresentazioni che ne sono state fatte, col passare del tempo i loro profili si sono arricchiti di colori, sfumature, punti di vista, e in certi casi da un polveroso armadio è spuntata fuori una lettera, un diario che ne ha cambiato le sorti storiche. Molte di queste donne godono oggi di grande celebrità postuma, ma alcune di loro poterono persino gustarsi la fama ai loro tempi; fatto è che molte rappresentanti del gentil sesso hanno segnato con la loro vita la vita di tutti noi.

La grande storia scritta al femminile

SAFFO La decima musa
CLEOPATRA L’ultima regina
IPAZIA C’era una donna
GIOVANNA D’ARCO Fanciulla, eroina, strega, santa
ISABELLA DI CASTIGLIA Al servizio di Dio
ANNA BOLENA L’altra donna
CATERINA DE’ MEDICI Un’italiana sul trono di Francia
ARTEMISIA GENTILESCHI Una donna ha dipinto tutto questo?
BARBE-NICOLE CLICQUOT PONSARDIN La vedova dello champagne
MARIE CURIE Radio Maria
COCO CHANEL Profumo di donna
GOLDA MEIR La collera di Dio
JOSEPHINE BAKER La venere nera
SIMONE DE BEAUVOIR Donne si diventa
EVITA PERÓN La Señora
MARIA CALLAS La voce d’oro del secolo
AUDREY HEPBURN Cenerentola va a Hollywood
PINA BAUSCH La danz-attrice
AUNG SAN SUU KYI Datemi un seggio
SARA SIMEONI Il tetto del mondo

E tante altre ancora...


Stefania Bonura
siciliana, laureata a Firenze in Scienze politiche, è un’appassionata di storia antica e di storia delle donne. Autrice e traduttrice, nel 2006 ha fondato la XL edizioni, di cui è direttore editoriale. Ha collaborato con alcune riviste, come «Millenovecento» e «Civiltà». Con la Newton Compton ha pubblicato 101 misteri dell’antico Egitto che non puoi non conoscere e Le 101 donne più malvagie della storia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854153301
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    Anteprima del libro

    Le grandi donne che hanno cambiato il mondo - Stefania Bonura

    101

    Della stessa autrice

    101 misteri dell’antico Egitto che non puoi non conoscere

    Prima edizione ebook: maggio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5330-1

    www.newtoncompton.com

    Stefania Bonura

    Le grandi donne

    che hanno cambiato il mondo

    logonc

    Newton Compton editori

    A mia nonna

    Verso la fine del Settecento si produsse un

    cambiamento tale che, se dovessi riscrivere la storia, io

    lo descriverei più a fondo e lo riterrei più importante

    delle crociate o della Guerra delle due Rose.

    La donna della classe media cominciò a scrivere.

    Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé

    Introduzione

    Si dice che la storia delle donne sia fatta di ombre e silenzi. Si dice che la Storia sta alle donne come uno spettacolo sta al suo pubblico. Si dice che per secoli da dietro le finestre delle loro dimore le donne abbiano osservato il mondo cambiare esultando o piangendo per i loro eroi, amanti, mariti, padri, figli… Si dice che un velo abbia coperto il mondo delle donne e le sue abitanti, come se non fosse lo stesso mondo che fecero Aristotele, Alessandro, Cesare e Napoleone. Si dice tutto questo e, in parte, è vero. Vero è che chi ha scritto la storia del mondo non ha lasciato molto da dire alle donne. E quando l’ha fatto, quando ne ha salvata qualcuna dall’anonimato, l’ha comunque condannata a un ruolo, o al rogo. Ma è anche vero che molte donne, dentro e fuori le mura domestiche, hanno non solo partecipato a costruire la storia, ma in certi casi ne hanno mutato le sorti. E lo hanno cambiato in molti modi, nel bene o nel male, con una corona o un seggio, con un gesto o un discorso, con un libro o un’opera d’arte, una composizione, una rappresentazione, uno scatto, un’immagine, un’invenzione, con un viaggio o una scoperta, con il sacrificio di una vita o della vita, con un o con un no. Riusciamo a immaginare un mondo senza Saffo, Ipazia, Olympe De Gouges, Marie Curie, Coco Chanel, Madre Teresa di Calcutta, Maria Callas, Audrey Hepburn? Riusciamo a concepire una Spagna senza Isabella di Castiglia, un’Inghilterra senza Elisabetta I Tudor o un’Argentina senza Evita Perón? A prescindere dalle rappresentazioni che ne sono state fatte, luminose o cupe a seconda della penna, col passare del tempo i loro profili si sono arricchiti di colori, sfumature, punti di vista, e in molti casi da un polveroso armadio è spuntata fuori una lettera, un diario, una testimonianza non mediata. Molte di queste donne ormai godono oggi di grande celebrità, alcune di loro poterono persino gustarsi la fama ai loro tempi, altre invece restano ai più ancora sconosciute o cominciano solo adesso a far girare quello stesso mondo che aveva rifiutato persino di registrarne l’esistenza. Perché di tutte le oppressioni che le donne hanno dovuto subire, la più terribile è stata proprio quella di essere escluse dalla Storia, escluse dalla sua narrazione. Il flusso degli eventi storici è stato insomma solo un magma nelle mani degli uomini. E per quanto le donne abbiano fatto parte di quel flusso, anche nelle loro semplici esistenze domestiche, non hanno mai potuto raccontarlo secondo il loro punto di vista, salvo in casi eccezionali. Fino al Settecento: il secolo più rivoluzionario per le donne. Come diceva Virginia Woolf, fu nel Settecento che la donna della classe media iniziò a scrivere. La donna comune iniziò a prendere coscienza di far parte degli accadimenti sociali e politici della sua epoca e prese a interpretarli e a crearli. Non che in passato non ci fossero state donne in grado di lasciare un’impronta delineata con il loro stesso inchiostro, come Saffo nell’antichità e tante, tantissime scrittrici medioevali, soprattutto le badesse. Ma la storia è una questione di numeri. Non è determinata dalle eccezioni.

    I nomi selezionati sono solo, quindi, parte di un vasto panorama di personaggi piccoli e grandi che hanno contribuito in vari modi a costruire la narrazione di questo nostro mondo. Mary Wollstonecraft diceva nei Diritti delle donne che «non sulle imprese straordinarie si costruisce il benessere della società, perché se questa avesse un’organizzazione più razionale, ancora meno forte sarebbe il bisogno di grandi talenti e di eroiche virtù». In effetti, nonostante si sia portati a immaginare che i grandi nomi che compongono questo catalogo abbiano sovvertito, stravolto, trasformato le varie stagioni del mondo, per lo più la loro presenza e la loro testimonianza è stata rappresentativa di un’epoca di rivolgimenti, da cui in qualche modo sono state travolte e su cui hanno, spesso anche solo simbolicamente, soffiato più degli altri e in modo decisivo. Nel senso che non erano le uniche a remare controcorrente o verso un nuovo approdo. Non necessariamente hanno detenuto un record assoluto, spesso il loro unico merito è stato quello di aver trasferito alle masse qualcosa che in principio era appannaggio di pochi, o la loro unica colpa quella di aver accelerato l’irriducibile caduta di un impero. Talvolta sono state l’ultimo raggio di luce al calare delle tenebre o il primo bagliore dopo una secolare, impenetrabile oscurità. Molto più spesso sono state l’elemento scatenante di un movimento trattenuto o ancora appena accennato, ma inevitabile.

    La selezione in un certo senso è stata naturale. Ci sono nomi che si sono imposti da sé. Altri, invece, sono stati acciuffati per simpatia, magari tralasciando altre più note figure, reputate dalla collettività più degne di attenzione. Come sempre, quando non si voglia scrivere un’enciclopedia, la scelta diventa uno dei momenti più creativi di un’opera. Non nego che avrei voluto inserire almeno un altro centinaio di donne. Altre esploratrici, scienziate, imprenditrici, artiste, regnanti. Quando si entrava in territori fin troppo affollati di personalità di spicco, ho cercato di seguire il criterio dell’attrazione. Attrazione soprattutto per le storie personali. Perché quello che più mi allettava non era individuare figure straordinarie o gesta rivoluzionarie, imprescindibili al procedere – in avanti o indietro o intorno o a tentoni, ognuno la veda come gli pare – della storia. Il mio desiderio era tentare, e spero di esserci riuscita in parte, di trascinare il lettore nell’epoca in cui queste protagoniste, con il loro bagaglio di esperienze, tragiche o brillanti, sono riuscite a scioccare, commuovere, inorridire, meravigliare la società che le circondava o a scatenare l’anelito, latente, delle donne e degli uomini alla libertà o alla ribellione. E per aver suscitato questi sentimenti forti, di rifiuto o di trasporto, sono state elette a paladine, icone, rappresentanti, leader, sante o condannate brutalmente all’oblio, al rogo, alla ghigliottina, al disonore, alla maledizione, all’isolamento, alla pazzia. La maggior parte ha dovuto infatti compiere scelte difficili in solitudine. E sole, quasi tutte, hanno chiuso l’ultimo dei loro giorni in questo folle mondo, che per qualche istante è rimasto sospeso sulle loro gracili, titaniche spalle.

    Il faraone è una donna

    Hatshepsut: Egitto XV secolo a.C.

    L’Egitto con il capo abbassato lavorava per lei.

    Ineni, da un’iscrizione nella sua cappella

    Cinque navi partirono e cinque tornarono. La regina le vide salpare dal porticciolo davanti al maestoso tempio di Karnak, sulla riva orientale del Nilo, a Tebe, mentre i sacerdoti del dio Amon davano la loro benedizione all’intera spedizione capeggiata dal comandante e cancelliere Nehesi. Cinquanta chilometri più avanti, risalendo il Nilo verso nord, a Coptos, all’imbocco della gola che tagliava il deserto orientale fino al mar Rosso, il cosiddetto Uadi Hammamet, i marinai si sarebbero fermati e avrebbero cominciato a smontare le navi che con grande magnificenza erano sfilate sotto gli occhi dei tebani. Gli asini sarebbero stati caricati di vettovaglie e pezzi di imbarcazioni e condotti per giorni e giorni lungo un corridoio riarso e desolato. Raggiunto il porto di Quesir, sul mar Rosso, il legno sarebbe stato nuovamente ricomposto e le cinque navi sarebbero nuovamente salpate verso sud. Destinazione: il leggendario Paese di Punt. Il Corno d’Africa.

    Dopo quattro mesi la regina poteva ben sperare che le navi fossero giunte nella Terra del Dio, così denominata per la ricchezza di mirra e piante aromatiche tanto care alle divinità e tanto necessarie alle pratiche rituali. Era stato proprio il dio Amon a fare la richiesta. Aveva parlato direttamente alla regina e le aveva detto di andare a cercare incensi e unguenti nel lontano Paese africano perché bisognava «trasferire Punt all’interno del suo tempio»: il che tradotto ai comuni mortali significava trapiantare gli alberi aromatici provenienti da quel Paese nel giardino del tempio funerario della regina. E mentre contava i giorni, sua maestà passeggiava nel cortile esterno del tempio con il suo inseparabile braccio destro Senenmut, soprintendente di tutti i lavori, responsabile di palazzo, capo della tesoreria e di tutte le proprietà della casa regnante, l’uomo «più potente tra i potenti», secondo solo alla regina, che discuteva e progettava con lei tenendo tra le braccia la piccola principessa Neferura, di cui era anche precettore. Il suo devoto Senenmut riusciva a tranquillizzarla, nonostante i giorni passassero senza che alcuna notizia della spedizione giungesse alle loro orecchie. L’affetto, la stima e la fiducia che nutriva per quell’uomo, un nubiano di umili origini, che le era stato sempre al fianco in ogni suo passo, in ogni sua scelta felice o infelice, che aveva deciso di non sposarsi pur di dedicarle la vita, erano illimitati.

    Trascorsi altri otto mesi, la regina cominciava a dare segni di irrequietezza, finché di lì a poco non giunse alle porte di Tebe un messaggero. Veniva da Coptos. L’uomo aveva visto sbucare dal deserto una lunga carovana di uomini e una fila infinita di piante e animali e legname e cose mai viste. Si erano accampati sulla sponda destra del Nilo. Nel giro di pochi giorni avrebbero fatto il loro ingresso trionfale nella capitale. La regina e il suo braccio destro si prepararono ad accoglierli. Prima che le lunghe navi, circa venticinque metri, approdassero davanti al Geser geseru, «la meraviglia delle meraviglie», l’espressione visibile e manifesta del grande potere regale di Hatshepsut, il suo tempio funerario a Deir el-Bahari, la regina si era stretta in una leggera tunica bianca di lino che le lasciava scoperti i seni, sul capo rasato indossava una parrucca separata in tre ciocche che le scendevano sul petto e sulla schiena, sulla quale era adagiata la doppia corona, rossa e bianca, dell’Alto e Basso Egitto, simbolo delle due terre, e di un Paese da poco riunificato e rappacificato. Poi si era adagiata su un palanchino nella terrazza intermedia dell’edificio, circondata dai suoi servitori, mentre in basso, sotto la prima rampa, una lunga schiera di soldati e sacerdoti restava immobile in attesa con il fiato sospeso, finché una musica, dapprima lieve, non cominciò a riecheggiare nella conca rocciosa di Deir el-Bahari, a innalzarsi e rompersi sull’anfiteatro di rupi calcaree in cui si incastrava il tempio, sormontandolo e cingendolo di crepe, canaloni, rughe, erosioni di millenni. Le terrazze del tempio sembravano dei cassetti estratti dalla montagna, sovrapposti, di puro calcare bianco, affacciati sulla riva sinistra del Nilo proprio di fronte al grande tempio di Karnak dedicato al dio Amon che si ergeva dall’altra parte del fiume.

    Trombe e tamburi risuonarono dal basso, appena la prima imbarcazione indirizzò la prua nel canale che conduceva al tempio. Hatshepsut si alzò di scatto e corse giù lungo la rampa che portava all’ormeggio. Le navi si erano poste in fila, l’una accanto all’altra, e al ritmo dei flauti e dei crotali l’equipaggio cominciò a svuotare le stive stracariche. La regina era in visibilio, non aveva mai visto niente di simile, né mai nessun sovrano aveva ricevuto tanto in dono, fin dall’inizio dei tempi. Legni odorosi, sacchi di resina di mirra, alberi di mirra, di ebano, avorio, legno di cinnamomo, legno khesit, incenso ihmut e sonter, cosmetici per gli occhi, scimmie, cani, pelli di pantere, indigeni dalla carne arroventata, più neri dei nubiani. Si guardò intorno, vide che musici e danzatori circondavano festosi i suoi notabili. Gli occhi sorridenti delle fanciulle di corte di fronte a tutti quegli unguenti la travolsero come fosse stata anche lei una giovinetta. Si avvicinò alle mercanzie adagiate sul molo e si tuffò letteralmente su di esse: si versò l’olio profumato sulle braccia, si cosparse di essenze, affondò le braccia nei contenitori traboccanti, «brillò come le stelle, in presenza della terra intera».

    Dopo il suo momento di follia, la regina ritornò nei suoi panni e accolse il capo della spedizione Nehesi con tutti gli onori. Era stato preparato per lui e i suoi capitani un banchetto. Una volta seduti, la regina volle sapere ogni cosa. Un racconto lungo e affascinante che si protrasse fino a tardi. Il viaggio nel deserto, poi per mare lungo la costa africana, infine l’approdo in una terra in cui la gente nera abitava in capanne sospese su palafitte e le palme da dattero crescevano ovunque, in cui pascolavano strani animali col collo lungo, felini neri e scimmie, vacche cornute e bestie tozze e robuste con una testa sormontata da un corno, talvolta due. Il loro accampamento era stato allestito su terrazze di mirra e i sovrani di Punt riservavano loro ogni attenzione. Il capo era un certo Parehu che veniva accompagnato sempre dalla sua consorte e regina Ity, una donna tanto ospitale quanto grassa. Le contrattazioni e lo scambio di doni erano stati lunghi, ma avevano avuto un lieto esito. Faticoso era stato anche svuotare le navi e caricarle nuovamente. E infine era arrivato il viaggio di rientro, non privo di avversità. Ma il dio Amon era sempre stato con loro per ricondurli in patria, sani e salvi. Senenmut guardò la sua regina, gli occhi le brillavano. Sapeva che avrebbe fatto incidere quella storia sulle pareti del suo magnifico tempio, il Geser geseru, forse l’avrebbe fatto anche se la missione non fosse andata a buon fine. Avrebbe scelto il porticato sud della terrazza intermedia, visto che quello sul lato opposto era già stato occupato dalla rappresentazione della sua nascita divina. Il fedele dignitario, come capo dei lavori nonché architetto della regina, l’artefice di quello stesso magnifico tempio, avrebbe dato il suo parere positivo. Sarebbe stato il capitolo più felice della vita e della politica estera della sovrana, e lei sarebbe stata ricordata come una delle più potenti donne d’Egitto, non la prima, non l’ultima, ma di sicuro l’unica donna faraone che aveva rivoluzionato l’esercizio del potere fino ad allora gestito da una regina. Non poteva prevedere il povero e innamorato Senenmut che questo giusto epiteto sarebbe arrivato a distanza di millenni, non avrebbe potuto concepire tutto l’odio che sarebbe stato riservato alla sua sovrana dai suoi successori. Non avrebbe potuto immaginare che, alle soglie del XX secolo, più di tremila anni dopo, dei pionieri del passato armati di vanghe e di picche avrebbero riesumato la sua storia, la sua gloria e il suo nome. Hatshepsut, sposa e sorellastra del sovrano Thutmosi II, figlia del re Thutmosi I, zia e matrigna di Thutmosi III. Il suo regno si colloca tra il 1479 e il 1457 a.C., dalla morte dello sposo Thutmosi II fino all’ascesa del figliastro Thutmosi III, ma la sua storia inizia molto tempo prima. Bisogna risalire di almeno tre generazioni per comprendere cosa mosse questa donna a stringere tra le mani le redini dello Stato, a sobbarcarsi di un onere così gravoso, quali aspirazioni, quali sentimenti la portarono a prolungare la sua reggenza per ventidue anni, quali visioni e quali miraggi la guidarono in un arduo percorso di affermazione del proprio ruolo, quali frustrazioni e rancori dovette nutrire per rifiutare parte della propria femminilità e obbligarsi a vestire i panni di un uomo. La sua storia, tuttavia, è declinata al femminile, perché è prima di tutto la storia di un sangue nobile che fluisce di donna in donna, la storia di una famiglia, la XVIII dinastia, la casata reale più splendente di tutto l’antico Egitto, che segnò una rinascita e l’inizio di una nuova epoca: il Nuovo Regno. Questa storia ha inizio con una donna e con un inno.

    Lodate la sovrana del Paese, [...] che prende le decisioni riguardanti il popolo, sposa del re, sorella del sovrano, figlia di re, venerabile madre del re, che è al corrente degli affari di Stato, che unisce l’Egitto. Essa ha raccolto i suoi soldati e ne ha assicurato la coesione; ha riportato i fuggitivi, ha raggruppato i dissidenti; ha pacificato l’Alto Egitto, ha scacciato i ribelli; la sposa del re, Ahhotep, viva!

    È il 1543 a.C. e Ahmosi, figlio di Ahhotep, dedica alla madre questa composizione per onorarla e glorificarla, visto il ruolo politico di spicco che ha assunto in un momento drammatico della storia egizia: la lotta contro gli Hyksos, gli invasori asiatici che avevano occupato il Nord del Paese per due secoli, gettandolo nel disordine, lacerandolo, disgregando il potere centrale e favorendo la nascita di vassalli e principi dissidenti. I tebani, da sud, guidano la liberazione, cacciando gli stranieri e riunificando l’Egitto. Ahhotep e lo sposo Seqenenra prima e i figli Kamose e Ahmosi poi sono gli eroi di questa guerra e sono loro, una volta respinti i nemici e puniti i traditori, a inaugurare la nuova dinastia. Hatshepsut è sangue del sangue di Ahhotep, ovvero sua pronipote in linea diretta.Ahhotep vive fino a ottant’anni e vede regnare sia il figlio Ahmosi, sia il nipote Amenofi I. Sua figlia, Ahmose Nefertari, la nonna di Hatshepsut, sposa il fratello Ahmosi e genera il futuro sovrano Amenofi I, ma diventa persino più celebre della madre. Salita al trono accanto al marito, fin da subito viene insignita con il titolo onorifico di Sposa divina del Dio, una qualifica non certo priva di valore, poiché riprendeva una concezione teologica secondo la quale la complementarità dei due sessi era necessaria perché l’ordine sulla terra (maat) venisse mantenuto. Poiché il sovrano era garante di quest’ordine, la sua controparte femminile diventava altrettanto essenziale per la prosperità dell’Egitto. Una condivisione del potere rivelata anche da altri epiteti, come Signora delle Due Terre o Sovrana dell’Alto e Basso Egitto. Un potere che Ahmose Nefertari non condivide solo con Ahmosi, ma esercita anche come reggente del figlio Amenofi I, il quale sale al trono troppo piccolo per poter governare autonomamente. E persino dopo la morte la regina continuerà a esercitare la sua influenza, glorificata nelle tombe e sui monumenti, divinizzata e adorata dal popolo di Tebe.

    A succedere Amenofi I è Thutmosi I, anche lui tebano, ma non di sangue reale. L’unico titolo che gli consente di portare la corona è l’aver sposato un’altra donna dell’illustre casata: Ahmes, figlia di Ahmose Nefertari e sorella, nonché vedova, di Amenofi I. Da questo matrimonio nascono due figli: il principe ereditario Amenemes e Hatshepsut. Sfortunatamente Amenemes muore giovane e la legittimità di regnare passa a un figlio di Thutmosi I concepito con la concubina Mutnefret che sale al trono come Thutmosi II. Per legittimarsi anche lui, come tutti gli altri, deve congiungersi con l’unica discendente di sangue reale: la sorellastra Hatshepsut. Nessuna testimonianza potrà mai rivelare quanto astio e risentimento abbia covato la regina per essere stata estromessa da un trono suo di diritto, ma l’iscrizione del visir Ineni sulla sua tomba non lascia dubbi su chi fosse realmente a governare il Paese: «La sposa del Dio, Hatshepsut, dirigeva gli affari del Paese secondo la sua propria volontà. L’Egitto con il capo abbassato lavorava per lei». In effetti, Thutmosi II era definito con disprezzo come un «falco nel suo nido», un sovrano incapace e limitato che non aveva mai lasciato il suo guscio, non aveva mai preso parte ad alcuna campagna militare e sedeva sonnolento su quel trono conquistato con un matrimonio, laddove invece il nome di Hatshepsut risuonava per le vallate deserte del Sinai, lungo le terre alluvionali del Nilo e nel Delta. Né lo sposo fu più sollecito nel talamo reale, visto che Hatshepsut generò solo la piccola Neferura.

    Quando nel 1480 a.C. circa il debole falco passò a miglior vita, la grande sposa reale, priva di un erede maschio, dovette ingoiare un altro rospo, vedere cioè incoronato faraone il figlio di una concubina del re, Thutmosi III. Poiché questo figliastro, e nipote, aveva solo quattro anni, Hatshepsut, secondo consuetudine, ne assunse la reggenza. Un ruolo fin troppo stretto per una donna che vantava una discendenza diretta dal capostipite della XVIII dinastia, il liberatore Ahmosi, e che ogni giorno vedeva minacciato il suo dominio e la supremazia della famiglia tebana da alcune turbolente province del Medio Egitto, per non parlare delle aree orientali continuamente saccheggiate da predoni asiatici. Il capitolo Hyksos si era chiuso da fin troppo poco tempo, ferite mai chiuse pulsavano in tutto il regno. L’affermazione dell’autorità regale poteva essere compromessa ogni giorno da insidie esterne, lungo i confini, e interne al Nord come al Sud. Fortificare, costruire e rappacificare erano le uniche politiche ammissibili in un momento di passaggio così delicato. Ebbene, la regina riuscì a conseguire successi su tutti questi fronti e a rafforzare quella stabilità ancora vacillante dopo soli sessant’anni di riunificazione del regno. Questo è il motivo per cui non si spinse mai in spedizioni militari, se non probabilmente per rosicchiare un altro pezzetto di Nubia e portare a scopo preventivo i confini meridionali fino alla III cateratta del Nilo.

    Al suo quinto anno di reggenza, quando Thutmosi III aveva circa nove anni, Hatshepsut organizzò una visita nel Sinai per riaprire le miniere di turchese e di rame. A lavori finiti, com’era d’uso, fece deporre una stele con il suo nome e quello del legittimo sovrano. Ma per la prima volta la sua firma cambiò. Non fu più quella di una Sposa reale, fu quella di un faraone. Si investì arbitrariamente dei cinque titoli del protocollo reale che spettavano esclusivamente al sovrano, facendo anteporre al suo nome, per così dire, di battesimo Hatshepsut, il nome di Horo, delle due Signore, di Horo d’oro, e per finire il cartiglio con il titolo di trono "Re dell’Alto e del Basso Egitto Maatkara". Ma non si fermò qui.

    Di lì a due anni si fece incoronare faraone, e prese a rappresentarsi sulle pareti in pose ufficiali da combattimento con il gonnellino shendyt e la barba posticcia dei re. Un cambiamento sorprendente e non privo di contraddizioni. Se infatti Hatshepsut indossava la corona dei sovrani da un lato, continuava dall’altro, quasi non volesse rinunciare al filo diretto che la legava alla sua nobile casata per via femminile, a portare anche il copricapo a due piume delle spose reali. Inoltre, non mise mai in discussione la sovranità di Thutmosi III. Quest’ultimo aspetto è il più curioso. Definita per molto tempo l’usurpatrice, poiché estese la sua reggenza ben oltre il limite consentito, non assunse mai comportamenti che potessero escludere in qualche modo il faraone legittimo dal trono, né mise mai in pericolo la sua vita. Al contrario, lo tenne sempre al suo fianco e condivise con lui il potere, quanto meno simbolicamente. Qualunque attività la regina faraone intraprendesse, che fosse una spedizione punitiva o commerciale, o l’edificazione di un monumento, una statua, un obelisco, sempre le firme regali furono due, la sua e quella di Thutmosi III. Una cosa del genere non si era mai vista in Egitto, una coreggenza tanto bizzarra da far impazzire persino gli scribi, i quali, pur di non ripetere sempre per due volte Re dell’Alto e del Basso Egitto, introdussero il concetto aggregante di Per-aa (alta dimora), il luogo cioè in cui risiedevano entrambi i sovrani e da cui deriva il termine greco pharao, ovvero faraone, che diventerà per tutti i sovrani futuri, e per i posteri, il simbolo della regalità egizia.

    Nel settimo anno di regno di Thutmosi III si sovrappongono dunque due sovrani, il re e la regina, ma non sono una coppia reale, sono due faraoni. Il settimo anno di reggenza di Hatshepsut corrisponde allora al suo primo anno di regno. Un passo rischioso questo, per il quale non le è più sufficiente il suo nobile sangue: per legittimare la sua autorità ufficiale le occorre anche il sangue divino. Nella concezione egizia, infatti, il faraone non è un comune mortale ma un dio (Horo) incarnato nel corpo di un uomo, una divinità scesa sulla terra per garantire ordine e prosperità. Se Thutmosi III è Horo, come può esserlo anche Hatshepsut? Un problema che in passato si era già proposto quando alcuni sovrani avevano associato al trono per alcuni anni, poco prima della loro dipartita, i principi ereditari. Ma questo era un caso diverso. Hatshepsut non era un principe, aveva già regnato in vece del nipote per ben sette anni, ed era una donna. L’unica possibilità era rinascere come faraone predestinato da una volontà divina.

    Da quando la XVIII dinastia si era insediata in Egitto, la capitale del regno si era spostata a sud. Se Menfi, a nord, era stata il cuore dell’Egitto e aveva svettato con le sue mura bianche e le sue piramidi per tutto l’Antico Regno, Tebe con le sue cento porte era diventata la sede dello scettro all’inizio della nuova epoca. Qui si adorava da sempre un dio: Amon, il nascosto. Eliopoli, centro del culto solare e sede della casta sacerdotale più potente fino ad allora, aveva perso terreno in favore di Karnak, l’area sacra di Amon a Tebe, dimora del dio e dei suoi sacerdoti. Amon, in breve, diventò il più potente tra gli dèi. E poiché solo lui poteva dare ad Hatshepsut quello che cercava, la regina faraone decise di innalzare maggiormente la sua gloria. Investì molti fondi ed energie per arricchire il suo tempio a Karnak di obelischi, cappelle, statue, santuari, tabernacoli e decise di costruirsi la sua dimora dei milioni di anni, ovvero il suo tempio funerario, proprio di fronte alla dimora del dio, sull’altra sponda del Nilo. Nel suo ottavo anno di reggenza, e secondo anno di regno, la regina faraone poteva passeggiare sulle argentee gradinate del Geser geseru, a Deir el-Bahari, e rendere omaggio al dio che l’aveva concepita e predestinata al trono. Per mescolare, infatti, il suo sangue reale a quello divino, Hatshepsut fece incidere sulla parete del porticato nord della terrazza intermedia il racconto della sua nascita. Il dio Amon, rapito dalla bellezza di Ahmose, la madre di Hatshepsut, aveva assunto le sembianze di Thutmosi I per passare una notte con lei. Dalla loro unione era nata Hatshepsut. Mentre la storiella si diffondeva per il Paese, i forzieri del tempio di Amon si riempivano. La regina soddisfatta continuò a regnare a pieno diritto come faraone per altri quattordici anni, finché il suo nome improvvisamente non scomparve. E ne fece di cose. Il suo fervore costruttivo si diffuse da nord a sud. Fu lei a iniziare il grande viale processionale che univa il tempio di Luxor a quello di Karnak e fu lei a edificare vicino Beni Hasan – un luogo sacro del Medio Regno, a metà strada tra Menfi e Tebe – il primo tempio rupestre dell’architettura egizia, dedicandolo alla dea Pakhet, la leonessa, che dominava l’area, per placarne la furia. I greci lo chiamarono più tardi Speos Artemidos. Sorgeva all’ingresso della Valle del Coltello, non lontano da Ermopoli, in una zona in cui al tempo della guerra di liberazione dimoravano i peggiori vassalli degli Hyksos, gli irriducibili, i collaborazionisti. La lunga iscrizione che la regina faraone vi fece apporre non è soltanto un proclama politico, è la sintesi del suo regno. «La grande Pakhet vagava nella Valle dell’Oriente. Le strade inondate dalle piogge erano interrotte», questo era l’Egitto, sottintende Hatshepsut, prima del suo arrivo. Poi finalmente maat, l’ordine, grazie a lei viene ristabilito. «Ho fatto rifiorire quel che era rovinato. Ho raddrizzato quel che era stato abbattuto [...] Ho allontanato dal gran dio l’abominevole presenza degli stranieri e la terra ha cancellato la traccia dei loro sandali». Nonostante l’enfasi, di fatto Hatshepsut portò a compimento quello che avevano iniziato Seqenenra, Kamose, Ahmosi e le donne della sua famiglia: riportò armonia, coesione, prosperità in un popolo dilaniato da due secoli di caos e disgregazione, presupposti senza i quali le straordinarie conquiste di Thutmosi III, che portarono negli anni successivi l’antico Egitto alla sua massima estensione, non sarebbero state possibili.

    Dopo ventidue anni di anonimato, Thutmosi III, il figliastro di Hatshepsut, finalmente è l’unico e il solo faraone delle due terre. La sua prima iniziativa indipendente di governo è la conquista dei territori asiatici: le sue innumerevoli spedizioni militari lo renderanno presto celebre. Da questo momento, tuttavia, della regina faraone non si hanno più notizie. Niente denota il suo decesso se non un inquietante silenzio. A lungo si è pensato a una vendetta del sovrano, visto che più tardi si premurò di cancellare dalla memoria degli egizi l’esistenza della matrigna, facendo scalpellare via il suo nome e la sua immagine da tutti i templi che la regina si era tanto prodigata ad abbellire e arricchire, ma la verità è che Hatshepsut riuscì a restare incollata al suo trono finché la più naturale delle morti non se la portò via nel 1457 a.C.

    La decima musa

    Saffo: Grecia 640-570 a.C. ca.

    Sono piccola, ma ho un nome che sovrasta tutti: di

    conseguenza ho le dimensioni del mio nome.Ovidio,

    Ereidi. Lettera a Faone

    «Parlare di Saffo è briga non piccola», scriveva Giuseppe Bustelli nel lontano 1864. Il moltiplicarsi degli studi sulla sua vita e sulle sue opere da allora a oggi non ha migliorato la situazione. Tanta è stata la sua fama. Una celebrità che ebbe origine fin dai tempi in cui visse. Dai poeti suoi contemporanei, Alceo e Solone, che ne cantarono la bellezza e la dolcezza, a Strabone, che la definì qualche secolo dopo «uno spirito straordinario» senza eguali in materia di poesia. Da Plutarco e Aulo Gellio, che furono suoi appassionati ammiratori, a Platone, che le attribuì l’epiteto di «decima musa». Eppure della sua vita si sa pochissimo e anche delle sue opere, di cui ci sono pervenuti solo versi, frammenti. Tanto meno sappiamo del suo aspetto, di cui giungono notizie contraddittorie, e poco delineato rimane il contesto socio-culturale in cui visse. Tutto quello che abbiamo sono cocci di un’esistenza che qualcuno ha provato a ricomporre attraverso pochi riferimenti storici certi.

    Alcuni provengono da una Cronaca di avvenimenti, che vanno dal 1581 a.C., quando re di Atene era Cecrope, fino al periodo in cui venne composta, intorno al 262 a.C., incisa su una lapide di marmo bianco di Paro, da cui prese il nome. Qui si dice che 334 anni prima, cioè nel 596 a.C., «all’epoca in cui [...] era arconte ad Atene Crizia il Vecchio», Saffo fu esiliata e costretta a imbarcarsi da Mitilene (nell’isola di Lesbo) in Sicilia. Si desume infatti da altre fonti che la sua famiglia, i Cleanattidi, fosse entrata in opposizione con uno dei tiranni dell’isola, Pittaco, un brillante e vittorioso capo militare a cui, secondo Strabone, era stato attribuito il potere assoluto dagli abitanti di Mitilene per far cessare la guerra civile, causa già da molto tempo di omicidi e altre intollerabili violenze tra fazioni politiche avverse. E probabilmente la fazione di Saffo, o quanto meno della sua famiglia, era quella di Alceo, che si sa aveva inizialmente combattuto dalla parte di Pittaco per poi distaccarsene deluso una volta che questi aveva utilizzato il suo potere per divorare la città, e che aveva questa sua diserzione pagato con l’esilio, proprio come la poetessa, costretta a un soggiorno forzato a Siracusa per ben dieci anni. Un altro riferimento cronologico sta nel lessico Suda, un’enciclopedia di epoca bizantina attribuita al lessicografo Suida, in cui si evince che Saffo era vivente tra il 612 e il 609 a.C., cioè durante la quarantaduesima Olimpiade, «al tempo in cui vissero anche Alceo, Stesicoro e Pittaco». Sempre nell’enciclopedia si legge che andò in moglie al ricco Cercila, di Andro, da cui ebbe una figlia, che compose nove libri di poemi lirici, tra cui «epigrammi, elegie, giambi e monodie» e le fu anche attribuita l’invenzione del plettro.

    Nel 1896, due filologi di Oxford, nel corso di una campagna di scavi a Ossirinco, in Egitto, rinvennero un gran numero di papiri risalenti all’età greco-romana: documenti, inventari, petizioni, ordini di pagamento, lettere, vangeli, ma anche poemi, drammi e altre opere letterarie. Tra questi c’erano frammenti delle poesie di Saffo. Il papiro 1800 inoltre forniva notizie sulla sua vita:

    La famiglia di Saffo era di Lesbo, della città di Mitilene; suo padre fu Scamandronimo; ebbe tre fratelli: Eurigio, Larico e il più anziano Carasso, che andò in Egitto, dove a causa di una certa Dorica, dissipò quasi tutti i suoi averi. Larico, il minore, fu il suo preferito. Ebbe una figlia, Cleide, così chiamata dal nome della nonna. Saffo fu criticata da alcuni come immorale e innamorata delle donne; a quanto si dice ebbe un fisico sgraziato, bruttissimo, il colorito scuro e fu di piccola statura.

    Per Ovidio, Saffo rimase orfana di padre quando aveva solo sei anni e nelle sue Ereidi, in una lettera fittizia della poetessa per l’amato Faone, la immagina brutta ma talmente ricca di qualità da apparire bella a chi godeva della sua poesia. «La natura è stata crudele con me – le fa dire il poeta romano – ma con il genio supplisco questa mancanza. Sono piccola, ma ho un nome che sovrasta tutti: di conseguenza ho le dimensioni del mio nome».

    E il suo nome, in effetti, Psappho, di origine asiatica come quello del padre, ci riporta al suo status sociale. Era aristocratica, nessun dubbio su questo, la quale cosa si desume anche dal ruolo di coppiere che il fratello Larico ricopriva all’interno dell’edificio cuore e simbolo della polis, il pritaneo di Mitilene, un ufficio riservato solo a cittadini illustri. Alcuni versi di Saffo, del resto, possono confermare queste informazioni, come l’esistenza della figlia Cleide, la sua «cara bambina», il suo «fiorellino d’oro», e del fratello Carasso rimproverato da lei aspramente per aver dilapidato le fortune di famiglia a causa della cortigiana egiziana.

    Ricapitolando, era di nobile famiglia e di aspetto non gradevole, piccola, scura, sgraziata nel corpo, ma con una grazia d’animo, un’eleganza di espressione e un carisma tali da farla definire da molti «la bella Saffo» o «Saffo la pura, dalle trecce di viola e dal sorriso di miele». E di questo doveva esserne anche lei consapevole, se in uno dei suoi versi si legge: «Il mio ricordo non morirà». Una simile affermazione ci rivela molto della donna. La sua autorità, che derivava in primo luogo dalla sua appartenenza all’aristocrazia di Mitilene, si arricchiva di una sicurezza personale che il ruolo di spicco nell’intellighenzia locale aveva accresciuto. Il suo ego la precedeva, insomma, ma il suo incedere non era supponente, gonfio. La sua ci appare in definitiva una profonda conoscenza di sé e delle proprie capacità, in un universo non troppo facile per una donna. Ed è proprio l’universo femminile, in cui tutta la sua opera, se non la sua esistenza, si consuma, il punto di riferimento e l’ambiente che definisce veramente la personalità di Saffo. Qui entra in gioco la comunità di donne che costituiva il suo principale uditorio e che veniva definito il Tiaso. Che cosa sia stato veramente il Tiaso non è ancora ben chiaro. Molti studiosi in effetti vi si sono arrovellati e scontrati, senza mai raggiungere una visione concorde.

    Per alcuni si trattava di un circolo frequentato da giovani fanciulle di buona famiglia dove Saffo fungeva da educatrice. Le introduceva, cioè, alle cosiddette arti femminili – la danza, la musica, la poesia, il canto – per prepararle in buona sostanza a divenire spose modello. La frequente invocazione di Era, dea delle nozze, e di Afrodite, dea dell’amore, confermerebbe quest’ipotesi. D’altro canto, il fatto che Saffo componesse epitalami, cioè canti nuziali, ha fatto anche presupporre che il Tiaso fosse un coro che la poetessa dirigeva e istruiva in vista di cortei, feste e cerimonie matrimoniali. Secondo altri studiosi, invece, il Tiaso non poteva essere sganciato dall’elemento cultuale, visto che la stessa vita sociale era ritmata da feste religiose pubbliche in cui la collettività si riuniva per ascoltare poesie e canti che reiterassero attraverso narrazioni mitologiche i propri valori fondanti. In quest’ottica Saffo sarebbe stata la guida spirituale e rituale di un’aggregazione sacra. Che non si trattasse di una scuola è attestato dal fatto che Saffo si rivolgeva alle donne chiamandole compagne e non allieve. Qualsiasi cosa fosse o rappresentasse, il Tiaso era di fatto la cerchia a cui apparteneva e si rivolgeva la poetessa, il pubblico al quale le sue opere erano destinate, il gruppo di compagne, unite da legami di amicizia e di affetto, a cui le sue attenzioni e le sue liriche erano dedicate. Da qui deriva la condanna morale di quanti giudicarono turpe questo legame. Lo stesso fatto che Saffo chiamasse etere, compagne appunto, le sue affezionate amiche diede adito a molti fraintendimenti. Nell’antica Grecia, infatti, il termine etera si attribuiva indistintamente a concubine, cortigiane, dame di compagnia, prostitute, straniere, spesso colte e libere di partecipare a discussioni pubbliche in cui normalmente la presenza femminile non era accettata.

    Ad accanirsi contro Saffo furono soprattutto gli autori della commedia attica del IV secolo che deformarono a tal punto la sua immagine, quasi fosse una prostituta dedita a depravazioni di ogni sorta, da costringere altri autori, nell’intento di difenderla, a creare una seconda Saffo, una romantica cortigiana che a causa dell’amore non corrisposto per un certo Faone si era tolta la vita lasciandosi cadere dal faro di Leucade. E a lungo si fece confusione tra le due: è Ovidio che nella già citata lettera immaginaria racconta il suo leggendario suicidio, mentre Orazio, in virtù di quel suo gesto estremo e coraggioso, la definisce mascula, anche se c’è chi sostiene che l’epiteto fosse molto meno elogiativo, riferendosi al suo cosiddetto carattere maschile, e che venisse con dispregio attribuito alle donne che amavano le loro simili. Ed è ancora Ovidio a fare riferimento esplicito alla sua omosessualità quando scrive: «Che cosa insegnò la poetessa di Lesbo se non ad amare le fanciulle?». Ancora oggi Saffo è soprattutto riconosciuta come la prima donna ad aver cantato e fissato con la scrittura il suo amore per un’altra donna. Nel II secolo d.C. è Massimo di Tiro a giudicare nelle sue Dissertazioni l’amore che legava Saffo alle sue compagne: un rapporto del tutto simile a quello che intratteneva Socrate con i suoi allievi.

    Entrambi mi sembrano aver praticato l’amicizia – dice il retore – allo stesso modo: l’una verso le donne, l’altro verso gli uomini. L’uno e l’altra dichiarano che ebbero molti oggetti d’amore e che furono catturati da tutto ciò che è bello. Quello che per lui furono Alcibiade, Carmide e Fedro, tali furono per la Lesbia Gyrinna, Attide e Anattoria.

    Una sorta di paiderastìa al femminile, dunque, l’amore carnale e spirituale che legava il maestro al suo giovane allievo, ampiamente diffusa nell’antica Grecia. In ogni caso, un amore raffinato, che si poneva al di sopra di ogni cosa in un’ottica delicatamente femminile. Ne abbiamo un assaggio nel più celebre tra i suoi frammenti che ci sono pervenuti: «Alcuni una schiera di cavalieri, altri di fanti, altri ancora una flotta di navi, sulla nera terra dicono sia la cosa più bella, io invece dico quello che si ama».

    Se Saffo sia stata legata alle sue compagne

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