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Il cacciatore di libri proibiti
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E-book439 pagine5 ore

Il cacciatore di libri proibiti

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Info su questo ebook

Ai primi posti delle classifiche italiane

Un grande thriller storico
Dall'autore del bestseller Il collezionista di quadri perduti

Roma, agosto 1559.
Paolo IV, il papa che ha emanato il primo Indice dei libri proibiti, esala l’ultimo respiro. Il popolo della Città Eterna insorge, abbandonandosi a devastazioni e profanazioni di una brutalità mai vista prima. Ma fatti ben più gravi e inauditi accadono nelle vie della città nelle stesse ore, eventi che hanno del miracoloso e di cui nessuno deve venire a conoscenza. Il cardinale camerlengo vuole che a condurre le indagini su quegli strani episodi sia Raphael Dardo, un agente segreto del duca Cosimo I de’ Medici, che era rinchiuso nelle prigioni di Castel Sant’Angelo per il possesso di una Bibbia giudicata maledetta. Se vuole riacquistare la libertà e avere salva la vita, Raphael dovrà risolvere il caso prima che abbia inizio il conclave che eleggerà il nuovo pontefice. Con l’aiuto di un geniale alchimista, di due bellissime e astute cortigiane, e persino del grande maestro Michelangelo, Raphael inizia una ricerca che lo condurrà sulle tracce di un libro. Il più antico, raro, misterioso e pericoloso che sia mai stato scritto. I pochi che sono a conoscenza della sua esistenza lo chiamano Il Codice dei miracoli, e devono custodirne i segreti a tutti i costi…

L’autore del bestseller Il collezionista di quadri perduti
Ai primi posti delle classifiche italiane

Hanno scritto di Fabio Delizzos:

«La miglior new entry è il giallo storico di Fabio Delizzos, con protagonista il mercante d’arte di Cosimo de’ Medici.»
la Lettura - Corriere della Sera

«Alchimia, arte e indagini. Il Rinascimento è un thriller. Il romanzo è picaresco, diverte ma è al tempo stesso efficace e preciso.»
Il Giornale

«Un’opera sorprendente.»
Il Tempo

«Delizzos attinge al filone narrativo esoterico e trova il modo per narrare con uno stile di rara eleganza.»
La Gazzetta del Mezzogiorno
Fabio Delizzos
Nato a Torino nel 1969, è cresciuto in Sardegna e vive a Roma. Laureato in Filosofia, creativo pubblicitario, per la Newton Compton ha pubblicato con grande successo e consenso di critica i romanzi La setta degli alchimisti; La cattedrale dell’Anticristo; La loggia nera dei veggenti; La stanza segreta del papa; Il libro segreto del Graal; Il collezionista di quadri perduti e Il cacciatore di libri proibiti. Ha partecipato anche alle antologie di racconti Giallo Natale; Delitti di Capodanno; Sette delitti sotto la neve. Sempre ai vertici delle classifiche di vendita, i suoi romanzi sono stati tradotti in diversi Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2017
ISBN9788822712691
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    Anteprima del libro

    Il cacciatore di libri proibiti - Fabio Delizzos

    ROMA,

    SABATO 5 AGOSTO 1559

    Capitolo 1

    Qualcosa di maligno stava arrivando. Se ne avvertiva il gelo in quella notte torrida.

    Nella cavità oscura della chiesa il fumo d’incenso si aggirava tra i pilastri simile a una nebbia fosca sulla palude, accarezzava le statue dei santi in modo lascivo, incipriava la Vergine con malizia, e quasi, nel profondo silenzio, lo si poteva udire strisciare sul crocifisso come una serpe dell’inferno.

    Un candelabro posto al centro dell’altare strappava dal buio le facce di sette anziani monaci; volti severi, segnati dal tempo, affioravano come da un mare ignoto e a tratti ne venivano inghiottiti.

    E poi arrivò.

    Scalzo, brache al polpaccio e un camicione lungo di leggerissimo bisso nero, Angelo si fermò all’inizio della navata centrale e spalancò le braccia, come a voler risucchiare nel proprio gorgo il mondo intero.

    Lo accompagnavano due uomini, anch’essi vestiti di bisso nero e brillante. Ma loro incedevano umilmente, con le mani giunte sul grembo e il capo chino.

    I capelli lunghi dei tre danzavano con grazia davanti alle labbra, soffiati via da parole antiche e solenni, e il fumo d’incenso vorticò attorno alle loro figure quando cominciarono a incedere fra i ceri ardenti.

    A metà della navata i due accompagnatori si inginocchiarono e dissero: «Eccoci».

    Quindi, uno dei monaci gli andò incontro e tagliò loro i capelli, prima con le forbici, poi col rasoio, e alla fine osservò attentamente le sommità delle teste, illuminandole con una candela. Al termine dell’esame annunciò: «Sono i messaggeri», e diede il permesso ad Angelo di proseguire fino all’altare.

    Angelo, così era sempre stato chiamato dal venerando padre che lo aveva cresciuto, il volto che non aveva mai avuto un’espressione di gioia, la bocca che non si era mai piegata in un sorriso, gli occhi grandi orlati di rosso, camminava ritto, fiero, con un unico movimento armonioso, e una leggerezza che sembrava nascondere un mistero, come se per qualche straordinario decreto divino il suo corpo robusto non fosse soggetto alle normali leggi di natura.

    I religiosi che lo avevano convocato e lo stavano aspettando con estrema inquietudine erano sette, uno per ogni arcangelo. Avevano facce cupe, adesso, rese ancor più tenebrose dall’avarizia di luce. I loro occhi mandavano messaggi d’angoscia.

    Il più anziano dei sette aveva il volto ossuto, chiuso fra nuvole di barba candida. Le mani gli tremavano mentre le protendeva verso Angelo. «La Confraternita ti dà il benvenuto».

    Lui chinò il capo e disse semplicemente: «Eccomi».

    Il monaco più anziano emise un sospiro sofferto e si rivolse agli altri: «Fratelli», disse, «ora mi accingo a rivelarvi il motivo per cui vi ho riunito al cospetto di nostro Signore». Indicò la Croce. «Purtroppo è accaduto. Segreti proibiti a quasi tutti gli uomini sono riemersi dall’oblio. Il Codice dei miracoli è sfuggito dalle mani della Chiesa e i nostri confratelli custodi non sono riusciti a recuperarlo».

    I monaci sobbalzarono scandalizzati, gli occhi sgranati, le mani sulla bocca.

    «Com’è possibile?»

    «Quando è accaduto?»

    «Dove?».

    Il primo custode estrasse un fazzoletto da sotto la veste e si tamponò gli angoli degli occhi.

    Tacque.

    Durante il lungo silenzio, si rivolse più volte all’immagine della Vergine per chiedere aiuto.

    Gli altri sei membri dell’assemblea cominciarono a confabulare, poi ad agitarsi sempre di più.

    Infine, dopo alcuni minuti pervasi dall’ansia, uno di loro trovò il coraggio di prendere la parola e lo esortò a dire tutto senza tergiversare: «In quale parte del mondo è riemerso?».

    Il custode più anziano faceva fatica ad articolare le parole, tanto era grande lo sforzo per trattenere le lacrime. «Roma», disse. «Qui».

    «Sei sicuro?», chiese un altro dando voce al turbamento comune.

    «Ebbene, io…». L’anziano guardò la Croce, il viso gli si rapprese in un’espressione di dolore. «Siamo chiamati al nostro dovere, per il giuramento che ci unisce. Dobbiamo ritrovare il Codice dei miracoli a tutti i costi». Volse gli occhi verso Angelo. «Ecco perché lui è qui».

    Ammutolirono tutti.

    Angelo li guardava, immobile, senza fretta, la luce dei suoi occhi che fissavano con insistenza era l’unico segno di vita apparente del suo corpo. Non era pazienza la sua, ma totale assenza di intenzioni, di desideri, di destinazioni. Non aspettava: era lì e basta.

    Frutto di una vita consacrata al mistero, di infinite privazioni e di sacrifici. Angelo era cresciuto separato dal mondo come un marinaio in un mare perpetuamente in tempesta, in cui non fa mai giorno e nessun faro si accende.

    Ogni singolo battito del suo cuore, fino a quel momento, era stato dedicato al male supremo che un giorno avrebbe dovuto compiere.

    Era la sua missione.

    Il vecchio custode sollevò una lastra d’oro sulla quale era impresso il simbolo di Cristo, il Chi Ro. La fece vedere e la poggiò sull’altare.

    «Qui», disse, lasciando agli altri sei il tempo di chinarsi per vederla da vicino, «sono contenute le istruzioni su cosa fare in caso di estremo pericolo». Si fermò e aggiunse: «Un pericolo come questo». Si rivolse al messaggero: «Vuoi avvicinarti, per favore?».

    Angelo fece il giro dell’altare, seguito dalle facce attonite degli altri monaci, e gli si fermò di fronte.

    Nessuno di loro aveva mai visto prima un messaggero di morte, uno di quegli indemoniati creati per fare il male al fine di compiere il bene.

    «Questo è per te». Il primo custode gli consegnò la placca d’oro.

    Angelo la prese e si allontanò. Tornò nella navata. Non riusciva a credere che fosse accaduto davvero. Nel tempo, molte domande si erano dissolte, evaporate nella sua anima arida come un deserto. Ma adesso le oscure parole che il venerando padre gli aveva sussurrato un attimo prima di esalare l’ultimo respiro diventavano chiare:

    Se leggerai nell’oro, saprai chi sei veramente. Prega, figlio mio, prega di non saperlo mai.

    Si sedette in un angolo luminoso.

    Piegò la lastra. La raddrizzò e la ripiegò fino a romperla nel centro. Separò le due metà scoprendo la sottile lamina di piombo che conteneva. Gettò via l’oro, come si fa con una buccia superflua. L’oro cadde echeggiando sul pavimento di pietra.

    Angelo, il messaggero, lesse incredulo il testo impresso sul foglio di piombo, mormorando parole vergini nel silenzio.

    Cominciava così:

    Angelo della morte, il tuo compito è servirmi.

    Il testo continuava con istruzioni per il messaggero risvegliato. Era in un linguaggio che nessun popolo della terra usava più da un tempo remoto, ma che lui era stato educato a scrivere e a leggere. Il perché era solo una delle tante domande che aveva imparato a non farsi e a dimenticare.

    Non si lasciò distrarre dai rumori che provenivano dall’altare: uno degli anziani monaci stava dando sfogo alla disperazione, qualcun altro lo consolava, o si era fatto prendere dall’ira.

    Lesse con attenzione, fino alle ultime istruzioni:

    Sopprimi chi sa, castiga chi ha visto, punisci chi ha ascoltato, mutila chi ha toccato, stermina chi è stato testimone. Che il tuo passaggio sia un monito.

    Con una mano d’acciaio, Angelo accartocciò il piombo e lo gettò per terra accanto all’oro.

    Poi, senza indugiare, uscì dalla chiesa.

    «Eccomi», disse.

    E si preparò a uccidere.

    VENERDÌ 18 AGOSTO

    Capitolo 2

    Piazza dei Miracoli, Rione Campo Marzio

    Il quarto.

    Quattro poveri uomini ridotti in condizioni pietose, con ferite e scempi che solo un demonio poteva aver causato.

    Fin dal primo cadavere, messer Giusto Leccacorvo, orgoglioso bargello del Governatore di Roma, non aveva mai smesso di temere, e di credere, che ci sarebbero stati di sicuro altri morti ammazzati in quel modo tremendo e osceno. Ecco perché anche quella sera era voluto passare nelle vicinanze della Porta del Popolo e dell’omonima piazza, e si era spinto fino ai gradini della ormai funesta chiesa di Santa Maria dei Miracoli, sui quali un servo di Satana, o magari il demonio in persona, aveva deposto già tre vittime nei giorni precedenti.

    E non erano state delle banali, ordinarie uccisioni.

    Neppure quella lo era.

    Tutt’altro.

    Messer Leccacorvo si tolse il cappello dalla testa, se lo posò sul cuore e stette per un po’ a fissare l’orrore attorcigliandosi i lunghi baffi.

    Attorno a lui, altri birri, una mezza dozzina di gendarmi giovani con l’aspetto di avanzi di galera. Tutti avevano le facce rivolte ai gradini della chiesa, e osservavano il morto con le bocche aperte e silenziose.

    Il bargello si avvicinò facendo segno ai suoi uomini di aspettare.

    Questa non ci voleva, pensò.

    Il giro di ronda notturno condotto dal capo delle guardie in persona era l’anello più prezioso sulle dita della Giustizia di Roma, e quella sera aveva una nuova pietra macabra, un altro brillante di sangue.

    La crudeltà del mostro si rivelava infinitamente più grande di quanto un comune essere umano, seppure non timorato di Dio, potesse anche soltanto immaginare.

    Il cadavere, un maschio in età matura, era stato abbandonato supino davanti al portale della chiesa, disteso in senso ortogonale ai gradini di marmo. Gli avevano lasciato indosso soltanto le brache, e una cintura di cuoio che gli stringeva il torace nudo, solcando la pelle livida.

    Chi lo aveva ucciso e portato lì aveva inoltre affisso un foglio di carta inchiodandoglielo sullo sterno, come talvolta si usava fare sui portali delle chiese.

    Roba da matti.

    Atrocità degne di un mostro.

    La torcia scoppiettante illuminò il volto del cadavere; risultava sconosciuto a Leccacorvo e, comunque, non facilmente riconoscibile, dato che all’uomo erano state tagliate le palpebre e cavati entrambi gli occhi.

    Il bargello si piegò in avanti per un conato improvviso, fece appena in tempo a voltarsi un po’ dall’altra parte, mentre lo stomaco gli si contraeva e dalla bocca gli usciva un getto di materia acida.

    I birri alle sue spalle ridacchiarono scambiandosi gomitate.

    Era la quarta volta che gli accadeva.

    Giusto Leccacorvo drizzò la schiena e li fulminò tutti con un’occhiata. «Fate silenzio!», disse senza alzare la voce. Si fregò la bocca con la manica della camicia e sputò per terra. «Due di voi».

    «Ordinate signore».

    «Andate a prendere il carretto, tornate qui, caricate questo poveraccio e portatelo nella casa di via della Corda».

    In due ubbidirono e sparirono nella notte facendo sferragliare le lame dritte e sottili delle spade che gli pendevano lungo i fianchi.

    Leccacorvo trasse un respiro profondo, si toccò lo stomaco, quindi prese coraggio e staccò il foglio arrotolato dal petto del morto.

    Era scritto.

    A mano.

    Un oggetto impenetrabile per chi come lui sapeva leggere a stento e solo con certi tipi di carattere.

    In questo, non ci sarebbe stato niente di male. Però il primo birro di Roma aveva mentito un tempo, sostenendo di non saper scrivere, ma di essere in grado di leggere con una discreta abilità; e le menzogne, si sa, vanno reiterate, se non si vuole essere scoperti e perdere la faccia.

    Una cosa, questa, che un bargello nominato dal papa in persona non poteva permettersi.

    Per lo meno non Giusto Leccacorvo.

    Per questo, da qualche tempo, si sforzava di applicarsi in estenuanti esercizi di lettura, al fine di rimediare. Tuttavia, per uno come lui, avanti con l’età, distratto dalle continue incombenze di un mestiere difficile che gli rubava anima e corpo, non era per niente facile far funzionare il cervello. E, dunque, i risultati tardavano ad arrivare e le sue poche conquiste restavano insoddisfacenti.

    Vergognosamente insoddisfacenti.

    «Cosa c’è scritto?», gli domandò uno degli uomini, dando probabilmente voce alla curiosità degli altri.

    O alla perfida presa in giro?

    Loro avevano capito?

    «C’è scritto che non sono cose che vi riguardano», gli rispose Leccacorvo.

    «Ma noi siamo i tutori dell’ordine pubblico», ribatté un altro.

    «Se vi interessa tanto, venite a leggervelo da soli. E fatelo a voce alta, se ne siete capaci».

    «Noi non sappiamo leggere, capo».

    «Be’, peggio per voi».

    Capitolo 3

    Appartamento pontificio, Vaticano

    Il cardinale camerlengo si avvicinò al capezzale, si chinò sull’uomo che aveva tanto odiato e, per la prima volta, lo chiamò con il suo nome di battesimo: «Johannes Petrus Carafa».

    Nessuna reazione.

    Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora attese qualche istante e riprovò. La sua voce vibrò nell’aria immobile di quella notte afosa, assillata dal ronzio delle zanzare. Ma l’uomo nel letto, vecchio, guance scavate, una lunga barba grigia, mani dalla pelle sottile congiunte sul grembo, non aprì gli occhi e non mosse le labbra.

    La visione di quel corpo rigido e impassibile generava agitazione tutt’intorno; le tante ombre di prelati, gettate dalla miriade di ceri accesi, fremevano.

    Il cardinale Alfonso Carafa, detto Napoli per via del suo titolo, viso angelico e barba castana lunga un pollice, si avvicinò lentamente al corpo del suo prozio portando sulle mani un cuscino di velluto nero. Vi affondava la base di un piccolo scrigno di legno borchiato d’oro. «Dio abbia pietà di te, zio», bisbigliò a capo chino, in un gesto di contrita solennità.

    Ma era uno dei pochi, forse l’unico dei presenti, a sentirsi il cuore spezzato. Il cardinale di Napoli non aveva ancora compiuto vent’anni e, diversamente dai suoi zii e dal prozio appena defunto, era sempre stato di animo nobile e gentile. Da bambino pregava per tutti, perfino per gli uccellini caduti dal nido, in primavera, che gli davano pena. E adesso era proprio così che si sentiva, come uno di quei poveri esserini volati via prima di aver sviluppato le ali: solo, abbandonato, smarrito. Lui aveva sempre rifuggito il male, ma adesso il male…

    Gli era piombato addosso e lo aveva avvolto in un abbraccio soffocante.

    Ora lui, suo padre, i fratelli di suo padre e l’intera famiglia Carafa erano sull’orlo della disgrazia, della dannazione e dell’infamia.

    Il cardinale camerlengo chiamò con tono cerimoniale, per la terza volta: «Johannes Petrus Carafa?». Non ricevendo risposta, prese il martelletto d’argento dallo scrigno portato da Alfonso Carafa e lo batté tre volte sulla fronte del defunto, come chi bussa a una porta pur sapendo che in casa non c’è nessuno.

    Uno.

    Due.

    Tre.

    Il numero delle persone divine e, per una certamente diabolica coincidenza, anche delle parole contenute nel nome.

    Johannes.

    Petrus.

    Carafa.

    La lunga notte era calata su quel corpo maledetto.

    Mentre sospirava addolorato e scuoteva la testa, il camerlengo Santa Fiora gioiva in segreto, per la morte di colui che aveva osato farlo arrestare e rinchiudere a Castel Sant’Angelo con l’accusa di cospirare in favore degli spagnoli.

    Tre settimane in prigione, alla stregua di un comune criminale.

    Si voltò verso la piccola folla di cardinali, rossi e fitti come una rete piena di scorfani. Cercò di incrociare lo sguardo di Carlo Carafa, il cardinal nepote. Quel debosciato era stato esiliato dal papa sette mesi prima, con un gesto falso e tardivo, che non aveva riparato alcun danno. E adesso era tornato in Vaticano per prendere parte alle esequie dello zio e al conclave che sarebbe seguito, con la speranza di salvare se stesso e la propria famiglia dalla catastrofe. Si era insediato nell’appartamento Borgia, illuso di essere nuovamente in sella al potere.

    Santa Fiora non lo scorse, si accontentò di immaginarlo sgomento, intento a deglutire il bolo acido della sventura, e giurò a se stesso che non gli avrebbe permesso di continuare a far danni nella Chiesa e nel mondo intero.

    Quando si scosse da quei pensieri, aveva tutti gli occhi puntati addosso. Alzò la mano e fece vedere il martelletto. Senza riuscire a nascondere l’ombra di un sogghigno, annunciò con voce solenne: «Vere Papa mortuus est».

    Il papa era morto.

    Per davvero.

    Mentre i cardinali rompevano il silenzio iniziava il periodo di Sede Vacante, scoccava il primo minuto dei nove giorni di lutto detti Novendiali, cui sarebbero seguite le esequie del pontefice e, a Dio piacendo, l’apertura del conclave nel quale lui sarebbe stato elettore.

    E piacendo anche al popolo romano, che stava già insorgendo in tumulti, dandosi a ogni sorta di crimini: per i giorni a venire si annunciavano disordini ancora più gravi.

    Quel papa e la sua famiglia non erano amati dalla gente, il mondo intero lo sapeva. E poi era agosto: non capitava tutti gli anni che la Curia restasse a Roma in estate, quando la città diventava soffocante e la poca aria che si riusciva a suggere dal cielo arido era foriera di pestilenze e malaria.

    Sì, ci sarebbero state delle rivolte così grandi da lasciare il segno nella storia.

    Il cardinale Sforza di Santa Fiora si strinse nel pugno la punta della lunga barba e rivolse un’occhiata alla finestra stellata. Aveva già provveduto a far trapelare la notizia. Sarebbe stato tollerante con i rivoltosi, specialmente con coloro che avessero compiuto gravi scempi contro la memoria di papa Carafa: non avrebbe mosso un dito per riportare l’ordine in città.

    La confusione, poi, capitava al momento più opportuno, quando nelle notti oscure di Roma si stavano verificando nello stesso tempo omicidi inauditi e apparizioni di angeli.

    Nessuno doveva venire a conoscenza di questi eventi prima che si fosse investigato.

    Bisognava trovare al più presto gli artefici o…

    La causa.

    Comunque stessero le cose, era necessario scongiurare che si vociferasse ancora di creature alate manifestatesi proprio mentre il papa moriva. Vi si sarebbe potuto ravvisare un segno del Cielo, un messaggio divino.

    Ci mancava solo la beffa dell’imprevista santificazione di quel farabutto.

    Perché non si aveva notizia di angeli che avessero espresso parole di condanna contro il pontificato di Carafa e i crimini dei suoi nipoti?

    Ma, poi, erano veri angeli, come sosteneva frate Arquez?

    Oppure, semplicemente, qualcuno stava architettando una burla in grande stile per sbeffeggiare la Chiesa?

    Magari i luterani. Sì, certo, perché no? Loro ne avrebbero tratto un grande profitto, specialmente in un momento delicato come quello.

    Il potere era nelle sue mani adesso, si disse il camerlengo sentendosi la fronte velarsi di un sudore gelato: doveva trovare delle risposte.

    E prima che iniziasse il conclave.

    Non che avesse delle speranze di diventare papa lui stesso, ma entrare nella Cappella Sistina e presentarsi di fronte agli altri cardinali senza aver risolto quei crimini e senza aver spiegato le apparizioni era inconcepibile.

    La faccia e l’onore erano indispensabili in un conclave, non poteva permettersi di perderli proprio adesso.

    Una mano pesante gli si posò sulla spalla coperta di porpora interrompendo il flusso dei pensieri.

    «Guido, vi sentite bene?».

    D’un tratto Santa Fiora fu assalito dal chiacchiericcio cardinalizio che gli si stava rimestando tutt’intorno, dall’effluvio di incenso e di fiori, di acque profumate, sudore e unguenti maleodoranti. «Grazie, sto bene», rispose. Era il cardinale Alfonso Carafa. «Sono solo molto addolorato», gli disse. «Vi rinnovo le mie condoglianze».

    Alfonso annuì e se ne andò a capo chino, asciugandosi le lacrime sulle guance.

    Santa Fiora si tolse il tricorno porpora dalla testa sudata e lo usò come ventaglio per farsi aria sul viso. E in quel preciso istante gli balenò una magnifica idea nella mente. Un ultimo dispetto da fare al papa.

    Attraversato da un brivido, alzò una mano e proruppe: «Silenzio, per favore!».

    Uno alla volta, come le cicale di sera, i cardinali tacquero.

    «Dati i gravi disordini che si stanno verificando», attaccò Santa Fiora, «e in previsione di rivolte ancora peggiori, ho ragione di temere per la sicurezza del corpo del Santo Padre. Credo, pertanto, che sia necessario metterlo al sicuro finché le acque in città non si saranno calmate. Tutti noi sappiamo che il defunto era tanto amato da noialtri quanto malvoluto lì fuori».

    Mormorii.

    La maggioranza assentiva.

    «Le vostre paure sono anche le nostre», disse alla fine il giovane Alfonso Carafa. «Cosa suggerite di fare?».

    Reprimendo qualunque espressione di compiacimento, il camerlengo rispose che, per precauzione, il corpo del suo beneamato prozio sarebbe stato deposto nella Cappella Sistina, circondato dalle guardie, e con soltanto i piedi esposti al bacio. Il cancello sarebbe rimasto chiuso.

    Alfonso non disse nulla.

    Gli altri cardinali, invece, cominciarono a bisbigliare fra loro domandandosi se fosse davvero il caso di mettere il papa sotto quegli affreschi indecenti, che lui aveva sempre odiato e che avrebbe voluto distruggere. Però alla fine delle consultazioni non raccolsero un seguito sufficiente e si stabilì di fare come detto dal camerlengo.

    Santa Fiora si assentò, lo sguardo rivolto alle ampie finestre del sacro palazzo, che ritagliavano porzioni di cielo sereno e limpido, punteggiato di astri ignoti.

    Signore, pregò, fa’ che non venga ucciso nessuno e che non appaiano angeli, non stanotte.

    Capitolo 4

    Vicolo del Malpasso, Rione Regola

    La notte era screziata dai bagliori arancioni dei fuochi e si udiva un fragore diffuso, un cupo rombare di tamburi, di urla. Erano echi delle battaglie che si stavano svolgendo da qualche parte, in città.

    Il bambino chiuse gli occhi e strinse le piccole dita attorno alla redine di cuoio.

    Io sono lo scudiero di un grande cavaliere, pensava.

    Sognava di condurre per mano un destriero montato da un principe in armatura, scintillante nella luce solare. Ed era molto importante tenere chiusi gli occhi. Altrimenti avrebbe visto che al posto del destriero c’era un asino, e al posto del principe in sella due grosse botti vuote. E avrebbe anche capito che i rumori e le fiamme non provenivano da un campo di battaglia, ma dalle strade di Roma.

    I versi scomposti di suo padre, che seguiva l’animale incitandolo a furia di maledizioni, anche se il tratto era in discesa, gli ricordavano in ogni istante dove si trovava e cosa stava facendo realmente: era nel vicolo del Malpasso e stava scendendo verso il fiume.

    Ma ormai il bambino era così abituato a quel lavoro e conosceva talmente bene il percorso, da riuscire a immaginare di essere altrove e di vestire i panni di uno scudiero.

    Nella realtà, come sempre d’estate, lui e suo padre andavano al Tevere a tarda sera, per evitare la calura del giorno e mantenere l’acqua fresca, pronta per l’indomani, quando all’alba sarebbero andati a venderla un po’ dappertutto, per sfamare la famiglia e pagare la pigione della casa.

    Sono lo scudiero del re e diventerò cavaliere.

    Le spade vorticavano nella fantasia e le immagini di tornei variopinti si popolavano di giovani damigelle, belle come angeli ancora senz’ali, appena sbocciati dalla mente di Dio.

    «Speriamo che continui a fare questo caldo terribile», disse suo padre singhiozzando, mentre arrancava con il vino che sciabordava nelle budella. «Benedetto sia questo maledetto caldo».

    «Come fa a essere benedetto, se è maledetto?»

    «Da grande capirai, figliolo».

    Il fanciullo non capiva tutte le strane frasi con cui se ne usciva suo padre, di tanto in tanto. Però sapeva il motivo per cui bisognava augurarsi che facesse molto caldo: la gente beveva più acqua, e loro avrebbero potuto mettere da parte qualche denaro che poi sarebbe tornato utile d’inverno.

    Le annate peggiori, diceva sempre l’acquaiolo adulto, sono quelle in cui la stagione estiva è fresca, peggio ancora se piovosa.

    «Sai, Ughetto, è questo il mio problema, la mia condanna».

    «Il vino, padre?»

    «Come osi, piccolo bastardo?», sbuffò simulando un accenno d’ira. «La mia condanna», riattaccò, sussultando per i singulti, «è avere una costituzione fisica che mal sopporta la calura estiva. Mi appesantisce il cuore e le gambe, dormire poco e male mi annebbia la testa, e proprio nei mesi in cui devo lavorare di più! Ne soffriva anche mio padre, sai. E il padre di mio padre. Erano tutti acquaioli come me. E te».

    «Lo so, padre». Io sono uno scudiero… «A me il caldo piace, padre».

    «Sì, certo. E ti piace anche fantasticare. Ma quando sarai vecchio come me, capirai cosa intendo».

    «Non siete vecchio».

    «Ho quarant’anni. Perdio se lo sono!».

    «Se voi siete vecchio, allora il papa cos’è?»

    «Molto vecchio».

    «Così tanto che sta morendo».

    «Non è un nostro problema».

    Ugo non replicò. Quando suo padre era sotto l’effetto del vino, vale a dire sempre, era meglio assecondarlo.

    L’uomo rise amaramente. «Questo papa qui, malgrado il nome che porta, di acqua non ce ne ha mai fatta vendere in Vaticano. Quando tu non eri ancora nato, io fornivo l’acqua da bere alla Curia, d’estate, quando Sua Santità lasciava Roma con il suo seguito».

    «Perché, che nome porta questo papa?»

    «Lo sai benissimo, testone».

    «Carafa», cantilenò Ugo, divertito dalla facilità con cui suo padre si spazientiva.

    «Smettila».

    «Parlano tutti male del papa che sta morendo».

    «Tu, invece, farai meglio a tenere la bocca chiusa. Non sono cose che ci riguardano. Noi siamo solo due onesti acquaioli».

    Io sono uno s

    Il sogno cavalleresco del piccolo acquaiolo fu interrotto bruscamente da strepiti e grida provenienti dal fiume.

    A quell’ora, il piccolo molo del Malpasso era frequentato da acquaioli che caricavano botti d’acqua potabile sugli animali da soma, ma di solito lavoravano in silenzio.

    Doveva essere accaduto qualcosa.

    «Padre, andiamo a vedere?»

    «Non sono cose che ci riguardano», lo zittì l’uomo, ma subito cambiò idea e spronò l’asino. «Ah!».

    Raggiunto il molo del Malpasso, vi trovarono la consueta ridda di ragazzi e uomini che, come loro, erano soliti recarsi al fiume dopo il calar del sole.

    Ma in quel momento nessuno era affaccendato. Erano tutti sconvolti, esagitati, e guardavano il corso del fiume con le mani fra i capelli. Dalle bocche spalancate uscivano versi di meraviglia, qualcuno piangeva.

    Dio mio, pensò il bambino, ma cosa è successo?

    Più di una volta gli era capitato di ascoltare racconti di persone che cercavano la morte gettandosi nelle acque del Tevere, e di cadaveri ripescati, quindi immaginò che ci fosse qualcosa di molto importante da vedere. Ma non era abbastanza alto da riuscire a spingere lo sguardo oltre la muraglia di persone che lo sovrastava.

    Suo padre si era unito agli altri. E si era fermato, in piedi, a guardare il fiume lanciando versi di stupore. A tratti gli saliva, insieme ai vapori dello stomaco, una risata inopportuna, folle. «Un miracolo», diceva, «un miracolo». Era come inebetito da un inquietante torpore, talmente assorto che non reagiva agli strattoni con cui lui cercava di scuoterlo.

    Ugo impiegò del tempo prima di riuscire a farsi largo ed era quasi passato avanti quando lo sforzo fu reso superfluo all’improvviso: gli altri caddero sulle ginocchia e presero a intonare il Pater Noster.

    E a quel punto anche lui riuscì a vedere.

    C’era un angelo in piedi al centro del fiume, bianco, il corpo illuminato, le ali ripiegate che spuntavano da sopra le spalle e dai fianchi; stava fermo sul pelo dell’acqua, senza affondare, le braccia aperte, il viso severo e radioso, rivolto agli acquaioli che si erano fermati ad ammirarlo, e che lo stavano salutando al grido di «Alleluia».

    «Cristo Gesù!», dicevano. «Signore Gesù».

    Poi l’angelo dispiegò le ali facendo ammutolire gli astanti: «Voi», eruppe, «ascoltate!».

    Tutti smisero di respirare, e qualcuno avrebbe desiderato fermare anche il battito del proprio cuore, per non udire nient’altro che la voce dell’angelo.

    In quel silenzio da oltretomba la creatura celeste disse: «Il maligno grava su Roma. Il giorno del Giudizio si avvicina!». Poi scomparve alla vista, lasciando tutti sbigottiti e in estasi.

    In una sinfonia di lacrime.

    Capitolo 5

    Piazza San Pietro, Vaticano

    La città dormiva.

    Si erano spenti anche gli ultimi echi di esultanza per la morte del papa, dall’altra parte del Tevere.

    Il popolo aveva la sua saggezza, pensò Santa Fiora. La gente, appresa la notizia, era andata a letto sapendo di avere tutto il tempo di organizzarsi e di insorgere in pompa magna l’indomani e nei giorni a seguire.

    Ma adesso regnava su tutto una pace assoluta.

    L’aria era così fresca che pareva fermentare nelle narici

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