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Grandi storie di montagna che non ti hanno mai raccontato
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E-book339 pagine3 ore

Grandi storie di montagna che non ti hanno mai raccontato

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Info su questo ebook

Oggi le montagne d’Italia e del mondo – le Dolomiti e il Monte Bianco, l’Everest e il K2, il Kilimanjaro e il Gran Sasso – sono soprattutto spazi di divertimento e avventura. Ma i sentieri, le pareti di roccia e di ghiaccio, le piste da sci e le vette sono solo una parte del quadro. Per millenni, in ogni angolo della terra, le montagne sono state territori di duro lavoro quotidiano, fonte di paura e luoghi eletti a culto, scenario di sfide che hanno messo alla prova le umane possibilità, oltre che teatro di guerra. Le 101 storie di montagna raccontate in questo libro si muovono tra passato e presente, tra straordinarie cime e prodigiose imprese, esplorando una natura impervia e narrando la vita di popoli diversi. Accanto a Reinhold Messner, Walter Bonatti, Gustav Thoeni e i campioni dell’arrampicata moderna, c’è spazio per Dino Buzzati e per Ernest Hemingway, per papa Celestino V e per Ötzi, la mummia dell’Età del Bronzo ritrovata sul confine tra l’Alto Adige e il Tirolo. E non bisogna dimenticare l’orso, l’aquila, il lupo e naturalmente lo Yeti, perché i veri signori delle alte quote sono loro!

Tra imprese e leggende, le storie di montagna che vale la pena conoscere

Tra le storie di montagna che non ti hanno mai raccontato:
Gli stambecchi di re Vittorio Emanuele
Il leopardo di Ernest Hemingway
La misteriosa Garet el Djenoun
Nanga Parbat, la montagna tragica
Annapurna, la dea dei camminatori
Kinabalu, la giungla verticale del Borneo
Mount Vinson, il Polo del freddo
Sinai, da Mosè al turismo di massa
Tiscali, la Sardegna di pietra
Conquistadores sul Popo
La strana roccia di Monsieur de Dolomieu
La corda spezzata di Edward Whymper
Il mistero di Mallory e Irvine
Civetta, la nascita del sesto grado
Riccardo Cassin, mani da strapiombi
Il tricolore sventola sul K2
Il cervino di Walter Bonatti
Tre ore e un quarto sul Dru
Alison Jane, una mamma sulle grandi pareti
Nives, la donna degli “ottomila”
Stefano Ardito
È una delle firme più note e prestigiose del giornalismo di montagna e di viaggio. I suoi reportage compaiono sulle maggiori testate italiane. È autore di numerosi libri e guide sulle montagne d’Italia e del mondo e di una cinquantina di documentari. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 storie di montagna che non ti hanno mai raccontato, 101 luoghi archeologici d’Italia dove andare almeno una volta nella vita, Le grandi scalate che hanno cambiato la storia della montagna, Cammini e sentieri nascosti d’Italia, Le esplorazioni e le avventure che hanno cambiato la storia, Guida curiosa delle Dolomiti, Passeggiate ed escursioni a Roma e dintorni, Passeggiate ed escursioni sulle Dolomiti. Nel 2015 ha vinto il Premio Cortina Montagna, nel 2020 è stato finalista al Premio Bancarella.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854144033
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    Anteprima del libro

    Grandi storie di montagna che non ti hanno mai raccontato - Stefano Ardito

    Storie di natura

    1.

    YETI, MITO E REALTÀ

    Nome: dremo o tschemo in Tibet, mi-ti nelle valli degli Sherpa, migio e beshung nell’Himalaya cinese, almas in Mongolia, yeti o abominevole uomo delle nevi in Occidente. Segni particolari: peloso e dall’andatura dondolante. Età: almeno uguale a quella dell’Homo sapiens. Dimensioni e peso: superiori a quelle di un uomo, come dimostra la profondità delle impronte nella neve e nel fango.

    Il carattere, invece, è mutevole. Normalmente timoroso di un incontro ravvicinato con l’uomo, il misterioso abitante dell’Himalaya può anche diventare aggressivo. Ne sa qualcosa Lhakpa Sherpeli, diciassettenne nepalese aggredita nel 1974 insieme ai suoi yak sui pascoli della valle di Gokyo.

    L’elenco delle vittime del bestione prosegue con gli ingegneri norvegesi Aage Thorberg e Jan Frostis, azzannati nel 1948 tra i monti del Sikkim. E con Reinhold Messner, l’eroe degli ottomila, che nel 1986, nel Tibet orientale, viene attaccato da «una figura gigantesca su due gambe», dotata di «braccia possenti che pendevano fino a toccare le ginocchia», come racconta nel libro Yeti. Leggenda e verità.

    L’Occidente sa dello yeti da millenni. «Sui monti orientali dell’India si incontrano creature agilissime che camminano a quattro zampe o erette. La loro figura è simile a quella umana, e sono così veloci che è impossibile catturarli», scrive duemila anni fa Plinio il Vecchio. Misteriosi uomini coperti di pelo compaiono nelle cronache di viaggio in Asia pubblicate tra il Sei e il Settecento.

    Nel 1832, B.H. Hodson, primo residente britannico a Kathmandu, riferisce in una relazione che un cacciatore nepalese è stato spaventato da «un uomo selvaggio che si muoveva su due zampe, era coperto da un lungo pelo e non aveva coda».

    Tra i primi occidentali a scoprirne le tracce da vicino è l’alpinista ed esploratore britannico Eric Shipton, che nel 1961 fotografa delle grandi orme sul ghiacciaio di Menlung, nell’Himalaya nepalese.

    Fanno incontri analoghi, negli anni, alpinisti famosi come Walter Bonatti, il polacco Andrzej Zawada e l’inglese Don Whillans.

    Nel 1959, Edmund Hillary, conquistatore sei anni prima dell’Everest, organizza una spedizione scientifica, liquida come un falso in pelle di antilope lo scalpo di yeti conservato nel monastero di Pangboche e conclude che lo yeti è una creatura mitologica.

    Poco dopo, però, l’americano Peter Byrne ruba due dita della mano di yeti conservata nello stesso monastero e le fa analizzare a Londra, dove vengono definite non totalmente umane.

    Qualcuno parla di un uomo di Neanderthal, altri del piccolo orso che tibetani, bhutanesi e baltì chiamano dremo (o tshemo). Ma la popolarità universale dello yeti rimane. Basta una passeggiata per le vie di Kathmandu, la capitale politica del Nepal e capitale turistica dell’Himalaya, per imbattersi in alberghi, agenzie di viaggio e trekking, ristoranti e negozi dedicati allo yeti.

    E basta un sondaggio alla buona tra i camminatori che visitano l’Himalaya per scoprire qual è il loro sogno segreto.

    Più che vedere da vicino l’Everest o entrare nei monasteri buddhisti, i trekker vorrebbero trovarsi davanti a una sagoma avvolta nella nebbia, o a un’impronta misteriosa nella neve. Forse lo yeti non esiste. Ma gli uomini ne hanno tremendamente bisogno.

    2.

    LA LEGGENDA DELL’HOMO SELVADEGO

    Anche la Valtellina ha il suo Yeti. Nel più noto affresco che gli è stato dedicato, ha l’aspetto di un uomo dal corpo peloso, con una lunghissima barba, che tiene in mano una lunghissima clava. Accanto al volto è una specie di fumetto che recita: «E sonto un homo selvadego per natura, chi me ofende ghe fo pagura».

    L’affresco che ritrae l’Homo Selvadego è una delle opere d’arte più singolari delle montagne di Lombardia. Dipinto nel 1464, fa parte di un magnifico ciclo di affreschi (notevoli anche una Deposizione e un arciere) che ornano un palazzetto di Sacco, il più basso abitato della valle del Bitto di Gerola. L’edificio sorge in Contrada Vaninetti, a poche centinaia di metri dalla chiesa, sulla cui facciata si trovano altre notevoli pitture della stessa epoca. A realizzarlo sono stati Simone e Battistino Baschenis, esponenti di una famiglia di pittori originari di Averara, e che hanno lavorato in Valtellina, nella Bergamasca e in Trentino. Il palazzetto, dimenticato per secoli, è stato abitato da una famiglia contadina fino agli anni Ottanta, poi è stato acquisito dalla Comunità montana che ha sede nella vicina Morbegno, e adibito a museo. L’affresco è nella stanza che è stata utilizzata a lungo come fienile. Al riparo dalla luce del sole, in un ambiente asciutto grazie al fieno, ha mantenuto dei colori quasi inalterati nel tempo.

    La presenza anche sulle Alpi lombarde di una figura simile allo Yeti himalayano non deve stupire più di tanto. Anche in altre zone della Valtellina si sono conservate leggende che riguardano irsuti uomini delle montagne simili a quelli delle montagne nepalesi e tibetane. In altre valli, e in un affresco moderno a San Martino Val Masino, compare invece il Gigiàt, un incrocio fra un caprone e un camoscio, dal pelo lunghissimo, dal carattere irascibile e dalle dimensioni gigantesche.

    Nel più documentato studio dedicato all’Homo Selvadego, Il sapiente del bosco: il mito dell’uomo selvatico nelle Alpi, l’antropologo Massimo Centini ricorda come la leggenda del bestione sia presente in molte zone della catena montuosa. Il Selvadego della Valtellina diventa Sarvàn nel Cuneese, Urcat L’Homo Selvadego, signore dei boschi nel Canavese, Fanès oppure Om pelòs tra i Ladini delle Dolomiti, Omeon del Bosch a Bormio.

    Secondo Centini si tratta di una figura di origine celtica, presente in tutti i versanti della grande catena, che simboleggia la religiosità precristiana del mondo dei valligiani, e il loro rapporto privilegiato con le forze primordiali della natura.

    Intorno alla casa dell’Homo Selvadego, altre costruzioni conservano degli eleganti portali di pietra. Sacco, a pochi chilometri da Morbegno, può essere raggiunta anche a piedi lungo un piacevole sentiero segnato. Sul percorso si toccano le case di Campione, patria della Bona Lombarda, una pastorella fatta rapire nel 1432 dal capitano di ventura Brunoro da Parma, che si trasformò in una famosa combattente al soldo della Repubblica di Venezia. Oltre allo Yeti, la valle del Bitto ha anche la sua Giovanna d’Arco.

    3.

    GORILLA, UN CUGINO DA SALVARE

    Nel cuore dell’Africa si nasconde uno straordinario fratello (o cugino) dell’uomo. Perfettamente adattato alle impenetrabili foreste dei vulcani Virunga, il gorilla di montagna, Gorilla beringei beringei per gli zoologi, è stato scoperto solo nel 1902, e sopravvive in poche centinaia di esemplari ripartiti tra l’Uganda, il Ruanda e la Repubblica democratica del Congo, l’ex Zaire. Tre Paesi periodicamente squassati da guerre civili e ribellioni, dove la tutela della natura passa spesso in secondo piano.

    Gran parte delle nostre conoscenze sul gorilla, insieme alle idee su come tutelarlo, si devono a due zoologi americani. Il primo di loro, George Schaller, studia questo animale tra il 1959 e il 1962, abitua alcune famiglie di gorilla alla vicinanza dell’uomo, lancia un grido di allarme contro il bracconaggio ai danni della specie.

    Dian Fossey, impersonata da Sigourney Weaver nel film Gorilla nella nebbia, segue le orme di Schaller nel 1967. Inizia a lavorare in Congo, viene cacciata da una guerra civile, poi si trasferisce in Ruanda e fa base per tredici anni a Karisoke, un villaggio sulla sella tra i vulcani Karisimbi e Mikeno. Qui, nel dicembre del 1985, viene assassinata in circostanze misteriose.

    Al contrario di altre scimmie africane, il gorilla di montagna non viene cacciato per fame. In passato i cuccioli venivano catturati per essere venduti a collezionisti privati o a zoo, e gli adulti che si opponevano al rapimento venivano uccisi. Alcuni esemplari, anche oggi, vengono uccisi dalle trappole sistemate per catturare altri animali. Negli anni dell’omicidio di Dian Fossey, molti scimmioni sono stati uccisi per sfregio da abitanti dei villaggi che non volevano ranger tra i piedi.

    Oggi, a insidiare il gorilla di montagna è prima di tutto il taglio dei boschi. Nonostante l’aspetto feroce dei maschi adulti, i silverback (schiena d’argento) che superano i due quintali di peso, il bestione è vegetariano e pacifico. I maschi adulti consumano una quarantina di chili di foglie, liane, bacche e germogli di bambù ogni giorno, le femmine la metà. Per sopravvivere, una famiglia di gorilla ha bisogno di decine di chilometri quadrati.

    Il principale ostacolo alla sopravvivenza del gorilla, quindi, è il taglio della foresta da parte della popolazione locale che cerca nuovi terreni da coltivare. Al confine tra Uganda, Repubblica democratica del Congo e Ruanda, il problema è reso più serio dalle migliaia di rifugiati che cercano nuove terre su cui insediarsi.

    Fin dai tempi di George Schaller, il WWF e le altre agenzie che si occupano di conservazione hanno puntato a fare dei gorilla delle attrattive turistiche, abituando alcuni gruppi alle visite, e diffondendo i proventi del turismo nella popolazione. Messo in crisi dalle guerre civili del Ruanda (1990-1993) e del Congo (1998-2003), il meccanismo ha ripreso a funzionare da qualche anno. Oggi i parchi nazionali Virunga, Mgahinga e Bwindi segnalano che il numero dei gorilla sta aumentando. Ci auguriamo che sia una tendenza stabile. L’incontro i gorilla nel folto è una delle esperienze di natura più emozionanti del pianeta.

    4.

    I DINOSAURI DEL PELMO

    Il Pelmo, ciclopica montagna che si alza tra le valli del Boite e di Zoldo, è uno dei simboli delle Dolomiti venete. Gli escursionisti che percorrono i boschi ai suoi piedi avvistano spesso caprioli e cervi, gli alpinisti che salgono alla cima incontrano i camosci sulle ghiaie del Valòn e tra le torri della cresta sommitale. Nel cielo compare con frequenza l’aquila. Sono stati degli animali ben diversi, invece, a imprimere le loro tracce su un enorme macigno ai piedi delle pareti.

    È Vittorino Cazzetta, un appassionato di paleontologia e preistoria nato a Selva di Cadore (è sua la scoperta della tomba e dello scheletro dell’Uomo di Mondeval, l’equivalente veneto di Ötzi), a individuare nel 1985, sulla superficie del masso, un centinaio di impronte lasciate da tre dinosauri 220 milioni di anni fa, quando quella che poi si è trasformata in roccia era il fango di un acquitrino.

    Qualche giorno più tardi Paolo Mietto, paleontologo dell’Università di Padova, conferma la scoperta di Cazzetta. A lasciare le impronte sono stati cinque dinosauri. I due più grandi erano degli erbivori, gli altri tre dei predatori.

    Da qualche anno, sulle Dolomiti come sulle altre montagne calcaree italiane, paleontologi e naturalisti dilettanti scoprono un numero sempre maggiore di impronte di dinosauri. Nel 1988, è Luciano Chemini, un geometra di Rovereto, a individuare sulle rocce dei Lavini di Marco delle buche disposte in file regolari.

    Nei mesi che seguono, paleontologi di Trento, Udine e Padova completano l’esplorazione del sito, rilevando un migliaio di impronte lasciate da bestioni di diciotto specie diverse. Le più profonde, di forma ovale, sono state lasciate dai vulcanodonti, erbivori di qualche tonnellata di peso. Quelle a tre dita, più piccole, da predatori.

    Negli stessi anni, altre impronte di dinosauri vengono trovate anche a Lerici in Liguria, in Val di Non in Trentino, nella valle del Cellina sulle Dolomiti friulane, a Borgo Celano e a Mattinata sul Gargano. In quest’ultima località le impronte (magnifiche e di grandi dimensioni) vengono individuate sui blocchi del frangiflutti del molo da un paleontologo svizzero in vacanza, che si accinge a pescare. Qualche impronta viene trovata anche a pochi metri dal sentiero tra i rifugi Auronzo e Lavaredo, ai piedi delle Tre Cime, che nelle belle giornate d’estate viene percorso da migliaia di escursionisti ogni giorno.

    Il vero pellegrinaggio verso le impronte, però, ha per meta il macigno ai piedi del Pelmo, che si raggiunge per un faticoso ghiaione dal frequentato sentiero che collega Forcella Staulanza con il rifugio Venezia-De Luca. Chi non vuole o non può camminare ha a disposizione un calco a grandezza naturale del masso nel museo di Selva di Cadore.

    Qualcuno dei visitatori, viziato dalle immagini Jurassic Park, nel vedere le impronte ai piedi del Pelmo sbotta con un annoiato «tutto qui?». Altri si appassionano, leggono per saperne di più, quando tornano sui sentieri tengono gli occhi bene aperti. Sulle Dolomiti ci sono ancora molte tracce da scoprire.

    5.

    GLI STAMBECCHI DI RE VITTORIO EMANUELE II

    La storia del primo sovrano dell’Italia unita è legata a quella del Gran Paradiso, magnifico massiccio che si alza tra la Valle d’Aosta e il Piemonte. «Il re ama appassionatamente i cavalli, la caccia e gli esercizi fisici. Spesso, verso la fine dell’autunno, e persino durante l’inverno, parte con due aiutanti di campo per cacciare il camoscio in montagna», scrive intorno al 1860 Henry d’Ideville, diplomatico francese in servizio a Torino nel suo divertente Il re, il conte e la Rosina che getta uno sguardo irriverente agli anni (per noi sacri) dell’Unità d’Italia.

    Nelle corti e nei governi di tutta Europa, la passione del re di Sardegna per la caccia è una curiosità.

    A milioni di cittadini dell’Italia unita, l’immagine del re galantuomo con sigaro e fucile piace, e contribuisce al prestigio di casa Savoia. Ma sono le genti del Gran Paradiso a toccare con mano gli effetti dell’infatuazione reale per stambecchi e fucili. La caccia allo stambecco diventa prerogativa reale nel 1816. Cinque anni dopo, per merito dell’ispettore forestale Joseph Delapierre (in realtà Josef Zumstein, nel dialetto tedesco di Gressoney), vengono emanate le Regie Patenti che riservano la caccia allo stambecco ai sovrani. Vittorio Emanuele scopre il Gran Paradiso intorno al 1850, e se ne innamora subito. Il primo accampamento reale viene installato nel 1856 a Dondena, in Valle di Champorcher, poi il re sposta la sua base a Cogne e poi a Orvieille, tra i boschi della Valsavarenche. Va a caccia solo qualche settimana ogni anno. Ma intorno alle sue battute nasce un’industria.

    Il divieto di caccia viene fatto rispettare da un corpo di quaranta, cinquanta guardiacaccia. Per le battute reali vengono impiegati dai centocinquanta ai duecento battitori, ai quali si aggiungono cuochi e inservienti. Quando il re è lontano, i battitori costruiscono mulattiere, cinque case di caccia e appostamenti. Alla morte di Vittorio Emanuele, nel 1878, la rete delle strade reali raggiunge i 344 chilometri. In vari punti i tracciati superano i tremila metri di quota.

    E la Casa reale spende in molti altri modi: vitalizi per battitori caduti, linee telegrafiche, affitto di pascoli per garantire tranquillità alla selvaggina, restauri di chiese, sussidi per istituti e ospizi, regalìe varie. Si mormora anche di vitalizi per i figli illegittimi delle fanciulle che hanno ricevuto le attenzioni del re.

    Luigi Ferdinando Savin, scrittore di Cogne, racconta nel 1878 di come gli abitanti siano «affranti dal dolore per la morte dell’amatissimo sovrano». Morto Vittorio Emanuele II, suo figlio Umberto i compie qualche battuta, poi Vittorio Emanuele III si disfa delle costose riserve di caccia, che diventeranno negli anni successivi i primi Parchi nazionali italiani.

    In epoche più recenti, anche il mito del re cacciatore è stato ridimensionato. Vittorio Emanuele era pigro, rumoroso, non si faceva problemi ad abbattere femmine gravide e piccoli. Per evitare la concorrenza dei predatori, ordinò ai guardiacaccia di abbattere linci, gatti selvatici, gipeti e aquile.

    Pure, all’inizio dell’Ottocento, sul Gran Paradiso restavano meno di cento stambecchi, mentre altrove la specie era scomparsa. Le Regie Patenti, insieme alla carabina di re Vittorio, hanno salvato dall’estinzione uno dei più eleganti mammiferi delle Alpi e d’Europa.

    6.

    INTRUFOLARSI NELL'APPARTAMENTO DI UNO 007

    I manuali dedicati alla flora alpina la descrivono come un fiore alto tra i venti e i trenta centimetri, inconfondibile grazie alle foglie bianche lanceolate (i veri fiori sono più piccoli, e sono posti all’interno) e dalla superficie lanosa. A descriverla per la prima volta, insieme al genere Leontopòdion (piede di leone in greco) è stato nel 1817 il botanico inglese Robert Brown. Molti appassionati di montagna l’hanno incontrata nelle loro escursioni sulle Alpi, dove cresce anche oltre i tremila metri di quota. Chi ha nozioni di botanica sa che questa pianta, originaria dell’Asia centrale, è presente anche sull’Himalaya, sul Karakorum, nei Balcani, in Siberia e sulle montagne del Giappone.

    In farsi, la lingua dell’Iran, si chiama gol-e-yax, fiore di ghiaccio. Una specie più piccola, che non supera i cinque centimetri di altezza, cresce sull’Appennino.

    Prima a proteggerla, nel 1878, è stata la Svizzera. Oggi la sua raccolta è vietata quasi ovunque.

    Esemplari isolati e mazzetti, qua e là, vengono ancora venduti ai turisti. La stella alpina, però, è molto più di un fiore. Nell’intero arco montuoso, dalla Francia alla Slovenia, questo fiore che austriaci e tedeschi chiamano Edelweiss

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