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I quattro enigmi degli eretici
I quattro enigmi degli eretici
I quattro enigmi degli eretici
E-book499 pagine6 ore

I quattro enigmi degli eretici

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Info su questo ebook

Il thriller più geniale dell'anno

Profezie, cospirazioni e delitti nella cupa Roma del tardo Medioevo

Autunno 1342.
Roma è macchiata da un crimine abominevole. Un cavaliere cinto da una corona con dieci corna uccide un neonato per impedire l’avverarsi di un’inquietante profezia. Il piccolo sembra essere colui che un giorno erediterà uno specchio che porterà sciagure nel mondo. Cinque anni dopo, il giorno di Pentecoste, il tribuno romano Cola di Rienzo esce di prigione con l’intenzione di realizzare una predizione ricevuta in sogno, ma il suo destino si incrocia con un messaggio che giunge dal passato e lo incita a mettersi alla ricerca di uno specchio occulto, lo Speculum in Aenigmate. Si tratta di un manufatto realizzato con la pietra incastonata nella corona di Lucifero, prima della caduta, capace di stravolgere le sorti dell’umanità. La sua non è una ricerca solitaria: da secoli due sette cercano di entrarne in possesso ed entrambe tramano alle spalle di Cola per manovrarlo. Cosa sono disposti a fare coloro che cospirano per impossessarsi dell’oscuro oggetto della profezia?

Una profezia che non deve avverarsi
Un uomo determinato e visionario
Due sette in lotta tra loro da secoli

«Sì, sì, sei proprio bravo, Armando Comi.»
Pier Francesco Gasparetto, La Stampa

«Armando Comi galoppa attraverso i secoli bui.»
Valerio Massimo Manfredi
Armando Comi
È nato a Catanzaro nel 1978. Laureato in Filosofia e Dottore di ricerca in Storia della Filosofia, si è occupato di millenarismo, profetismo e simbologia. Ha pubblicato diversi saggi relativi a movimenti ereticali e simboli profetici. È stato lessicografo occupandosi di voci religiose, filosofiche e storiche ed è autore di diverse sceneggiature. I quattro enigmi degli eretici è il suo primo romanzo storico, dedicato alla controversa storia di Cola di Rienzo.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2018
ISBN9788822718921
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    Anteprima del libro

    I quattro enigmi degli eretici - ARMANDO COMI

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    Gemini

    1342

    La notte non lasciava distinguere le mura di San Giovanni in Laterano ancora nere per la cenere dell’incendio che lo aveva devastato qualche anno prima.

    La donna raggiunse con movimenti da gatta l’ingresso della chiesa, lasciò il cesto tra le due colonne in porfido del pronao, quindi corse via. Il lenzuolino che copriva il canestro dopo poco fu spostato da uno scalpitare di gambe e braccia, quindi il portone della chiesa fu assalito dai vagiti di due neonati.

    Ottobre regalava ancora qualche stanco strascico di umido calore estivo.

    Il velo di cenere nera che ammantava la chiesa aleggiava sui due neonati come una minaccia. Il pianto si levava sempre più acuto nella notte silenziosa.

    Uno dei due improvvisamente smise di gridare, come se avesse percepito qualcosa di peggio del nero e del buio. Mentre il suo gemello strillava senza pace, lui invece sembrava deciso a non svelare la propria presenza, fissava pietrificato l’enorme timpano sopra il portone d’ingresso.

    Il cielo sopra la testa dei due neonati era una grande cupola scintillante, avvolgente ma troppo lontana per proteggerli.

    Il bambino non si fece distrarre dal pianto del fratello, il lenzuolino scivolò nuovamente sul cesto coprendoli entrambi. Lui rimase ancora in silenzio, immobile nonostante il bisogno urgente di una poppata, ma i passi metallici che si avvicinavano alla culla non promettevano un seno materno gonfio di latte. Un leggero odore di grano bruciato fu trasportato dal vento. Il neonato annusò l’aria come un animale selvatico, e fu lo stesso istinto delle bestie a suggerirgli che quell’odore significava pericolo.

    Il portone della chiesa si aprì lentamente. Due grandi mani si avvicinarono al cesto e presero il neonato che urlava senza pace. Il sacerdote Raimondo da Orvieto cominciò a cullarlo perché si calmasse.

    Non si accorse che i bimbi erano due e che uno di loro era ancora nel cesto.

    «Chi ti ha portato qui?», domandò il sacerdote al neonato, sorridendogli. Si voltò per spalancare il portone e rientrare in chiesa con il piccolo, ma quel che vide alle sue spalle lo irrigidì come una lapide.

    Una spiga di grano capovolta bruciava lasciando cadere la cenere davanti all’ingresso. Per terra, tracciato col carbone, vi era un simbolo macabro:

    Raimondo avvolse il neonato nel saio e si guardò intorno.

    Tre uomini vivi faccia a faccia con tre uomini morti. Che simbolo è mai questo? E che ci fa qui, davanti a un neonato abbandonato? Sembra messo apposta per il bimbo… Possibile che qualcuno stesse aspettando una nascita e un abbandono proprio stanotte? si disse Raimondo, e osservò il piccolo chiedendosi ancora se quel simbolo fosse lì per lui.

    «Andiamocene da qui», disse al neonato e spinse il pesante portone con la mano libera, stringendo a sé il bimbo. Entrò e si affrettò a serrare l’uscio, controllò tra le panche della chiesa che non ci fosse nessuno. Percepì il calore di quel corpicino agitato attraverso il saio.

    La fiamma delle candele permise al sacerdote di orientarsi nel buio della notte, reso ancora più opprimente dalle pareti incenerite.

    Un lampo illuminò il Battistero e fu seguito da un tuono che frantumò la mite e tersa notte d’ottobre. La pioggia iniziò a battere come se stesse prendendo a sassate le arcate della chiesa. Le antiche pietre tombali del chiostro sembravano in attesa di qualcosa.

    Raimondo diede due colpetti sulla schiena del bimbo. Si guardò intorno, il portone era chiuso, anche la seconda uscita era chiusa, «Siamo in salvo», disse, O forse siamo prigionieri, pensò.

    Rivoli di acqua piovana iniziavano a scorrere anche all’interno della chiesa rendendo scivoloso il pavimento.

    Camminò calpestando l’acquitrino, procedette lentamente reggendosi alle panche. Sentiva il ritmo dei propri passi zuppi di pioggia, tuttavia gli sembrava di udirne più di quelli che faceva, allora iniziò a contarli, Uno, due, uno, due, piede destro, piede sinistro, dalla navata centrale si voltò a guardare il crocifisso, Qui dentro c’è qualcuno che ci segue, dedusse.

    Tirò fuori il bimbo dal saio e lo osservò agitarsi, quindi lo posò su una panca: «Aspettami qui», gli disse, e si avviò a ispezionare le colonne. Ma chiunque ci fosse in quel luogo non pareva intenzionato a nascondersi, infatti poco dopo un rumore di passi metallici immobilizzò l’ecclesiastico. A produrlo erano due gambali che si avvicinavano verso il neonato lasciato sulla panca. Raimondo sentiva sopra la testa lo sguardo delle statue dei santi e della Madonna che lo fissavano dall’alto. Tornò indietro dove era il neonato, ma vi trovò un cavaliere chino sulla panca.

    Le candele illuminavano la figura che si confondeva con il buio e un dettaglio rese molli le ginocchia di Raimondo impedendogli di soccorrere il piccolo: il cavaliere non indossava un elmo, ma una corona con dieci corna.

    «La Bestia dell’Apocalisse», commentò il sacerdote facendosi il segno della croce.

    Il neonato si agitava convulsamente per il freddo e la fame, ignaro delle insidie notturne di Roma.

    Il cavaliere allungò un paio di volte le mani per afferrarlo ma poi le ritrasse come se il bambino scottasse o fosse infetto da qualche morbo contagioso.

    Raimondo mosse le gambe contro la volontà del corpo. «Cosa stai facendo?», urlò avvicinandosi al cavaliere.

    «Spostati prete», minacciò il guerriero. «Non posso permettere che questa creatura rimanga in vita».

    Il sacerdote spalancò le braccia a croce e impedì al cavaliere di toccare il neonato. Vide l’assalitore sguainare un martello da guerra.

    «In una chiesa, davanti a Cristo, tu, cavaliere, uccideresti un sacerdote e un neonato? Sei davvero la Bestia dell’Apocalisse! Perché vuoi macchiarti del sangue di un innocente?»

    «Oggi è nato il Falso Profeta… Noi puliremo l’altare del Signore col suo sangue», rispose quello con un sorriso tremante, «se non lo uccido oggi, un giorno l’umanità ne pagherà le conseguenze, perché quel bambino aprirà le porte del mondo all’Anticristo».

    «Tu sei un pazzo!», esclamò Raimondo.

    Il cavaliere aveva gli occhi lucidi, tremava e rideva all’idea di poter finalmente compiere quella missione, nonostante poco prima avesse ritratto le mani dal contatto con il neonato.

    Raimondo si voltò di scatto per osservare l’innocente sulla panca, ma il cavaliere con un solo colpo di martello stese l’ecclesiastico, poi gettò a terra l’arma, si avvicinò alla panca e afferrò il neonato per la testa. Camminò verso una pozzanghera, sollevò il braccio e batté la testolina del bimbo contro il marmo del pavimento. Un fluido rosso tinse lo specchio d’acqua e il bimbo smise per sempre di avere fame.

    Il cavaliere rimase a godersi quell’improvviso silenzio rotto solo dai singhiozzi sordi di Raimondo.

    «Sei soddisfatto ora… Mostro?»

    «Non ancora… Ora tocca al suo complice», rispose il cavaliere, «tocca a Cola di Rienzo».

    Afferrò la corona con dieci corna e la levò dal capo, quindi andò via.

    Raimondo distolse lo sguardo dal piccolo cadavere, si rimise in piedi senza riuscire a stare dritto, tuttavia non poteva perdere di vista l’assassino e barcollando corse dietro al cavaliere. Ma quando fu fuori non vide nessuno, come se l’uomo fosse stato liquefatto dalla pioggia.

    Tra le colonne di porfido scorse il cesto che era rimasto al proprio posto. Lo seppellirò nella sua culla, avvolto con questo panno, pensò, ma quando scostò il tessuto vide un altro neonato fermo e silenzioso che lo penetrava con occhi di lupo.

    Sentì di doverlo chiamare Pseudo.

    1

    Rovine

    Inspirò l’aria di paglia e margherite, guardò il cielo che abbandonava il rosso per tingersi di blu, quindi iniziò a scendere lentamente, misurando con il piede gradino per gradino. Dovette aspettare che gli occhi si abituassero al buio e a poco a poco distinse i contorni di due porte, una di fronte all’altra. Erano gli accessi a due camere scavate nella roccia, una per ciascun morto. Su quell’ultimo gradino Cola decise di fermarsi, poco prima del vestibolo, dando le spalle alla scalinata, e da lì fissò il corridoio che portava in fondo alle due porte.

    «Prova a bussare».

    Cola si voltò. In piedi dietro di lui c’era un bambino dall’aspetto nobile, ricercato nell’abbigliamento, che lo fissava di sbieco.

    «Sai leggere le incisioni sulle lapidi?», domandò il giovinetto.

    Dall’esterno arrivava il suono dei campanacci del bestiame al pascolo. «Sì», rispose Cola, «so leggerle».

    Il bambino parve soddisfatto della risposta e scese un paio di gradini avvicinandosi a lui. «Hai notato che si parla sempre di morti bravi o coraggiosi? Insomma, su una lapide non si trova mai scritto che lì è sepolto un ladro o un assassino».

    Cola sorrise. «È vero, nessuno vuole essere ricordato per le cose brutte che ha fatto».

    «Su quelle porte invece non c’è scritto niente», disse il giovinetto continuando a scrutarlo di sbieco. «Perché non provi a bussare?»

    «Perché dovrei bussare? Dietro quelle porte riposano dei morti, non sarebbe rispettoso».

    «Allora perché resti qui in piedi a guardarle?», domandò ancora il bambino fissando il buio in fondo al corridoio. «Sono solo tombe, come tante altre qui in campagna».

    «I cimiteri si assomigliano tutti», ammise Cola sorridendo, «eppure a volte davanti a una tomba possiamo imparare qualcosa, come se gli uomini del passato fossero capaci di parlarci di noi, del nostro futuro», spiegò. «I tuoi genitori o i tuoi nonni ti racconteranno di certo chi furono i tuoi antenati».

    «Non passo molto tempo con loro, non li vedo quasi mai… però mi piace parlare con quelli come te che ogni tanto passano da queste parti», rispose il bambino voltandosi verso l’uscita. Poi, abbassando la voce, aggiunse: «Ma devo farlo di nascosto, se scoprono che sono qui mi riporteranno a casa», disse, quindi tornò a fissare Cola. «È vero che voi con i capelli rossi portate sfortuna?», domandò indicandogli la testa.

    «No», rispose Cola.

    «I peli di Satana sono rossi, non è vero?»

    «Non l’ho mai visto», rispose lui sorridendo e sgranando gli occhi come certi folli.

    Entrambi si voltarono verso un punto senza luce tra le due porte, dall’alto il vento produceva un fruscio crepuscolare.

    «Sei venuto qui per parlare con i morti sepolti dietro quelle porte?», domandò il bambino fissando il buio.

    A quella domanda la luce degli occhi di Cola si spense.

    «Ti hanno detto qualcosa del tuo futuro?», insistette il giovinetto.

    «No… E a te? Ti hanno mai detto qualcosa?»

    «Mi hanno detto che oggi saresti passato da qui».

    «Tu lo sapevi?», domandò Cola piegando la bocca.

    «Anche tu lo sapevi!», rispose il bambino di sbieco, e si accorse che Cola tratteneva il respiro, quindi scoppiò a ridere. «Se sei qui, certo che sai di essere qui… Ci sei cascato, ci sei cascato», iniziò a canzonare.

    Il sorriso di Cola si riaccese. «In effetti so di essere qui», ammise, «mi hai fregato».

    «Ma io come facevo a saperlo?», domandò improvvisamente il giovinetto smettendo di ridere e fissandolo di storto.

    Il volto pallido e magro di Cola si contrasse.

    «Ora devo andare… Noi due non ci rivedremo mai più», e così dicendo il bambino scese l’ultimo gradino, percorse il corridoio, aprì una delle due porte ed entrò nella tomba.

    Un lontano belato si perse tra le fronde degli alberi scosse dal ponente che regalava un poco di fresco alla campagna romana. Cola lasciò che il vento gli colpisse il volto, chiuse gli occhi e inspirò tutta la primavera sparsa per l’aria, quindi tornò sulla via principale.

    Un uomo steso su un manto verde lo aveva aspettato sonnecchiando sotto un albero. Quando vide Cola, ripose il pugnale che aveva tenuto in mano e poi diede una controllata ai nodi del carro.

    «È tutta intera?», domandò Cola indicando una lastra di marmo grande quanto un tavolo da cucina e ben legata.

    Quello si limitò a fare un lieve col capo. «E tu sei tutto intero?», domandò a propria volta indicando le rovine del cimitero.

    Cola annuì, sistemò sul carro la propria armatura e fece strada: «Rimettiamoci in marcia… Ho trenta messe da ascoltare prima di Pentecoste, prima che tutto abbia inizio».

    2

    La statua

    Mentre il sacerdote recitava le ultime parole della ventinovesima messa, Cola provò a muovere le ginocchia piantate da ore sul pavimento della chiesa. Quando anche la trentesima messa fu conclusa, si alzò, ma dovette restare fermo qualche momento prima di essere in grado di mantenersi in piedi e di infilare l’uscita.

    La stradina che portava da Sant’Angelo in Pescheria verso il Campidoglio era molto stretta, infatti bastarono cinque guerrieri uno di fianco all’altro per bloccarla. Dietro di questi vi era un manipolo di altri venti cavalieri che marciavano a piedi, armati di spade e scudi.

    Cola di Rienzo fu costretto a fermarsi, la sua armatura portava luce in quella strada strozzata e il riflesso del metallo della cotta riverberava sulle pareti accecando i soldati. Cola si voltò a guardare l’amico: «Un’accoglienza pacifica», ironizzò.

    «Indossi un’armatura e porti una spada… Cosa ti aspettavi?», gli rispose l’amico.

    Cola osservò il proprio scudo con la scritta "Quis ut Deus?, e tradusse per se stesso: Chi è come Dio?". Era la domanda che aveva posto l’Arcangelo Michele a Lucifero prima di gettarlo all’Inferno.

    In mano invece portava una spada, e aveva cura di mantenere la punta rivolta verso il basso, come se dovesse trafiggere un serpente: «È vero, indosso un’armatura e porto una spada… ma io e te non siamo un esercito».

    I cavalieri aprirono le file per far passare un uomo il cui volto pareva una Y, un incrocio tra un coniglio e una volpe. L’uomo, nonostante il caldo sole di maggio, indossava abiti lunghi e ricchi e ne fece sfoggio davanti alla folla che iniziava a radunarsi per godersi quella novità.

    «Sono Cola di Rienzo, e sono di ritorno…».

    «Sei di ritorno da Avignone dopo quattro anni di carcere», anticipò quello sorridendo.

    «Ci conosciamo già?», domandò Cola.

    «Non mi riconosci più? Sono Prosco», rispose quello.

    Cola lo fissò a occhi stretti «Proscunesuso detto Prosco, ti ricordavo… diverso».

    «Puoi chiamarmi semplicemente caporione», disse Prosco agitando i braccialetti d’oro ai polsi. «Sono qui in nome del barone Caetani per proteggere rione Campitelli e mantenerne l’ordine», aggiunse.

    «E io sono qui per raggiungere il Campidoglio», ribatté Cola.

    «Per raggiungere il Campidoglio devi passare da Campitelli», disse il caporione alzando un dito.

    «Esatto».

    «Posso sapere cosa trasporti su quel carro?», domandò Prosco indicando la lastra di marmo.

    «Signor caporione», disse Cola, «lo saprete a tempo debito… e non solo voi, tutti i cittadini di Roma lo sapranno se mi lascerete passare».

    «Sei stato troppo tempo lontano da Roma, caro Cola, e hai dimenticato le sue regole… Qui sono i baroni a decidere chi passa e cosa passa, e in questo caso il responsabile sono io, quindi devo sapere cos’è quella lastra di marmo che dici di voler far conoscere ai cittadini di Roma».

    «Di cosa hai paura?», domandò Cola sorridendo. «Siamo solo in due e questa è solo una lastra di marmo».

    «Infatti non ho paura di te», rispose quello, «ma devo obbedire al barone Caetani… E di te qui a Roma non abbiamo un buon ricordo».

    «I baroni e quelli come te non hanno un buon ricordo», precisò Cola.

    «Se vuoi continuare a combattere per i poveri fallo pure… Torna ad Avignone e ricomincia daccapo, perché non mi pare che tu abbia ottenuto molti successi», replicò il caporione. «Cavalieri, rispeditelo indietro».

    «Questa è la mia città, dove sono nato e cresciuto… Ho il diritto di passare».

    «Ma infatti puoi passare», disse Prosco. «Basta che ti spogli dell’armatura e mi consegni quella lastra», aggiunse.

    «Non puoi appropriarti di ciò che non ti appartiene», rispose Cola.

    «Roma non sarebbe controllabile se lasciassimo fare a tutti quello che vogliono… Ti ricorderai che già una volta ti presentasti su questa strada con quel predicatore… Come si chiamava… ah, già… Venturino da Bergamo», disse. «E cosa volevate? Certo, ora ricordo… Volevate donare ai poveri i soldi destinati allo stadio».

    Cola strinse l’elsa della spada e avanzò verso Prosco, l’amico gli fu dietro ma i cavalieri reagirono puntando le loro spade contro i due. Cola abbassò lo sguardo sulla sabbia, e rivide le gocce di sangue colare dalla schiena di Venturino, rivide la frusta in mano al predicatore rialzarsi e tornare a flagellarlo, e ancora e ancora fin quando non cadeva in ginocchio a chiedere perdono a Dio: «Noi non volevamo solo i soldi del tuo stupido stadio… Noi volevamo un mondo ripulito dalla corruzione, una rinascita spirituale che avrebbe spazzato via i padroni del mondo… E quando avrò letto ai romani il contenuto di quella lastra, tutto ciò si realizzerà».

    «Ecco quindi il motivo del tuo ritorno, portare fame ed eresie a Roma, e io per difendere la città devo solo impedirti di passare… come feci già con Venturino quando venne a predicarci la povertà e le eresie… A quel tempo, col permesso del papa, lo mandai a predicare in Turchia, dove lo accolsero con un cappio al collo», confessò Prosco. Quindi voltò le spalle a Cola e ordinò: «Rispedite indietro lui e quell’altro vestito di verde».

    Il compagno di viaggio aveva all’incirca la stessa età di Cola. Il mantello del colore dell’erba lo avvolgeva come una seconda pelle. L’uomo sollevò il volto che sembrava appena uscito da una violenta lotta, aveva lo sguardo lucido come in preda alla febbre, le pupille sembravano girini impazziti dentro uno stagno. Si erse dritto per fissare il caporione: «Mi foste nemico», replicò con un forte accento toscano, «e vi conosco tale… Io sono Francesco Baroncelli».

    A quelle parole l’esercito di Prosco avanzò di un passo respingendo indietro i due uomini.

    «Certo… mi ricordo della tua famiglia, ghibellini scacciati da Firenze… Non eravate ben accetti lì e non siete mai stati i benvenuti nella città del papa».

    Baroncelli scostò il mantello mostrando l’elsa che spuntava dalla guaina, fissò Prosco negli occhi senza degnare di uno sguardo nessuno degli altri guerrieri.

    «Sono cinquant’anni che la Santa Sede è ad Avignone e ti assicuro che lì in Francia sua santità se ne frega di guelfi e ghibellini», dichiarò Cola. «Io e Baroncelli oggi entreremo insieme in Campidoglio, che ti piaccia o no».

    «Fai come vuoi, Cola di Rienzo», ribatté il caporione. «Vuoi arrivare in Campidoglio? Bene», disse muovendo le mani come per invitare un ospite a entrare, «sconfiggi i miei cavalieri… Buona fortuna». E voltò nuovamente le spalle ai due, ma non fece più di due passi che un urlo riecheggiò tra le mura, quindi un popolano di nome Bruzo si fece largo tra le fila dell’esercito.

    L’uomo si gettò ai piedi di Prosco e prese a gridare: «Si è mossa! La statua di fronte alla casa con le finestre oscurate si è mossa!», precisò indicando l’antica statua di un imperatore.

    Prosco ingoiò saliva, si guardò intorno come se non riconoscesse il proprio rione e infine fissò Cola di Rienzo. La profezia di Venturino da Bergamo, pensò tra sé e sé.

    «Chi abita lì?», domandò puntando il dito contro la casa con le finestre sbarrate.

    «Luna», rispose Bruzo.

    «Vai a controllare», gli ordinò il caporione.

    «Ma, mio signore, quella donna è…».

    «Obbedisci!».

    Quello andò davanti alla porta ma non bussò, bensì attaccò l’orecchio.

    «Si sente bisbigliare», riferì. «Ma dalle finestre non si intravede niente», disse cercando di sbirciare, «le voci sono di un uomo e di una donna che parlano».

    «Sfonda la porta», gli ordinò Prosco.

    Luna era inginocchiata, il lembo della gonna la circondava come un cerchio magico. La luce che filtrava dalle imposte chiuse faceva brillare la sua veste nera come le ali di un corvo, mentre la testa, china sul pavimento, era nascosta dall’ombra.

    «Quello con i capelli rossi si chiama Cola di Rienzo… Ha passato la notte in Sant’Angelo in Pescheria», le sussurrò una voce dal pavimento. «Ha compiuto il rito delle trenta messe».

    «Cosa ha chiesto durante il rito?», domandò la ragazza.

    «Vuole conoscere il futuro, sapere come scacciare i nobili e conquistare Roma», rispose la voce.

    Lei sollevò leggermente il volto dalla pelle di porcellana per scostare un ciuffo nero finito sugli occhi, occhi del colore di due acquitrini che riflettono il cielo di dicembre. Poi si voltò percependo dei rumori alle sue spalle fuori dalla porta.

    «Chi è Cola di Rienzo?», domandò rivolta al pavimento.

    «È l’ultimo ad aver parlato con Venturino da Bergamo… Colui che conosce la sua profezia, ma non solo…».

    Improvvisamente la voce si interruppe.

    Un boato sfondò la porta, quindi la luce del sole invase la camera.

    Bruzo aveva sfasciato l’uscio e dopo aver visto quel che stava accadendo nella stanza era corso da Prosco. «L’ho trovata di spalle, ritta sulle ginocchia, mentre farfugliava frasi incomprensibili e muoveva il petto affannata come un malato… Sembrava stesse parlando con qualcuno ma la stanza era vuota, quando mi sono avvicinato lei non poteva vedermi… Aveva gli occhi rovesciati e continuava a parlare con qualcuno».

    «Hai controllato bene?», gli domandò Prosco.

    «La stanza è vuota, non c’è nessuno», rispose quello.

    «Puzzi di vino», commentò Prosco allontanando il popolano con un gesto nervoso della mano. Poi andò a controllare di persona e verificò che Bruzo aveva visto bene.

    La stanza era vuota, alle pareti vi erano solo libri ed erbe, lo sguardo cadde infine su un angolo buio del pavimento dove, adagiato su un fazzoletto vi era un teschio. Troppi fenomeni soprannaturali, pensò il caporione guardando la statua che pareva fissarlo dall’altra parte della strada.

    3

    Il drago

    Bloccato dai cavalieri, Cola era rimasto a fissare lo stemma del rione Campitelli, un drago con la bocca aperta e la lingua di fuori. Poi aveva visto gli uomini di Prosco portare la ragazza fuori dalla porta di casa. Sarà lei?, si domandò guardandola mentre la mettevano in ginocchio sotto il drago.

    «Con chi stavi parlando?», le domandava Prosco. «Come sei riuscita a far muovere la statua?».

    Ma la ragazza non rispondeva, era come ubriaca.

    «Questa è Luna?», domandò Cola.

    «La conosci?», gli domandò Prosco.

    «Sì», rispose Cola, e si accorse che il caporione sudava e si grattava la testa.

    «Non è vero», ribatté lei riemergendo bruscamente da quello stato di incoscienza e alzandosi. «Tu non mi conosci… Di quale rione sei?», gli domandò.

    «rione Regola», rispose lui stupito da quell’improvviso risveglio della ragazza.

    «Appartieni ai baroni Savelli, quindi», dedusse Luna.

    «Il mio signore è uno solo», rispose Cola a voce alta, «si chiama Spirito Santo. Tu invece abiti qui in rione Campitelli… Appartieni ai baroni Caetani?», la punzecchiò Cola.

    Prosco intervenne minacciando la ragazza: «Non rispondergli».

    «Lasciala stare», intimò Baroncelli come in preda a una febbre.

    «Se appartenessi ai Caetani avresti qualche cosa in contrario?», gli domandò a sua volta Luna. «In fondo ho un barone che mi protegge, mentre Dio… Non so».

    Cola studiò le parole della donna quasi fossero un enigma da risolvere.

    «Questa donna è una strega», intervenne ancora il caporione, «e deve ringraziare la bontà di un potente barone se non è stata condannata».

    «Non è vero che mi conosci, mentre io conosco te… Cola di Rienzo», affermò lei sorridendo come una statua egizia.

    «Sentiamo… Cosa sai di me?», domandò lui.

    «Quello è l’altare di una chiesa», cominciò Luna indicando la lastra sul carro, «si vedono ancora i cerchi dei calici di vino per la messa… ma tu non celebrerai una messa per i romani».

    «Continua», la invitò Cola mentre il sorriso si spegneva.

    «Quella lastra ha due facce, quella in alto era l’altare per la messa, ma quella in basso nasconde un segreto, qualcosa che la Chiesa ha voluto tenere nascosto per anni, forse per secoli».

    Cola la fissò a occhi stretti.

    «Tu hai aspettato a lungo prima di portarla a Roma, hai voluto che fosse il giorno di Pentecoste perché fu durante questo giorno che le lingue di fuoco caddero sugli apostoli e ciascuno di loro iniziò a parlare una lingua sconosciuta come fanno gli indemoniati… e tu vuoi essere la lingua di fuoco del popolo romano, vorresti conquistare la città senza spada e senza esercito, ma solo con l’uso della parola…».

    Lui si morse le labbra mentre ascoltava la ragazza.

    «…eppure ti contraddici, infatti indossi l’armatura di Michele, l’Arcangelo che in principio fu al fianco di Lucifero e che dopo la sua ribellione lo gettò all’Inferno combattendolo proprio con le armi», continuò la ragazza. «Il fatto che tu ti sia presentato davanti ai tuoi nemici solo con un tuo fedele può significare due cose: che sei pazzo… oppure che conosci il futuro».

    Cola guardò la bocca di lei sorridere e sentì il bisogno di bere del vino che non aveva.

    «Tu da che parte starai?», le domandò.

    «Te l’ho già detto, ho un barone che mi offre protezione».

    «Eppure permette che ti sfondino la porta di casa e ti trascinino fuori!», osservò Cola.

    «Tu sei riuscito a impedirglielo?»

    «No», ammise Cola.

    «Allora che alternativa rappresenti?»

    «Questo è solo l’inizio», rispose lui.

    «L’inizio di cosa?»

    «Di una nuova era dominata dallo Spirito Santo».

    «Non mi sembra un grande inizio», rispose Luna indicando i cavalieri che lo bloccavano.

    «Perché non ne conosci il finale», ribatté Cola. «Io sono il futuro, e loro non potranno fermarmi», disse indicando le armi nemiche.

    «Sei riuscito a impedirglielo?».

    Cola prese a bucherellare la sabbia con la punta della spada, senza staccare lo sguardo dalla ragazza.

    «Questa giornata non si è ancora conclusa», replicò, e non fece in tempo a dirlo che un centinaio di uomini armati avanzò verso di lui superando per numero i cavalieri di Prosco.

    «Chi siete?», domandò cercando di abbracciare con lo sguardo tutte quelle lame sguainate.

    «Siamo il tuo esercito», disse uno di loro.

    Cola corrugò le sopracciglia.

    «In passato tu hai aiutato le nostre famiglie, salvando alcuni di noi da ingiuste condanne a morte… Ora tocca a noi salvare te», concluse il soldato mentre il sole rimbalzava su spade e pugnali.

    La faccia del caporione divenne di un verde acerbo, aveva il labbro superiore imperlato di sudore e provò a balbettare qualcosa ma senza riuscire a emettere alcun suono.

    Cola strinse la spalla del giovane armato, scrutò tutti quegli occhi brillanti che lo fissavano e infine sorrise.

    «Che tutto abbia inizio», disse rivolto ai suoi guerrieri.

    Luna lo scrutò come se avesse di fronte un giocatore d’azzardo, e continuò a seguirlo con lo sguardo mentre quello costringeva gli uomini del caporione a cedere il passo al nuovo esercito.

    4

    L’epigrafe

    La primavera romana tinse il cielo di ogni gradazione, dall’azzurro all’arancione, il profumo delle rose faceva riemergere la malinconia per un passato mai vissuto. Immerso in quest’aria, il colle Campidoglio pareva il gigante Polifemo e dominava l’ampia pianura ascoltando il lento fluire del Tevere. Il manto stradale del Clivo Capitolino era lastricato con sassi bianchi che scoppiettavano al passaggio delle ruote dei carri, assicurando che nessuno potesse attraversare il Campidoglio senza essere sentito.

    La roccaforte del colle era invece l’occhio di Polifemo, e controllava chiunque passasse lungo il Foro in direzione della pianura del Velabro. Ma soprattutto l’occhio del ciclope controllava il Tevere. I ponti di Trastevere rappresentavano le vene di Roma, bastava tagliarne uno per uccidere la città o per mandarne in necrosi un quartiere. Lungo le rive del Tevere erano collocati i mulini per la macinazione, tutto il grano che arrivava a Roma veniva smistato dalle navi che attraccavano nei porti del fiume. Senza quel grano Roma sarebbe morta e con lei tutti i pellegrini.

    I baroni aprivano e chiudevano i rubinetti del sangue che teneva in vita Roma, essendo loro i detentori del grano. Durante i giubilei la popolazione di Roma triplicava e c’era bisogno di molto pane, quindi i baroni aumentavano il prezzo del grano. Questo succedeva anche in primavera quando le scorte erano oramai quasi esaurite.

    «Nell’antica Roma il tribuno Tiberio Gracco provò a togliere la terra ai ricchi per darla ai poveri, ma lo uccisero a bastonate e gettarono il suo cadavere proprio lì», spiegò Cola a Baroncelli indicando il punto del Tevere che stava fissando. Poi tornò al presente: «Era scritto che oggi io sarei salito in alto… Ed eccomi qui, in alto, sul Campidoglio», disse inspirando gli odori del crepuscolo.

    «Oggi erano in pochi e non sono riusciti a fermarci», disse Baroncelli, «ma se Prosco ci attacca in questo momento come ci difenderemo?»

    «Ho detto all’esercito di accorrere qualora sentissero il suono delle campane», rispose Cola.

    «Ancora non ci credo che abbiamo un esercito… È successo esattamente quello che avevi detto…», commentò Baroncelli fissando le torri cittadine che spuntavano dalla notte.

    Lo sguardo di Cola si posò sulla mercatanza. «Domani prima di partire aspetta che si affolli il mercato, confonditi tra la gente».

    Baroncelli annuì senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte buio.

    «Il nostro esercito aumenterà, parlerò durante il mercato… Il popolo è con noi».

    Baroncelli continuò a fissare il buio, «abbiamo uomini armati, non guerrieri».

    «Andrà tutto bene», lo rassicurò Cola. «Devo convincere i romani a bloccare le porte di Roma e gli approdi del Tevere».

    «È come chiedere a un affamato di digiunare», replicò il toscano.

    «Può darsi… Ma a volte il digiuno porta alla perfezione».

    Tra l’erba, fuori dal Campidoglio, Bruzo russava come un moscone, mentre la pancia molle e bianca si gonfiava col suo prato di peli. Era scalzo ma con una coltre callosa sotto il piede talmente spessa da sembrare una suola. Ogni tanto apriva gli occhi, aveva visto dove era stata poggiata la lastra di marmo e lui la teneva d’occhio prima di riaffondare nel suo sonno al vino. Gli ordini sono di tenere sotto controllo Cola e la lastra, questo pensiero lo fece svegliare di soprassalto, e vagò per la notte insieme ai ratti dagli occhi rossi. Se qualcuno mi vede dirò che sto andando a pisciare.

    Ma nessuno di quei volontari sembrava volersi svegliare. Per alcuni di loro poteva essere l’ultima notte prima della battaglia col caporione.

    Bruzo continuò ad avanzare, la pancia lo precedeva di diversi centimetri mentre il respiro affannato sembrava quello di certi mastini. La luce della luna lo aiutò a scansare le gambe e i bastoni da guerra degli uomini rimasti in Campidoglio. Raggiunse una parete alta e priva di decorazioni che portava i segni delle tante modifiche subite. La lastra era poggiata lì. La osservò da vicino: Niente pezzi di oro, disse a se stesso. Forse sulla faccia opposta?, silenziosamente la spostò, qualcuno si agitò nel sonno. Lui sbirciò in fretta. Che cavolo è?, si domandò osservando un’epigrafe che non sapeva leggere.

    5

    Il sogno

    La luce bluastra della luna illuminava una gabbia con dentro un piccione, intorno alla zampa dell’animale era annodato un biglietto.

    Cola si era coricato sul pavimento con indosso l’armatura.

    Baroncelli si agitava nel sonno sfregando la cotta sul pavimento, era abituato a dormire ovunque lo mettessero e non provava mai disorientamento svegliandosi sempre in un luogo diverso, per anni aveva cambiato casa ogni notte. Ogni tanto apriva gli occhi, ascoltava l’oscurità e poi ricadeva nel sonno. Non è ancora iniziato il mercato, pensava tra sé e sé.

    Cola si rigirava sulla dura superficie pavimentale del Campidoglio. Mi presenterò come tribuno, spiegherò ai romani l’epigrafe, ripeteva a se stesso, svelerò il testo inciso sul marmo. Rimase a osservare nel buio i suoi uomini buttati sul pavimento come cadaveri sul campo di battaglia. La lastra può rimanere là fuori, pensò ancora.

    Il piccione batté le ali facendo oscillare la gabbia, il gancio di metallo produsse un cigolio lento e regolare che si diffuse per il palazzo del Campidoglio. L’animale, alla luce della luna, pareva di un blu freddo.

    Cola approfittò di quel pallido raggio per verificare che il messaggio fosse ancora stretto alla zampa dell’uccello, quindi si raggomitolò in posizione fetale e fissò una parete irregolare: Oltre quei mattoni c’è Roma. Sentiva lo stomaco torcersi come uno straccio strizzato. Lo spettro di Venturino da Bergamo gli appariva non appena chiudeva gli occhi, non ne ricordava l’intera figura, ma poteva ancora vedere l’aspetto ossuto e le mani nervose del predicatore. Scacciato dall’Italia come un volgare criminale, pensò, proprio lui che predicava la pace e il ritorno alla vita degli apostoli… Come avrà fatto il papa a farsi convincere che fosse un eretico?. Ma le domande si spegnevano lentamente dietro le palpebre sempre più pesanti. Ripensò all’ultima predica dinanzi a una chiesa vuota, ripensò alla profezia. Forse sono l’unico a conoscerla… Ma i rioni di Roma hanno le orecchie… Chissà se la conosce anche Prosco?, si domandò. Occorre aspettare le sue mosse… Se conosce la profezia agirà di conseguenza per impedirmi di realizzarla… I tempi sono pronti… Oggi ne ho visto i segni.

    Gli tornò in mente la prigione di Avignone nella quale aveva trascorso gli ultimi anni lontano da Roma, in particolare ripensò a un sogno che faceva in carcere: un vescovo che gli consegnava uno specchio capace di evocare forze ancestrali, entità sepolte negli eoni della notte cosmica. Il sogno era ambientato a Verona, in una notte di oscurità impenetrabile e in quel buio il sogno si interrompeva lasciando lo specchio avvolto nell’occulto. Poi pensò al messaggio, e il sogno ancora una volta gli disse di inviarlo a Verona, quindi la città e il piccione si mescolarono in un’immagine sempre più confusa, allora la tensione si sciolse e il corpo di Cola trovò comodo persino il pavimento pietroso.

    "Qualcuno sta aprendo il portone, ora marcia con gambali

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