Le papesse
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In un percorso che si snoda dall’antichità ai giorni nostri, Claudio Rendina ci offre un’insolita e documentata controstoria della Chiesa, attraverso vicende spesso sconosciute ai più, ma determinanti nell’evoluzione secolare dello Stato del Vaticano.
Amanti, favorite e mogli, sante, cortigiane e suore al potere nella Chiesa di Roma dalla papessa Giovanna ai giorni nostri
Una controstoria al femminile della Chiesa cattolica
Dall'autore dei bestseller I papi e La santa casta della Chiesa
«La storia della chiesa è piena di “Papesse”… Rendina ce le racconta con il suo solito stile da cronista e con la sua solita precisione da studioso.»
La Repubblica
Claudio Rendina
scrittore, poeta, storiografo e romanista, ha legato il suo nome a opere di successo, pubblicate dalla Newton Compton, tra cui ricordiamo: Il Vaticano. Storia e segreti; Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Roma; La vita segreta dei papi; La santa casta della Chiesa; L’oro del Vaticano; 101 misteri e segreti del Vaticano che non ti hanno mai raccontato e che la Chiesa non vorrebbe farti conoscere. Ha diretto la rivista «Roma ieri, oggi, domani» e ha curato La grande enciclopedia di Roma. Ha scritto il libro storico-fotografico Gerusalemme città della pace, pubblicato in quattro lingue. Attualmente firma per «la Repubblica» articoli di argomento storico, artistico e folkloristico.
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Anteprima del libro
Le papesse - Claudio Rendina
58
Prima edizione ebook: Novembre 2011
©2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3681-6
www.newtoncompton.com
Edizione digitale a cura di geco srl
Claudio Rendina
Le papesse
Amanti, favorite e mogli, Sante, cortigiane e suore al potere nella Chiesa di Roma dalla papessa Giovanna ai giorni nostri
droppedImage-2.pngPremessa
Non esiste il termine papessa
nel vocabolario della Chiesa di Roma e nella gerarchia dell’ordine ecclesiastico. È stato coniato appositamente per un leggendario personaggio medievale, Giovanna, dalla quale derivano le caratteristiche proprie della Ecclesia come Mater e della cerimonia di consacrazione del sommo pontefice. Un leggendario personaggio che in realtà va identificato nello storico sovrano pontefice Giovanni VIII, che diede adito, come sodomita e pedofilo, alla leggendaria esistenza della papessa, come sarà rievocato in uno specifico capitolo. È anche vero che papessa si è autonominata, alla fine del XIII secolo, l’eretica Maifreda da Pirovano, cugina di Matteo Visconti, una suora seguace dell’ordine dei Guglielmiti, ritenuto eretico dal tribunale dell’inquisizione; è in qualche modo un antiPapa al femminile, in opposizione a Bonifacio VIII, e finisce sul rogo. Ma oltre al significato simbolico e a quello eretico, il termine va inteso in senso ampio, in riferimento alle diverse figure che si sono avvicendate a fianco dei papi nella storia di due millenni, con e funzioni alternative all’uomo sul trono pontificio.
La papessa è prima di tutto l’amante del Papa, ovvero la favorita di corte in veste di moglie, uxor Christi, come fu qualificata Giulia Farnese alla corte del Papa Borgia, evocata in diverse cronache e testi letterari, diventando perfino eroina
di Romanzi d’appendice, e non, come la Juliette del marchese de Sade. Ma la papessa è anche la compagna, se non la moglie, del sacerdote e del cardinale prima dell’avvento al trono pontificio, come una autentica coppia di fatto
. Una donna tenuta lontana dalla corte pontificia, come è stato per Vannozza Cattanei e Silvia Ruffini, non ammesse nel Palazzo Apostolico di Alessandro VI e Paolo III. Una donna che usufruisce però di tutti i vantaggi della vita di corte anche attraverso i propri figli, maschi o femmine, questi sì ammessi nel Palazzo Apostolico, interpretando a loro volta la parte di favoriti.
La papessa pertanto è un personaggio che affianca più o meno direttamente il sovrano pontefice nella gestione del potere, ovvero nello sfruttamento dei beni materiali che ne derivano, dal denaro alle proprietà terriere e immobiliari, dalle attività commerciali e industriali ai titoli aristocratici e politici. E sulla scia del nepote
ci sono i suoi familiari, così che la papessa fa spesso riferimento alla famiglia del Papa ed è in ogni caso l’anima del nepotismo in senso ampio. Emblematico resta il palazzo Piccolomini di Siena, soprannominato il Palazzo delle Papesse, perché fatto costruire da Pio II per le sorelle Laudomia e Costanza, e divenuto immagine edilizia del nepotismo nel contesto delle famiglie che vi hanno abitato.
Ma in alternativa è esistita anche la papessa come donna animata da spirito religioso, una diaconessa o una suora, spesso Santificata dalla Chiesa di Roma e per lo più non implicata nelle passioni terrene, ma impegnata comunque a mantenere il Papa nella gestione di un potere pur sempre ambiguo, diviso tra aspetto spirituale e temporale. E ancora, la papessa è in ultima analisi la Chiesa stessa, o meglio la Mater Ecclesia, evocata nella frase di Cristo che a caratteri dorati corre sul fregio della trabeazione nella cupola della basilica di San Pietro: «TU ES PETRUS ET SUPER HANC PETRAM EDIFICABO ECCLESIAM MEAM». E la Chiesa come tale è raffigurata nei quattro basamenti in marmo bianco di Carrara del baldacchino bronzeo della basilica di San Pietro. Sui primi sette stemmi della famiglia Barberini del Papa Urbano VIII, nell’incavo delle chiavi pontificie, è scolpito il viso di una donna nelle varie fasi di un parto, alle quali fa seguito, nell’ottavo, il sorridente volto del bambino nascente. Finché la chiesa papessa viene raffigurata nel 1814 da Antonio Canova, in una statua, come immagine della Religione Cattolica con tanto di mitra in testa. La papessa è in definitiva l’alter ego del Papa, ovvero il suo doppio, proprio come raffigurazione della Chiesa, secondo quanto chiaramente indicato nella frase di Cristo. E considerando che nella Chiesa si identifica il potere ecclesiastico e politico del sovrano regnante, la figura della papessa trova nel papa stesso la sua storica identità.
Tra mogli, diaconesse e agàpete
Fin dalle origini, quando Gesù costituisce una comunità religiosa (interpretata in seguito come Chiesa, in cui Simone è la pietra angolare
, e per questo soprannominato da Gesù stesso Cefa, ovvero Roccia
), è certa in essa la presenza delle donne, a cominciare dalle mogli dei suoi apostoli e discepoli. La prima a cui si pensa è la moglie di Pietro, per la quale fa testo l’indicazione riportata nel vangelo di Marco (1, 29-31), in cui si dice che un giorno Gesù guarisce «dalla febbre» la suocera dell’apostolo nella città di Cafarnao. L’esistenza della suocera di Pietro ha fatto giustamente ritenere che fosse sposato, e non risulta d’altro canto che Gesù abbia chiesto al suo apostolo di lascia re la moglie; c’è quindi da credere che Pietro l’abbia tenuta con sé.
Questo è confermato da Paolo di tarso, che nella prima Lettera ai Corinzi (9, 5) scrive: «non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del signore e Cefa?». C’è quindi da ritenere che apostoli e discepoli fossero sposati e non avessero abbandonato le loro mogli per compiere l’apostolato, anche quando si sono allontanati da Gerusalemme, raggiungendo ognuno la propria città di missione. Infatti, secondo Clemente Alessandrino (150 ca. 215 ca.), la moglie di Pietro segue il marito nella sua predicazione fino a Roma, rivestendo il rango di papessa a fianco di colui che fu considerato il primo Papa, e muore martire perfino prima di lui.
Inoltre, sempre Paolo nella Lettera ai Romani (16, 1) scrive: «vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencrea», che era un insediamento costiero presso Corinto; là dove si fa un preciso riferimento a un ministero femminile nel contesto di una comunità ecclesiastica, quella delle diaconesse. Queste donne, come ha scritto lo storico Aurelio Bianchi Giovini (17991862), «istruivano le giovani catecumene», ovvero le aspiranti alla conversione alla religione cristiana, «nel battesimo, che si faceva immergendo tutta la persona in un bagno, aiuta vano le donne a spogliarsi e poi le vestivano coll’abito bianco; assistevano il vescovo quando le cresimava e quando amministrava l’olio Santo alle inferme; lavavano le donne morte e le componevano nella bara; nei tempi di pericolo erano le messaggere del vescovo, ne portavano gli ordini, ne eseguivano le commissioni, facevano la vece de’ diaconi nel distribuire le limosine», ovvero le elemosine. Si possono considerare come il braccio destro del ve scovo, ovvero del Papa, e in questo caso si può loro attribuire l’appellativo di papesse in embrione. Sono per lo più sposate, ma votate a una vita di castità coniugale, anche se c’è sempre il rischio di qualche caduta
, che comporta un venir meno alla purezza della carica ricoperta. Tant’è che il papa Sotero intorno al 170 proibirà alle diaconesse di toccare la patena e il calice, nonché di bruciare incenso nelle cerimonie.
Sul nome della moglie di Pietro non c’è traccia nei van geli ma, come ha scritto il biblista Salvatore Garofalo, la fantasia popolare le ha accreditato «un improbabile nome latino, Perpetua o Concordia» con tanto di figlia, Petronilla, «il cui nome si credette di derivare dal nome stesso di Pietro, mentre si collega col classico Petronio». L’esistenza di questa figlia configura Pietro come un papà, anche se con l’apostolo di Gesù la definizione assume un significato gentile e non ha ancora quel valore negativo che avrà in seguito nel rapporto dei papi con amanti e prostitute e relativi figli. E di questa figlia, a Roma con il padre e la madre, parlano gli Atti apocrifi di Pietro, presentandola paralizzata e non guarita dal padre, come invece avrebbe potuto fare con un miracolo. Negli Atti si spiega che lei era stata punita con quella malattia per aver acceso, con la sua bellezza, il desiderio di un giovane di nome Tolomeo, che a causa della disperazione era divenuto cieco. E una parallela tradizione fa morire Petronilla martire, come appare in un affresco con la scritta Petronella Mart dietro l’abside della basilica fatta costruire a Roma da papa Siricio, tra il 390 e il 395, nelle catacombe di Domitilla sulla via Ardeatina.
Pietro sarebbe stato ospitato a Roma sull’Aventino nella casa di Priscilla e Aquila, genitori della tredicenne Prisca, e tutti e tre sarebbero stati battezzati dal primo Papa; e Paolo nella Lettera ai Romani parla di una ecclesia domestica di Aquila, qualificata successivamente come domus Priscae, sulla quale sarebbe sorta poi la chiesa di Santa Prisca. Mentre alla madre fanno riferimento le catacombe di Priscilla sulla via Salaria, le più antiche di Roma. In ogni caso il nome delle due donne, che tende quasi a unificarsi, ha creato incertezza sulla precisa definizione delle loro identità familiari, tanto che si è anche pensato a una sola persona. Che in ogni caso subisce il martirio ed è stata considerata la prima Santa dell’occidente a testimonia re col sacrificio della vita la sua fede in Cristo, come suggerisce il suo nome, di origine latina, primitiva
.
Ma Pietro sarebbe stato ospitato anche sull’Esquilino, nel palazzo del senatore Pudente, dove avrebbe organizzato un oratorio, battezzando le vergini Pudenziana e Prassede, morte probabilmente intorno al 120, durante il pontificato di Sisto I; le due donne non sarebbero state vittime di un martirio, ma piuttosto custodi
dei martiri in veste di diaconesse. Esse coltivano infatti una sorta di devoto collezionismo di reliquie: costruiscono nelle proprie case sul colle Esquilino due pozzi, nei quali fanno colare il Sangue dei martiri, considerato appunto un’autentica reliquia, tumulando poi i loro cadaveri sotto il pavimento e nel territorio circostante le case. Sulle quali, più tardi, verranno costruite le rispettive chiese di Santa Pudenziana e Santa Prassede; e mentre la prima custodisce sotto l’altar maggiore anche una tavola di legno sulla quale San Pietro avrebbe celebrato la messa, la seconda ha le pareti tappezzate di lapidi con i nomi dei sepolti, con un disco di porfido a terra che indica il luogo esatto dove era il pozzo.
Le case delle due diaconesse sono in pratica delle domus ecclesiae, case-chiese
, ovvero piccole basiliche sotterranee. In questi edifici nascosti si svolgono le pie pratiche di riunioni liturgiche: dalla lettura dei testi sacri alla celebrazione delle messe e alle omelie, gestite da un presbiterio, cioè dal più anziano della comunità, che proprio per la sua età matura ha ricevuto da un apostolo o un discepolo di Gesù, e poi da un vescovo, l’ordinazione sacerdotale. La domus ecclesia più antica, di cui si ha notizia storica mente certa nel contesto di un episodio di persecuzione, è quella che si trova nei sotterranei della basilica di San Clemente in via di San Giovanni in Laterano, fondata nel IV secolo, ovvero a un terzo livello di scavi. Vi si accede da una scala in fondo alla navata, scendendo sotto le absidi della basilica: è costituita da un vestibulum e da un triclinium, ovvero una grande sala a volta, dal soffitto a cassettoni con muri in blocchi di tufo e banconi in muratura lungo le pareti laterali e, nel mezzo, un’ara marmorea con rilievi relativi al dio Mitra che immola un toro; e questo perché la domus ospiterà nel III secolo un mitreo.
Questa domus ecclesia è originariamente proprietà del quarto Papa di Roma, Clemente, eletto alla cattedra di Pietro nell’88; è figlio del senatore Faustino, della gens Flavia, quindi parente dell’imperatore Domiziano. E forse questa sua origine lo salva dalla brevissima ma intensa persecuzione scatenata nel 95 dall’imperatore. Clemente è solito riunire nella sua domus ecclesia i cristiani della zona per pregare con loro e svolgere le funzioni religiose, in uno spirito di apostolato che finisce per incrementare diverse leggende. Come quella di Sisinnio legata a un miracolo rimasto affrescato nella navata centrale della basilica inferiore.
Sisinnio è il prefetto di Roma e il marito di una certa Teodora, convinta al voto di castità da Clemente e divenuta diaconessa della domus ecclesia; Sisinnio, irato per la forzata astinenza, pedina la moglie con i suoi soldati e la sorprende nella domus ecclesia mentre assiste Clemente nella messa. Sisinnio allora ordina ai soldati di arresta re il Papa, ma dio non lo permette, accecando il prefetto e i suoi sgherri. L’affresco della navata centrale ci riserva, nella parte sottostante il miracolo, il proseguimento della leggenda con una scena raccontata a fumetti: in essa si manifesta il lato comico dei soldati che, accecati, trascinano una colonna invece del Papa, esprimendosi in una lingua intermedia tra il latino e il volgare. E si passa da un triviale «Filii de pute traite», a un equivoco «Fa live de retro co’ lo palo Carvoncelle», sui quali s’impone la sentenza di Clemente in latino: «Duritia cordis vestri saxa trahere meruisti», cioè Per la durezza del vostro cuore, meritaste di trascinare sassi
. Ma le conseguenze di questo miracolo curioso si fanno sentire. Sisinnio fa la sua denuncia e il nuovo imperatore Nerva esilia il Papa nel Chersoneso, dove subirà la condanna a morte; infatti finis
l Mar Nero con un’ancora al collo.
Ma le diaconesse seguitano a essere votate al martirio. È quanto capita a Cecilia, durante il pontificato di Eleuterio (175-189), del quale è la probabile diaconessa. Cecilia è una giovane della gens Caecilia, andata sposa a soli quattordici anni a Valeriano, da lei convertito e convinto a rispettare la sua verginità. Ed è proprio Valeriano a subire per primo il martirio, insieme con il fratello Tiburzio e con Massimo, incaricato del supplizio e convertitosi a sua volta. Quindi è il turno di Cecilia, che viene tenuta rinchiusa per tre giorni nel caldarium della sua casa, affinché soffochi; uscita illesa dalla terribile prova, la giovane è decapitata. Anche questa volta la morte non è pronta a venire; colpita per tre volte sul collo delicato, Cecilia continua a vivere ancora tre giorni, prima di cogliere finalmente la palma del martirio, il 22 Novembre. Il suo corpo, sepolto nelle catacombe di San Callisto, viene fatto trasferire da Papa Pasquale I in Trastevere, probabilmente nel luogo in cui un tempo era sorta la casa dello sposo di Cecilia, Valeriano. Al di sopra del sepolcro viene innalzata una chiesa, nucleo originale della futura basilica. Riesumata nel 1599, Cecilia, secondo quanto descrive lo storico Cesare Baronio, è trovata miracolosamente intatta, reclinata da un lato come una dormiente, nella stessa posizione nella quale è ritratta dalla bella statua di Stefano Maderno, vanto della basilica trasteverina. Verrà no minata patrona dei musicisti a causa di una maldestra interpretazione di un’antifona contenuta nei Vespri dell’ufficio composto in suo onore, da cui ebbe origine in seguito l’accademia Musicale a lei intitolata.
Nel 295 è la volta di Susanna, della quale si ha notizia nella trascrizione di atti del tutto inattendibili, e il riferimento alla quale, nel Martirologio, è decisamente breve: «a Roma, alle due Case, presso le terme di Diocleziano, natale di Santa Susanna». Queste poche parole indicano il luogo del martirio della Santa, ovvero del suo «Natale celeste»; il riferimento a Diocleziano fa nascere una leggenda secondo la quale la cristiana Susanna, rifiutata la proposta di nozze con un pagano dell’imperatore Diocleziano, sarebbe stata sgozzata davanti alla propria abitazione. La moglie dell’imperatore, serena, avrebbe posto la sua salma in un sarcofago, collocato nelle catacombe di San Callisto. La leggendaria Passio di Susanna, del VI secolo, la vorrebbe parente sia dell’imperatore Diocleziano sia del cugino Papa Caio (283-296) e sua diaconessa; avendo rifiutato di andare in sposa al figlio dell’imperatore, è condannata a morte e decapitata nella sua stessa casa.
Appare invece integro nella sua purezza il martirio che subisce nel 304 la dodicenne Agnese, giovanissima diaconessa del Papa Marcellino (296-304). Denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, da lei respinto, viene condotta tra le prostitute nel lupanare ricavato nei fornici dello stadio di Domiziano; denudata, riesce a salvare il proprio pudore grazie ai lunghi capelli che, scioltisi miracolosamente, la ricoprono lungo tutto il corpo. Nessuno osa violare la sua verginità, tanto più che l’unico che tenta di farlo cade fulminato ai suoi piedi. Condotta davanti al prefetto, viene sfidata a ridare la vita a quell’uomo in nome del dio dei cristiani; Agnese compie il miracolo, per cui è accusata di magia e condannata al martirio. Muore sgozzata, come l’agnello di cui porta il nome, che deriva dal greco agne, casta
, e ricorda appunto l’agnello; sopra i sotterranei dove fu uccisa, a piazza Navona, sorgerà la chiesa di Sant’Agnese, terminata nel 1123 e ricostruita nel 1657.
Non tutte le donne votate alla religione cristiana sono diaconesse; ci sono anche quelle animate più che altro da uno spirito di carità verso il prossimo, chiamate alla greca agàpete, (in latino agapetae, dal greco αγαπηται, ovvero amate, dilette
). «Erano per lo più giovani che si dedicavano gratuitamente al servizio delle persone religiose», annota sempre Bianchi Giovini, «abitavano co’ preti e talvolta dormivano nello stesso letto per mettere, dicevano, a più dure prove la concupiscenza e avere la bella gioia di vincerla. Ma si può ben credere che le cadute fossero più frequenti delle vittorie». Ci sono peraltro anche eunuchi, che svolgono il servizio di sacrestani, equiparati alle femmine, tanto che ambedue vengono chiamate anche sorelle adottive. Sono questi i gestori del la Santa comunità cristiana che se ne sta nascosta per motivi strategici, sotto il terrore della persecuzione, ed è destinata a costituire una categoria religiosa chiusa e compatta nella difesa dei propri interessi materiali e spirituali.
La convivenza è in origine casta, ma in seguito, a dispetto dell’origine spirituale del fondamento dottrinario, e nonostante il blando deterrente offerto dalla verificabilità della illibatezza delle donne, ma non degli eunuchi, questa usanza dà adito a vere e proprie degenerazioni, aberrazioni e scandali, che spesso gettano una generale ombra di sospetto sull’intero fenomeno spirituale. Tanto che del problema si occupa anche la legislazione civile in specifici articoli del Codice teodosiano del V secolo. Peraltro l’ostilità non basta a mettere fine al fenomeno, la cui completa soppressione avviene solo molti secoli più tardi, nel 1139, sotto il pontificato di Innocenzo II, con il Concilio lateranense II. Le agàpete non vanno confuse, come spesso avviene, con le virgines subintroductae (in greco, parthenoi synei saktai), cioè le vergini (o donne) introdotte di nascosto
, conviventi con chierici, in una pratica che è anch’essa all’origine di devianze e pertanto oggetto di divieti. Queste ultime sono donne che, al di fuori di voti spirituali, vivo no con un chierico senza aver contratto matrimonio, come autentiche concubine, ovvero compagne
di fatto, con tanto di degenerazioni. Basti pensare che una di queste è Marcia, una delle amanti preferite dell’imperatore Commodo, pronta a sacrificarsi per la causa; infatti lei fa firmare a Commodo una lista per la liberazione di diversi membri della comunità cristiana esiliati in Sardegna, tra i quali Callisto. Che in effetti finisce in esilio non per moti vi religiosi, ma per la sua attività di strozzino, che svolge non essendo ancora cristiano. Gli capita di prestare denaro a un ebreo, che è restio a rimborsare i soldi ad usura, e quindi Callisto lo va a rintracciare in sinagoga, durante una cerimonia; gli ebrei presentano una denuncia contro di lui per il disturbo della cerimonia e il prefetto lo condanna ai lavori forzati in Sardegna. Lo libera di