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Alla scoperta dei luoghi segreti del Medioevo
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E-book425 pagine5 ore

Alla scoperta dei luoghi segreti del Medioevo

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Info su questo ebook

Ogni luogo ha una leggenda da raccontare

Borghi, castelli, abbazie e monasteri leggendari di un’epoca divisa fra luci e ombre

Castelli, borghi, chiese e palazzi: il Medioevo ha disseminato l’Italia di meraviglie artistiche e architettoniche, forse più del tanto celebrato Rinascimento. Ma lo ha fatto seguendo la geografia di un potere disomogeneo, parcellizzato e diffuso. Il risultato è che ogni lembo della penisola ha un palazzo di pregio e ogni borgo arroccato il suo inaccessibile maniero, mentre imponenti abbazie spuntano all’improvviso tra le campagne, dietro la curva di un sentiero appenninico battuto dai pellegrini, e chiese rupestri e piccole rocche sperdute si rivelano, a volte, splendidi scrigni
affrescati. Da Aosta alla Sicilia, dal Friuli alla Sardegna, ogni luogo ha una storia e spesso una leggenda da raccontare. Ed è ciò che in questo libro, ripercorrendo la penisola, i due autori hanno provato a fare. 

I luoghi più segreti e misteriosi di una delle epoche più affascinanti della storia europea

Alcuni tra i luoghi presenti nel libro:

VALLE D’AOSTA - Sant’Orso e il diavolo tra i capitelli del chiostro
PIEMONTE - L’abbazia di Lucedio e uno strano manoscritto anglosassone
VENETO - Venezia, dalla fondazione al mosaico dei dannati
LOMBARDIA - Chiese, castelli e monasteri del Seprio
TOSCANA - La Lunigiana, terra di santi, capitelli e idoli di pietra
LAZIO - La leggenda di Costantino e Silvestro, come dentro un film
PUGLIA - Castel del Monte, dal “mistero” alla luce del sole
SICILIA - Sperlinga, la fortezza nella roccia
SARDEGNA - Il castello di Burgos e la triste fine di Adelasia
Elena Percivaldi
Storica medievista, saggista e giornalista professionista, collabora con alcune delle principali riviste di alta divulgazione del settore storico: «Medioevo», «BBC History», «Storie di Guerre e Guerrieri», «Conoscere la Storia» e «Civiltà Romana». È direttore di «Storie & Archeostorie», il notiziario di storia, arte e archeologia curato da Perceval Archestoria, lo studio di ricerca e consulenza di cui è titolare. È autrice di numerosi libri tra cui La Navigazione di San Brandano, con cui ha vinto il Premio Italia Medievale 2009. Con la Newton Compton ha pubblicato La vita segreta del Medioevo e Gli antipapi. Storia e segreti.
Mario Galloni
Giornalista con la passione per la storia, ha scritto per il celebre quotidiano milanese «la Notte», occupandosi di cronaca nera e giudiziaria e sport. È stato caporedattore di testate nazionali e attualmente collabora con le riviste «BBC History», «Conoscere la Storia», «Storie di Guerre e Guerrieri», «Medioevo Misterioso» e «Civiltà Romana».
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2018
ISBN9788822725165
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    Anteprima del libro

    Alla scoperta dei luoghi segreti del Medioevo - Elena Percivaldi

    Premessa

    Castelli, borghi, chiese e palazzi: il Medioevo ha seminato l’Italia di meraviglie artistiche e architettoniche quanto, se non di più, del tanto celebrato Rinascimento. Ma lo ha fatto non sempre in maniera programmata, quanto piuttosto seguendo la geografia di un potere disomogeneo, parcellizzato e diffuso. Il risultato è che ogni lembo della Penisola ha un palazzo di pregio e ogni borgo arroccato il suo inaccessibile maniero, mentre imponenti abbazie spuntano all’improvviso tra le campagne, dietro la curva di un sentiero appenninico battuto dai pellegrini, e chiese rupestri e piccole rocche sperdute si rivelano, a volte, splendidi scrigni affrescati.

    Da Aosta alla Sicilia, dal Friuli alla Sardegna, ogni luogo ha una storia, e spesso una leggenda, da raccontare. In questo libro abbiamo provato a narrare quelli che, a nostro avviso, ci sembrano particolarmente interessanti e significativi. L’elenco in prima redazione, non lo nascondiamo, era lunghissimo, e via via, lavorando al testo, ci siamo accorti che se avessimo mantenuto inalterata la scaletta che avevamo deciso, il risultato finale sarebbe stato un volume enorme, superiore di gran lunga alle mille pagine. D’altra parte, condensare ogni luogo in poche battute pur di tenere tutto ci sembrava un peccato e uno spreco, perché non saremmo mai riusciti a renderne nemmeno lontanamente la complessità e il fascino. Dunque si imponeva una scelta, difficile e dolorosa. E come tutte le valutazioni soggettive, sicuramente discutibile.

    Tra tutti, abbiamo così deciso di privilegiare quei luoghi che conosciamo per esperienza diretta, o perché li abbiamo visitati più volte nel corso del tempo, o perché li abbiamo studiati, nei loro vari aspetti, in maniera particolarmente approfondita. Ma se l’Editore e i lettori vorranno, nulla vieterà, in futuro, di continuare il viaggio con quei castelli, borghi e abbazie che erano compresi nella prima lista e che stavolta, a malincuore, abbiamo dovuto accantonare, aggiungendone auspicabilmente altri ancora.

    Per non appesantire troppo il testo abbiamo scelto di limitare al minimo le note, inserendole solo quando strettamente indispensabili: il lettore troverà comunque, qualora desiderasse approfondire ulteriormente, un’ampia bibliografia ragionata in fondo al volume.

    Come ogni opera scritta a quattro mani, l’opera finale è il risultato di un cammino condiviso a ogni passo. È naturale e inevitabile, però, che ciascuno di noi abbia voluto trasporre nelle parti che ha scritto di suo pugno il proprio punto di vista, e che abbia quindi affrontato i capitoli su cui ha lavorato basandosi sulla sua sensibilità personale e le sue conoscenze. Ciò premesso, in linea di massima, a Mario Galloni, che è giornalista, si devono le narrazioni basate sulle vicende cronachistiche; mentre Elena Percivaldi, da medievista, ha ricostruito i contesti storici sulla base delle fonti documentarie e ha curato l’analisi artistica e simbolica dei monumenti e delle opere. Il tutto, però, è stato poi rivisto e condiviso insieme, e seguito nella cruciale fase di editing con grande cura e competenza da Giuseppe Staffa, cui va la nostra gratitudine.

    Così come insieme desideriamo ringraziare i tanti amici che ci hanno aiutato nelle ricerche, e che sarebbe qui impossibile nominare tutti. Ci sia però consentita una menzione speciale per i nostri figli Riccardo e Jacopo, con i quali abbiamo spesso condiviso i viaggi che ci hanno portato alla scoperta dei gioielli raccontati in queste pagine: nonostante la giovanissima età – ma si sa, i ragazzi sono dotati di un grande spirito di osservazione – qualche volta ci hanno sorpreso notando particolari che ci erano sfuggiti e ci hanno suggerito interessanti spunti di riflessione. Anche per questo motivo, il libro che qui presentiamo è dedicato a loro.

    elena percivaldi e mario galloni

    luglio 2018

    Sant’Orso e il diavolo tra i capitelli del chiostro

    valle d’aosta

    Ad Aosta c’è un grosso tiglio che da quasi cinquecento anni domina un luogo oggi centrale, ma un tempo situato poco al di fuori delle mura cittadine: piazzetta Sant’Orso. L’antico albero risale, a quanto sembra, alla prima metà del Cinquecento (lo si vede in un dipinto del 1514), quando prese il posto di un vecchio olmo abbattuto da una raffica di vento. La leggenda, che naturalmente non si cura delle discrepanze cronologiche, lo vuole invece piantato da sant’Orso, che pur non essendo patrono di Aosta, è sicuramente il santo più celebre, dentro e fuori i confini regionali; non foss’altro che per la fiera artigianale a lui dedicata – la Foire de Saint-Ours – che da secoli anima ogni fine gennaio il centro cittadino.

    Sulla piazza sorge anche il complesso intitolato a questo santo vissuto nel vi secolo: la Collegiata, l’attiguo Priorato e l’antistante, e oggi sconsacrata, chiesetta di San Lorenzo. Insieme alla cattedrale, si tratta dell’insieme di edifici religiosi più importante della Valle d’Aosta perché conserva almeno due gioielli risalenti all’età romanica: un rarissimo, sebbene frammentario, ciclo di affreschi e la complessa serie di capitelli del suo suggestivo chiostro, densi di significati simbolici. Pur essendo un luogo ben noto agli aostani, è poco conosciuto al di fuori dei confini regionali e per questo, oltre che per il suo indubbio fascino a tratti enigmatico, ci è parso doveroso raccontarlo.

    Alle radici della cristianità

    Il complesso di Sant’Orso (intitolato anche a san Pietro) in origine sorgeva al di fuori di Augusta Pretoria, la città fondata nel 25 a.C. da Augusto dopo aver sconfitto la tribù celtica dei Salassi. Accanto passava la strada romana che proveniva da Eporedia (Ivrea) e poi, entrando in Augusta dalla monumentale porta eretta dal suo conquistatore, si trasformava nel decumano massimo. All’epoca c’era una necropoli, con molta probabilità costruita su un precedente sito funerario protostorico collegato ai Salassi. E proprio perché si trattava di un luogo sacro, ancorché legato ai pagani (o forse proprio per quello), quando nel v secolo iniziò a diffondersi il cristianesimo, fu scelto per ospitare due chiese diverse, poste l’una di fronte all’altra: le future Sant’Orso e San Lorenzo. Per lungo tempo, fino al rovinoso incendio che nell’viii secolo la distrusse totalmente, la basilica più importante rimase la seconda: ampia e sontuosa, San Lorenzo presentava una pianta cruciforme simile alle prestigiose basiliche volute a Milano da Ambrogio, la Basilica Apostolorum e San Simpliciano. Inoltre, ricevuta la denominazione di Concilium Sanctorum, vi trovarono sepoltura alcuni dei primi vescovi della diocesi aostana (le lapidi sono ancora oggi visibili su uno dei muri): Grato (il patrono di Aosta), Agnello († 528) e Gallo († 546). L’altra basilica, eretta sul lato opposto, era invece ad aula unica e con una sola abside, anche se via via anch’essa fu ingrandita e dotata di un porticato destinato ad accogliere sepolture privilegiate. Secondo le testimonianze agiografiche, fu qui che Orso prestò la sua opera come presbitero e poi, dopo la sua morte forse nel 529, fu sepolto.

    Orso, un santo di confine

    Ma chi era Orso e perché è così importante per Aosta? Le fonti sulla sua vita sono scarse, contraddittorie e ricche di spunti leggendari che derivano dalla tradizione orale. Tra le principali si annovera l’anonima Vita Beati Ursi, pervenuta in due redazioni: una più antica e breve (viii secolo-inizi ix) e la seconda più ampia ed elaborata (seconda metà del xiii secolo). Se ne desume che Orso fosse un presbitero vissuto ad Aosta fra il v e il vi secolo e che avesse il compito di custodire e celebrare nella chiesa di San Pietro (la futura Collegiata, dunque), all’epoca, come detto, fuori dal centro storico cittadino. Le Vite lo descrivono come un uomo semplice, pacifico e altruista che alla preghiera affiancava le opere di carità, l’assistenza ai malati, ai poveri, alle vedove e agli orfani. Viveva grazie al suo piccolo orto, i cui prodotti suddivideva in tre parti tra sé, gli indigenti e gli uccellini, che grati gli si posavano sulla testa e sulle spalle (e così lo rappresenta l’iconografia tradizionale). Altre vicende di sant’Orso sono raccolte nella Chronique curieuse scritta nel 1549 dal canonico Jean-Ludovic Vaudan e nella Vie de saint Ours di Nicolas-Joconde Arnod pubblicata a Chambéry nel 1668. Al Vaudan risale la leggenda di una sua presunta origine irlandese (non documentata e probabilmente invenzione dello stesso erudito): particolare che però ha permesso di suggerire un’interpretazione sincretistica della sua figura con riferimento al mondo pagano e al sostrato celtico. Tra le leggende più diffuse, c’è quella che vede il santo prevedere la truce fine del malvagio vescovo Plocéan, reo di aver torturato a morte un suo servo versandogli sulla testa della pece bollente: il prelato morì strangolato nel suo letto da due diavoli. Un’altra leggenda sostiene che Orso, per far fronte alla siccità, fece scaturire, colpendo una roccia col suo bastone, una sorgente a Busséyaz. L’anno della sua morte è incerto: forse il 529, il primo febbraio, che poi divenne la sua festa. Le reliquie si trovano in una grande cassa d’argento sbalzato, fatta eseguire nel 1359: oggi sono conservate sull’altare maggiore e venerate da migliaia di fedeli ogni anno.

    Plocéan e il diavolo

    Come avvenne un po’ ovunque in Europa a ridosso dell’anno Mille, il fervore edilizio che portò il continente, secondo l’ormai celebre definizione del cronista Rodolfo il Glabro, a rivestirsi di un bianco manto di cattedrali, regalò alla nuova chiesa, ora intitolata a sant’Orso, un ulteriore ampliamento dopo la torre campanaria aggiunta nel 989. L’artefice dei lavori fu il vescovo Anselmo (994-1025), che non va confuso con l’omonimo teologo aostano vissuto qualche decennio più tardi. Poco dopo fu edificato anche il convento maschile con un primo chiostro, costruito nel 1132 come dice l’iscrizione visibile su un capitello che testimonia l’introduzione nel convento della regola agostiniana. In effetti, l’adozione della regola rese necessaria la ridefinizione dell’intero spazio per la meditazione e la preghiera; quindi i capitelli, che raffigurano episodi biblici e le storie di Orso, furono aggiunti proprio per stimolare le riflessioni dei religiosi. E costituiscono il gioiello della Collegiata. Scolpiti nel marmo di Carrara, erano in origine 52; all’inizio dell’Ottocento alcuni furono rimossi: quattro vennero recuperati e portati al Museo Civico di Torino, dove si trovano tuttora, gli altri purtroppo sono andati dispersi. Quelli superstiti sono in alcuni casi misteriosi e inquietanti, con il loro vasto apparato di animali fantastici che si richiamano direttamente ai bestiari medievali.

    Una loro originale caratteristica è lo strano aspetto scuro: in epoca imprecisata ma antica, infatti, il marmo venne rivestito di un composto colloso trasparente misto a cenere, forse per conservarli dalle intemperie; col tempo, ossidandosi, li avrebbe anneriti. In origine, però, i capitelli erano colorati con pigmenti rossi così come le colonne che li sorreggono, semplici e binate ma con forme diverse a spezzare la scansione monotona degli spazi.

    La vivacità e la ricchezza di particolari delle raffigurazioni è davvero unica. Il capitello più stupefacente è, di certo, il numero 32 con le Storie di sant’Orso. Il santo è rappresentato mentre dona gli zoccoli (i sabot) ai poveri, ma anche mentre compie una serie di miracoli a lui attribuiti dalla tradizione: fa infatti scaturire la sorgente dalla roccia e, soprattutto, difende il servo dalle angherie del cattivo vescovo Plocéan; se si guarda bene, si vede quest’ultimo mentre, nel suo letto, viene strangolato dai due diavoli.

    Questo capitello demoniaco, qui collocato per essere edificante (ma probabilmente impauriva i monaci, e parecchio!), non è l’unico aspetto intrigante della Collegiata. Davanti all’altare c’è un grande mosaico pavimentale di forma quadrata emerso durante la campagna di scavo del 1999 nel coro: databile alla metà del xii secolo, rappresenta Sansone che uccide il leone, probabile prefigurazione di Cristo che sconfigge il maligno. Fin qui nulla di strano, ma delle due scritte presenti, la più interna compone l’enigmatica frase rotas opera tenet arepo sator: si tratta di un palindromo, leggibile cioè in entrambi i sensi, che compare in molte altre iscrizioni antiche e medievali diffuse in varie parti d’Europa. A onta delle diverse interpretazioni (alcune delle quali decisamente fantasiose), il vero significato del Quadrato del Sator resta ancora oscuro.

    Infine, se ci si avvicina all’altare dove un tempo erano deposte le reliquie, si noterà un breve e stretto cunicolo: è il musset, che i fedeli percorrono da sempre carponi perché leggenda vuole che, così facendo, il santo li guarirà dai reumatismi e dal mal di schiena. Nel dubbio, tentar non nuoce...

    Il coro di Challant

    Le sorprese in Collegiata non sono ancora finite. L’ultimo gioiello lo dobbiamo a Giorgio di Challant, priore dal 1469 al 1509, che volendo riadattare il complesso ai dettami tardogotici allora in voga, aggiunse anche un magnifico coro ligneo intagliato, destinato ad accogliere i canonici durante le funzioni. Si tratta di un capolavoro di ebanisteria ricco di favolistiche rappresentazioni in cui si alternano due diversi registri di lettura, uno più formale e uno decisamente più giocoso: nella parte alta, infatti, campeggiano le austere figure di santi e di angeli, mentre al di sotto dei sedili, in corrispondenza della parte bassa degli stalli e dei braccioli, troviamo il vasto e pittoresco mondo popolato da belve, mostri e figurine grottesche ben noto ai già citati bestiari medievali. Sul lato di uno degli stalli si vede un uomo impegnato a cacciare un cinghiale: osservandolo bene, si vedrà che la bestia assomiglia in maniera sorprendente a certi analoghi bronzetti risalenti all’Età del Ferro, scolpiti dai celti per rappresentare uno dei loro animali totemici. Altri sono invece decorati con gatti che giocherellano con topi; uomini che frugano nelle bisacce alla ricerca di chissà cosa; persino una specie di dromedario. Come mai queste irriverenti e strambe raffigurazioni? Forse gli anonimi intagliatori vollero arricchire in maniera giocosa e ironica alcune parti del coro, le cosiddette misericordie, che permettevano ai canonici di appoggiarsi rendendo più confortevoli i momenti di preghiera che prevedevano invece l’obbligo rituale di mantenersi in posizione eretta.

    Una bibbia dei poveri oggi occultata

    Infine, un’ultima chicca nascosta. Durante il suo priorato, Anselmo fece realizzare alcuni affreschi che rappresentano, insieme a quelli di poco posteriori realizzati dalle stesse maestranze in cattedrale, il documento pittorico più antico risalente al fulgido periodo ottoniano. Il ciclo è visibile solo su richiesta grazie a un’apposita passerella nel sottotetto (vi si accede attraverso una scala a chiocciola), ma ne vale la pena. Solo poche scene si sono conservate: lungo la parete nord, alcuni frammenti di un Giudizio Universale e le Nozze di Cana; nella parete sud, le Storie degli Apostoli (sant’Andrea a Patrasso, san Giovanni Evangelista a Efeso, san Giacomo Maggiore condannato a morte a Gerusalemme) e due miracoli di Gesù sul lago di Genezareth; la parete ovest, in controfacciata, propone invece due scene di martirio: una di fustigazione (forse di sant’Erasmo) e una in cui un aguzzino conficca dei chiodi nella pianta del piede di un santo non identificabile. Al di sopra scorre un fregio a greca interrotto da riquadri con figure di uccelli, vasi, corone e un pesce. La rappresentazione appare semplificata, le figure hanno volti dai lineamenti stilizzati e gesti ripetitivi; i contorni sono spessi e scuri, come disegnati a pennarello, e con colori vivaci. E questo per una ragione ben precisa: le scene servivano a rendere comprensibili gli episodi delle Sacre Scritture e delle vite dei santi alla popolazione illetterata. Essendo collocati in alto, per essere letti dal basso dovevano avere contorni marcati e colori accesi. Come i disegni dei bambini.

    I castelli dei Challant e Bianca Maria, la bella

    valle d’aosta

    Armi e armature sono appese alla rastrelliera dietro le guardie che, sedute a tavola, giocano a carte in compagnia di alcune prostitute; nella sua bottega il sarto misura e taglia pezze di tessuto; il pane viene infornato e il beccaio, l’antico macellaio, gira lo spiedo da cui un gatto dispettoso è intento a rubare i bocconi; il salumiere espone formaggi dalla tipica forma della fontina, la più antica raffigurazione del tradizionale prodotto valdostano. Sono le scene di vita quotidiana medievale fissate nelle lunette del porticato sul lato est del cortile del castello di Issogne, in Valle d’Aosta, un raro esempio di pittura alpina dell’epoca.

    Il secolo d’oro

    L’opera risale al periodo di massimo splendore del castello quando, sul finire del Quattrocento, Luigi di Challant, erede del casato che ha legato indissolubilmente il suo nome alla regione, e il cugino, il priore Giorgio di Challant-Varey, completarono i lavori di trasformazione dell’antica residenza vescovile – già citata in una bolla di papa Eugenio iii del 1151 – in elegante dimora sullo stile del gotico cortese. Sorse così un edificio in forte contrasto estetico con le linee severe del castello di Verrès, fortezza militare costruita da Ibleto di Challant nel xiv secolo su un promontorio roccioso sull’altra sponda della Dora Baltea.

    Il Quattrocento fu un secolo d’oro per Issogne. Al castello fecero tappa ospiti illustri: l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo durante un suo viaggio di ritorno in Germania nel 1414 e il re Carlo viii di Francia nel 1494. Nel secolo successivo, Renato di Challant fece della struttura medievale una raffinata corte rinascimentale, a onta del suo aspetto esterno di antica dimora fortificata, poco appariscente e priva di decorazioni. Gli affreschi, invece, abbondano all’interno, nel già citato porticato, ma anche sulle facciate disposte sul cortile, dove ammiccano gli stemmi dei diversi rami della famiglia; così come nella grande sala di rappresentanza al piano terreno, nella cappella e nell’oratorio, al primo piano, e in quello privato di Giorgio di Challant, al secondo, dove il committente è ritratto, inginocchiato, ai piedi della croce. Nel Seicento ebbe inizio il lungo declino del castello, culminato nell’Ottocento con la spoliazione di tutti gli arredi a seguito della morte dell’ultimo dei Challant.

    Per fortuna, sul finire del xix secolo il pittore torinese Vittorio Avondo rilevò la proprietà all’asta ed ebbe cura di restaurare il castello e recuperare sul mercato antiquario parte dei mobili dell’epoca. Ritornato all’originale splendore, l’antico maniero venne poi donato allo Stato nel 1907. Come in ogni castello che si rispetti, anche a Issogne circola un presunto fantasma: ha le sembianze di una splendida donna e, nottetempo, si affaccia a uno dei loggiati interni. Si tratta dello spirito senza pace di Bianca Maria Gaspardone, prima moglie di Renato di Challant, bella e irrequieta giovane che fuggì da Issogne a causa delle perduranti assenze dello sposo e finì giustiziata a Milano nel 1526 con l’accusa di aver ordito l’omicidio del suo amante, Ardizzino Valperga.

    Il fantasma della contessa

    Figlia di un facoltoso mercante di Casale Monferrato, Bianca Maria andò sposa giovanissima al milanese Ermes Visconti, di vent’anni più vecchio di lei. Viziato dall’ossessiva gelosia dello sposo, peraltro non del tutto immotivata, dal matrimonio non nacquero figli e l’unione si concluse tragicamente dopo sei anni con la morte del Visconti, decapitato perché ritenuto complice di una cospirazione. Vedova e ricchissima, la ventenne Bianca Maria ritornò a Casale dove presto si dispiegò una fila di pretendenti alla sua mano. Rimasti soli in lizza Sigismondo Gonzaga e Renato di Challant, la corsa divenne un vero e proprio affare di Stato con tanto di sponsor politici a sostenere i duellanti: la spuntò alla fine lo Challant, spalleggiato da Carlo ii di Savoia. Divenuta contessa e preso possesso del castello di Issogne, alla giovane sposa l’esistenza appartata della valle cominciò da subito a stare stretta e quando il marito, nel settembre del 1523, partì per la guerra sotto le insegne di Francesco i di Francia, ne approfittò per lasciare il suo eremo alpino e tornare a Pavia a casa di un parente. Fu l’inizio della sua fine. Nella città lombarda la contessa si concesse più di una relazione sentimentale, tutte di breve durata, e conobbe il rampollo dei Valperga. Presto quest’ultimo venne sostituito nel cuore di Bianca Maria da un nobile napoletano, Roberto Sanseverino, conte di Caiazzo, e poi ancora dal giovane spagnolo Pietro Cardona. Mentre la contessa saltava di fiore in fiore, il Valperga, cornuto e mazziato, si tolse lo sfizio di mettere a parte la Milano che contava della sua condotta licenziosa. La giovane decise allora di vendicarsi e chiese prima al conte di Caiazzo, che si rifiutò, e poi al più giovane e impulsivo Cardona di tappare la bocca all’ex amante maldicente. Cardona accettò il ruolo del vendicatore e in una notte d’autunno del 1526 tese l’agguato mortale dove morirono sia Ardizzino che il fratello Carlo Valperga. Scoperti gli omicidi, fu il conte di Caiazzo a denunciare i due amanti che finirono nelle grinfie della giustizia, assieme a due ancelle della giovane signora, una delle quali orrendamente torturata perché confermasse l’accusa mossa dalle autorità alla sua padrona. Tuttavia i due avrebbero potuto cavarsela se la stessa Bianca Maria, rosa dal rimorso o in un momento di debolezza, non avesse vergato di suo pugno la lettera-confessione che portò lei e il Cardona sotto la lama del boia nel rivellino del castello milanese di Porta Giovia, poi divenuto il Castello Sforzesco, teatro dell’esecuzione anche del suo primo marito. Della contessa nel corso degli anni si parlò e si scrisse molto, e il grande pittore rinascimentale Bernardino Luini forse la immortalò, però sotto le spoglie di santa Caterina, in uno degli splendidi affreschi della chiesa milanese di San Maurizio al Monastero Maggiore.

    Una foresta di torri

    Se il sobrio e discreto castello di Issogne era apparso a Bianca Maria, in assenza del marito, una prigione dorata, quello prospiciente di Verrès, con la sua mole così massiccia e severa, non sarebbe certo servito a dissuaderla dai propositi di fuga.

    Non sappiamo invece se ebbe la fortuna di godere della fiabesca atmosfera del castello di Fénis, a metà strada tra i comuni di Aosta e di Saint-Vincent anch’esso appartenuto a un ramo dei Challant. L’edificio esibisce un trionfo di torri, merlature e cammini di ronda, un impatto fortemente scenografico che ne fa una delle più note e visitate fortezze italiane. è una favola incastonata nella roccia e, nonostante la doppia cinta muraria, facilmente accessibile; un castello atipico, di pianura, appoggiato a un dolce pendio e non assiso su qualche sperone o difeso da ostacoli naturali. La sua funzione, infatti, era quella di prestigiosa sede di rappresentanza dei maggiori esponenti della famiglia Challant, che lo dotarono dell’imponente apparato difensivo, nonché di eleganti decorazioni pittoriche, simboli di potenza e di prestigio.

    Il primitivo fortilizio fu trasformato nella raffinata dimora signorile che ancora oggi ammiriamo dai lavori promossi, a cavallo tra Tre e Quattrocento, prima da Aimone e poi da Bonifacio i di Challant, al quale si deve in particolare il piccolo cortile quadrangolare che appare come il centro del corpo abitativo e le cui pareti sono interamente affrescate. Spicca la rappresentazione di san Giorgio che uccide il drago, realizzata sopra un ampio scalone semicircolare, chiara allegoria della sconfitta della belva, simbolo del paganesimo: solo dopo averlo eliminato si può avere accesso alla lunga teoria di saggi che illustra le pareti di una doppia balconata, e leggendo le loro pergamene con proverbi e massime, acquisire la sapienza necessaria per vivere la nostra vita al meglio.

    Alessandria de palea, Gagliaudo e una vacca eroica

    piemonte

    Proprio sul confine tra il Pavese e il Monferrato, nella piana che sorge tra le dolci colline dove la Bormida si getta nel Tanaro, sorgeva intorno al Mille una palea, ossia una piccola palude, come la chiamavano i documenti dell’epoca. A poca distanza, l’abitato di Rovereto era un punto di sosta prezioso sulla via che conduceva a Tortona, situato per giunta in posizione ideale per tenere sotto controllo il territorio circostante. Su questo lembo di terra i comuni della Lega Lombarda, in perenne lotta contro l’imperatore Federico i di Hohenstaufen detto il Barbarossa, il 20 aprile 1168 decisero di fondare una nuova città. L’area apparteneva ai marchesi del Bosco, in quegli anni nemici degli Aleramici, signori del Monferrato e fedeli alleati dello stesso Barbarossa: cederlo per loro non sarebbe stato un problema. In pochi mesi, grazie agli sforzi congiunti di milanesi, piacentini e cremonesi, sorsero dal nulla le poderose mura e fu scavato il fossato. L’attenzione fu concentrata al massimo sulle opere di difesa, mentre le abitazioni dei tanti che dalle vicine Marengo, Bergoglio, Gamondio, Solero, Villa del Foro, Oviglio e Quargnento erano accorsi a popolarla furono costruite in fretta con legno e fango, e con i tetti di paglia.

    Questo dettaglio fece cadere in errore chi, nell’interpretare il nome Alexandria de palea – ossia, come si è anticipato poc’anzi, Alessandria della palude –, pensò che fosse un dispregiativo coniato dagli avversari per sbeffeggiarne la precarietà. Invece, di che pasta il nuovo centro fosse, lo si sarebbe visto nel giro di un batter d’occhi.

    Sfida titanica

    La città, che prese ufficialmente vita il 3 maggio 1168, crebbe intorno alle reliquie di Baudolino, un eremita vissuto nella citata Villa del Foro nell’viii secolo che, si diceva, avesse il dono della profezia: predisse infatti ai messi del re longobardo Liutprando, venuti a chiamarlo perché prestasse soccorso al nipote del sovrano, Anfuso, ferito durante una battuta di caccia, che il giovane sarebbe spirato, cosa che nel frattempo avvenne. La città ebbe inoltre i suoi consoli e fu organizzata, al pari delle altre, in libero comune, aderendo naturalmente alla Lega e anzi diventandone il simbolo più potente nell’orgoglio e nel riscatto. Civitas Nova, come nei primi tempi fu chiamata, cambiò presto nome in Alexandria, Alessandria, in onore del pontefice Alessandro iii, al secolo Rolando Bandinelli, acerrimo nemico dell’imperatore. Il gonfalone scelto per la città fu la croce rossa in campo bianco: il salvifico vessillo della Vera Croce, simbolo dei pellegrini e dei crociati, avrebbe così sventolato non solo a Milano ma anche qui, contro chi aveva osato sfidare le libertà comunali ma anche, eleggendo un antipapa, l’autorità di Santa Romana Chiesa.

    Nel mese di maggio del 1174 il Barbarossa decise l’ennesima spedizione militare in Italia (era la quinta volta che varcava le Alpi) con pochi rinforzi: aveva con sé solo ottomila soldati, oltre ai fedelissimi Corrado, suo fratello, il re Ladislao di Boemia, Ottone di Wittelsbach e gli arcivescovi di Colonia e Treviri. Essendo il Brennero e gli altri passi alpini tutti occupati dalle milizie della Lega, l’imperatore dovette incamminarsi lungo l’unica strada libera, quella che dalla Borgogna portava a sud attraverso le chiuse di Susa; la stessa che lo aveva visto ritirarsi precipitosamente sei anni prima, l’ultima volta che era stato in Italia, incalzato ancora una volta dai Comuni. Transitarvi gli avrebbe fornito l’occasione per vendicarsi, cosa che fece con grande piacere: rasa al suolo Susa, si diresse verso Torino e la occupò, infine assediò Asti che cedette dopo una settimana. Incoraggiato da questi folgoranti successi, il Barbarossa proseguì la marcia fino a quando, diretto a Mezzogiorno, non si trovò all’improvviso di fronte alle mura di una fortezza di cui nessuno sapeva nulla e che non compariva

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