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Uno sconosciuto accanto a me. Chaos
Uno sconosciuto accanto a me. Chaos
Uno sconosciuto accanto a me. Chaos
E-book491 pagine6 ore

Uno sconosciuto accanto a me. Chaos

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Info su questo ebook

Sei viva, respiri, provi a muoverti, ma non puoi. Sei legata in un letto e non ricordi cosa sia successo.
Cosa proveresti se ti svegliassi imprigionata? Cosa faresti se il tuo carceriere fosse la prima cosa che vedi? Questo è ciò che accade a Lena Morozov, prelevata con la forza dal Settore Zero per portare a termine una missione a lei sconosciuta. Amir Shakib è pura oscurità, è tormento; conosce il dolore, ma non lo sente più. Nessuno meglio di lui è capace di isolare le emozioni, annientare un’anima, sbriciolarla tra le dita e ricostruirla a sua immagine. Così le vite di Lena e Amir si incrociano. Lui è il suo Maestro e lei è la sua allieva. Lei cerca di resistere, lui deve spezzarla. Ma quando Amir riesce a entrarle nella mente, Lena non si aspetta di dover combattere anche contro il desiderio di avvicinarsi al proibito, a colui che distrugge qualunque cosa tocchi. Lena sa che è sbagliato, ma ne è attratta; Amir sa che non deve, ma vuole. Insegnarle a sopravvivere sarà l’obiettivo, tenerla con sé l’unico desiderio.

Un caso editoriale nato dal passaparola

Benvenuti nel Settore Zero

«Uno stile assolutamente strabiliante. L’autrice descrive sensazioni, emozioni e dolore entrando nella mente dei protagonisti e imprimendosi nel cuore dei lettori. Un romanzo che non ti lascia via d’uscita.»

«Passione travolgente, cruda e vera. Ben scritto, pieno di suspense.»

«Già dalla prima pagina il romanzo è talmente coinvolgente e incalzante che non si riesce a fare altro che “sbranarlo” pagina dopo pagina!»

«Un amore nato dal buio più profondo può rammendare quel che resta di un cuore spezzato.»

«Intrigante, sensuale e pieno di colpi di scena.»
Marilena Barbagallo
È nata a Catania nel 1987. Ha studiato danza e recitazione ed è laureata in Economia e gestione delle imprese turistiche. Ha iniziato a scrivere da bambina, quando ha ricevuto in regalo il suo primo diario segreto e, da quel momento, la scrittura è diventata parte della sua vita. Con la Newton Compton ha pubblicato Chaos. Uno sconosciuto accanto a me, Ancora accanto a me e Mai più così vicini.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2018
ISBN9788822719270
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    Anteprima del libro

    Uno sconosciuto accanto a me. Chaos - Marilena Barbagallo

    Parte prima

    IL SETTORE ZERO

    Capitolo 1

    Lena

    Too, too, too, too…

    Una luce. Oddio, una luce accecante. Non vedo niente. Strizzo gli occhi e spingo sul freno. Non funziona. Schiaccio, schiaccio, schiaccio.

    È il faro di un’auto. Non è un faro, sono due. E no, non è una macchina, è un grosso camion. Il clacson mi rompe i timpani, è una tromba, un boato infernale. Si avvicina, è sempre più vicino.

    Stringo forte lo sterzo, mentre il piede è totalmente affondato sul freno.

    Non funziona.

    Non frena.

    Ho perso il controllo dell’auto. Ho perso il controllo… Ho perso.

    C’è luce. C’è buio.

    Too, too, too, too…

    È così buio che sento il nulla nelle ossa. Può essere giunto così in profondità? Sono morta?

    Too-too, too-too, too-too…

    Cos’è questo suono?

    To-to-to-to-to-to…

    Diventa sempre più veloce, più intenso, più invadente, ancora e ancora. Mi fa male tutto. Il bip sembra inchiodarsi negli angoli più reconditi della mia testa. Lo sento dentro, non è più fuori. È in me e si alterna al mio battito cardiaco.

    Il cuore accelera sempre di più e adesso si adatta al bip di quello che sembra essere un macchinario. È ancora tutto buio e non riesco ad aprire gli occhi, non ho l’energia per muovere un dito.

    La macchina sembra andare in tilt. Il suono è martellante, ogni rintocco si sovrappone all’altro, è assordante, è fastidioso, è un incubo.

    Sento la testa muoversi, le guance sfiorare il cuscino come se non ne avessi alcun controllo.

    No, no, no.

    Mi muovo e scuoto il capo, ma è solo uno scatto, non c’è volontà. Non sono impulsi che manda il cervello, sono riflessi involontari del mio corpo, o forse…

    Io mi sto svegliando.

    E poi è di nuovo vita.

    I miei occhi si spalancano come strappati a una morte apparente. Sento le palpebre, le avverto come non le ho mai percepite prima d’ora. Le apro talmente tanto che temo di sputare gli occhi dalle orbite.

    Ed è tutto meravigliosamente bianco e silenzioso.

    Non c’è più fragore e il limpido, lieve e rincuorante suono del fiato che mi fruscia tra le labbra, annuncia che sono viva.

    Mi soffermo ad ascoltarmi: è un suono così naturale, fresco, semplice. La musica dell’aria, la musica naturale dell’esistere.

    Sono viva.

    Il bianco mi ipnotizza. È un soffitto vuoto, fatto di un colore che però mi concede risposte. Non c’è più buio.

    I macchinari si sono totalmente placati, così come il palpitare del mio cuore che sembra accordarsi col mio respiro. È una sensazione rigenerante che non si comprende se non nell’attimo in cui si risorge. È come se fossi stata altrove e mi avessero riconcesso violentemente l’ossigeno.

    Respiro profondamente.

    Raccolgo energie, accumulo forza e quando credo di averne abbastanza per reagire, il battito del mio cuore sembra arrestarsi.

    Non posso muovermi. Non riesco a spostare le braccia. L’insorgere del panico mi fa vacillare, e finalmente percepisco il moto del corpo. È volontario adesso, è cercato, è disperato.

    Sono imprigionata. Sono legata al letto. Chino il capo, il mento batte sul petto, le pupille doloranti cercano il punto esatto in cui sono intrappolata e vedo una cintura di pelle marrone che mi circonda il polso. In base alla mia precaria lucidità, deduco che la cinghia sia fissata alla struttura del letto.

    Guardo anche l’altro braccio e mi rendo conto che gli è stato riservato lo stesso trattamento.

    In un braccio ho un ago immerso nella carne, fissato a un cerotto da cui parte un tubicino che raggiunge un’ampolla di non so cosa.

    Il panico si diffonde nelle vene alla stregua di quel farmaco e l’istinto, la natura del mio essere semplicemente umana, mi spinge a spalancare la bocca per cacciare un urlo muto.

    È meno che un soffio, è un sospiro roco, sgranato, niente più che un lamento innaturale.

    Dio, cosa sta succedendo?

    Gli occhi vagano altrove, il corpo cerca di capire se anche le gambe sono private di movimento, e la triste realtà mi sbatte in faccia la rivelazione che anche le caviglie sono legate sotto il lenzuolo bianco.

    Okay, non c’è più panico ma terrore.

    Forse il mio corpo sta precipitando verso uno stato d’allerta, perché la macchina inizia a ronzare prima lievemente, poi, seguendo il mio status, in un crescendo che non fa che innervosirmi.

    Fisso l’ambiente totalmente asettico, vuoto, privo di tutto. Privo… come la mia libertà, la mia ragione, privo… di qualsiasi cosa. È tutto bianco, ci sono diversi neon alle pareti che sprigionano una luce altrettanto bianca. È tutto troppo accecante, sembra di stare in una scatola la cui funzione è quella di svuotare la mente.

    Deduco che più mi agito, più la macchina dà il meglio di sé e penso che potrei attirare l’attenzione di qualcuno da un momento all’altro.

    Mi sento bene, non credo di essere in pericolo di vita, o forse mi illudo solamente, ma la mia testa che, grazie al cielo, funziona e non pare aver subito danni neurologici, mi ordina di ragionare, di calmarmi e di…

    Sento la maniglia della porta che cigola, la guardo e la vedo abbassarsi lentamente.

    La mente ordina di ragionare, di calmarmi e di…

    La porta si apre, il battente resta semiaperto, qualcuno indugia a entrare.

    La mente ordina di ragionare, di calmarmi e di…

    Vedo due scarponi neri.

    La mente ordina di… fingere.

    Mi immobilizzo e chiudo gli occhi, impegnandomi nella magistrale interpretazione della donna ancora incosciente.

    Respiro cercando di fare meno rumore possibile, so che il mio petto si gonfia e dà spettacolo sotto il lenzuolo, ma dormo, fingo e attendo.

    Acuire il senso dell’udito sembra essere una cosa naturale. Immagino di aver inconsapevolmente affinato la percezione dei sensi. Forse, dormendo, ho imparato a sentire senza ascoltare, a vedere senza guardare, a essere senza esistere.

    Mi concentro. Wow, è incredibile. Riesco a percepire quattro piedi, quindi due persone. Una è una donna, il suo profumo mi giunge alle narici come una ventata improvvisa. L’altro è di certo un uomo perché avevo osservato gli anfibi di pelle nera.

    Tacciono. Mi stanno osservando. Posso immaginarli al mio capezzale mentre mi esaminano con cura e si aspettano dei miglioramenti.

    Continuo a fingere, anche se la tentazione di aprire uno o entrambi gli occhi mi formicola addosso come una smania impellente.

    Respiro e in mezzo al profumo floreale non identificato, riesco a scorgere qualcosa che somiglia a una fragranza maschile. Cerco di concentrarmi su quella. È più delicata dell’altra, meno aggressiva, ma… penetrante. Si impone, timida e sobria, ma si impone. Non devo osare muovermi, non ho idea di cosa mi sia successo, forse mi ritengono in coma, perciò anche un impercettibile movimento del mio corpo darebbe loro motivo di dubitare del mio sonno.

    I tacchi della donna battono più vicini, la immagino avvicinarsi alla mia sinistra. Il profumo di lui lo sento lontano e rimane tale, anzi, forse si allontana sempre di più.

    L’intenso odore floreale copre quello di lui, che preferisco, ma la donna si avvicina e sono costretta a inalare il suo profumo. Adesso sento che si abbassa verso di me.

    Dio, è incredibile, riesco ad avvertire il suo fiato vicino.

    Di colpo non la sento più. All’improvviso non sento più niente. Devono essersi piazzati distanti da me, ma so per certo che sono ancora dentro la stanza.

    Il tacco di lei batte come se stesse aspettando impazientemente che accada il miracolo del secolo, ticchetta a ritmo e poi tac… Schiocca un’ultima volta.

    Mi sembra quasi un ultimatum.

    «È perfetta». Finalmente, a rompere il silenzio è la voce della donna.

    È perfetta?

    Ho quasi un sussulto, ma mi obbligo a respirare con regolarità.

    «Se solo l’avessimo trovata prima…», continua. Vorrei deglutire, ma non posso. Non devo.

    «L’abbiamo trovata, questo è ciò che conta». È lui.

    Quest’ultima frase mi comprime lo stomaco. Non per le parole, ma per l’intonazione, per l’intensità della voce, per la chiarissima inflessione rigida e dura.

    Lei è sicura, ma lui, con cinque parole, ha già dato chiara definizione del suo essere. La mia mente sta disegnando un uomo inflessibile, severo e austero. Dal tono di voce sofisticato e fermo, lo immagino come un uomo maturo. Forse è il dottore, forse è un poliziotto. Di certo è un’autorità. Mi sconcerta captare tali informazioni sulla base del nulla. Che poi non ho alcuna certezza…

    «Non poteva esserci scoperta migliore», continua la donna.

    «Concordo». Una sola parola, altra morsa allo stomaco.

    «Ci avresti mai creduto?»

    «No».

    «Cosa ne pensi?»

    «Non penso».

    «Non essere ridicolo. So che ci hai pensato».

    «Non è affar mio».

    «Lo è». La donna lo incalza impertinente, posso immaginare la sua faccia ostinata e l’irremovibilità di lui.

    «Cosa vorresti insinuare?». Sento un passo, poi un altro. Immagino che lui le stia andando incontro e che lei stia retrocedendo. Non sembrano dottori, cavolo!

    «Io non insinuo, ordino. Sai benissimo cosa devi fare». La donna è sensuale e velenosa allo stesso tempo. Immagino che lui sia un suo sottoposto, a questo punto.

    «Il mio lavoro finisce qui!», sibila rabbioso e avverto i sussulti della donna che quasi geme.

    Forse la sta strattonando, spingendo, stritolando, oddio… Lei inizia a sospirare accennando ardore.

    «Placa la tua furia, sarebbe pericolosa per noi. Lo sai bene».

    «Per tua sfortuna, quei tempi sono finiti. Ora te lo ripeto e non ho alcuna intenzione di ribadirlo ancora, né qui, né in altra sede. Il mio lavoro. Finisce. Qui».

    «Ma guardala!», insiste lei. Parlano di me? Oh, mio Dio.

    «L’ho vista perfettamente».

    «E non hai alcuna voglia di metterle le mani addosso?».

    Non riesco a reprimere un sussulto, ma il fatto che loro continuino a colloquiare tranquillamente mi fa capire che non mi hanno notata.

    «Lascio volentieri il piacere a Teo. È lui che si occupa di questi casi». Io sarei un caso? «Non voglio avere niente a che fare con gli allievi».

    Allievi?

    «Sai benissimo che lei è più di una semplice allieva».

    Sento i passi di lui farsi più vicini. Immagino che mi stia guardando e… non so perché, ma… avverto un calore sulle guance, il mio corpo inizia a sudare. Spero che non si renda conto del rossore sul mio viso.

    «È di più», ammette lui. «Ma io non voglio averci nulla a che fare». La voce ferma, inflessibile, il tono così profondo, maturo, non fanno che aumentare la mia sudorazione.

    «Hai tre mesi».

    «Non esiste!».

    «Potrei concedertene un po’ di più, qualora lo ritenessi opportuno».

    «No».

    «I tuoi toni e le tue risposte negative non ti libereranno dai tuoi obblighi. Non stiamo giocando, non ti sto chiedendo un favore, questo, anzi questa, è il tuo lavoro. Lei è la tua missione. È un ordine, ed è anche la mia ultima parola. Hai tre mesi».

    Il silenzio diventa così lungo che temo mi stiano fissando scrupolosamente. Spero che invece si stiano studiando a vicenda.

    Io sono un lavoro? Un caso? Un’allieva? Che diavolo stanno dicendo? E perché sono legata? Non è un ospedale questo? Non sono medici? Chi sono?

    «Tre mesi sono troppo pochi». La voce di lui rompe il silenzio. «È impossibile. Affidala a Teo. Lui è specializzato in…».

    «Io voglio te». Lei, sensuale, sembra fargli un certo effetto. Sembra calmarlo, mutarlo.

    Poco dopo lo sento sospirare.

    «Non mi toccare!», le dice piano, come se immaginasse che io possa sentirlo. «Togli subito la mano», ora lo dice più forte. La tentazione di scoprire dove la donna abbia posato la mano, è così potente che strizzo gli occhi, dimenticando per un attimo di dover restare immobile.

    «Tu sei l’unico in grado di cambiarla in così poco tempo».

    «Non ce la farà. Lei non è come me».

    «Tu eri già predisposto. Ti eri già annullato. Eri un meraviglioso foglio bianco da riempire. Fai in modo che lei sia come te».

    Silenzio.

    «Svuotala!», ancora lei. Credo di odiarla. «Svuotala e riempila come solo tu sai fare».

    «E se non dovessi riuscirci?».

    «Non ammettiamo fallimenti. Guardala da questo punto di vista: o la svuoti, o la svuoti».

    Ancora silenzio. Lungo e penetrante silenzio.

    «Sarà fatto». Ha ceduto.

    E a quel punto non riesco più a frenarmi. Le mie labbra tremano, le ciglia si separano e le palpebre si muovono. Il petto si alza troppo e le dita scattano in un movimento involontario.

    Sarà fatto.

    Non conosco quest’uomo, ma il modo in cui ha pronunciato la sua promessa, mi ha lasciato addosso la percezione della fine.

    La mia fine.

    «Oh, guardala, si sta svegliando», cinguetta la donna. «Vi lascio alle vostre presentazioni. Non deludermi». I tacchi si muovono verso la porta. «Ma tu non potresti mai deludermi», conclude maliziosa.

    Mi sento libera di piangere e avverto le lacrime spingersi oltre. Deglutisco e, lentamente, apro gli occhi.

    La sua sagoma scura ostruisce la luce del neon alle sue spalle, rendendolo quasi un’ombra nera dai contorni luminosi. Sembra una sorta di demone privo di ali, uno schizzo nero su una tela bianca, ma contornato da linee precise.

    Non riesco immediatamente a distinguere i tratti del suo viso, ma vedo con chiarezza il contorno della testa, i capelli un po’ lunghi che gli ricadono dietro la nuca, le spalle ampie e la linea slanciata del suo corpo avvolto in un trench di pelle nero.

    Il cappotto è lungo, così lungo che non riesco a vedere dove finisca oltre il bordo del letto. Rialzo le palpebre, rendendomi conto di quanto sia alto, e mi soffermo sul suo viso.

    Lui è l’unico colore presente in questo ammasso di vuoto bianco, ed è tutto nero, come se portasse con sé un presagio oscuro.

    Poi si muove e sono costretta a strizzare le palpebre per via della luce improvvisa del neon che ha liberato spostandosi. Istintivamente faccio scattare le braccia senza successo, sono ancora legate e inizio a sentire la pelle bruciare a ogni movimento.

    Gli occhi di lui fissano le cinghie. Non ho ancora osservato la sfumatura che li anima, provo uno strano senso di imbarazzo che mi impedisce di proiettare lo sguardo verso il suo.

    Fino a quando era una sorta d’ombra, riuscivo a posare le mie attenzioni su di lui, ma ora che la luce lo illumina per bene, è come se dovessi rivolgermi a una verità che non intendo apprendere.

    Non è un uomo maturo come lo avevo immaginato. È giovane, alto, con le spalle larghe e la vita che immagino stretta, sagomata in quel cappotto stile Matrix.

    In me si fa largo una nuova voce, sembra essere una sfumatura diversa della mia coscienza. Ha il tono del sospetto, ma anche del coraggio e mi sussurra di non temere, di non mostrare che, in realtà, mi sento così debole da provare dolore.

    Decido di assecondare l’impulso della coscienza, quella nota valorosa di una me che pretende spiegazioni e faccio, forse, un grande errore.

    Lo guardo.

    Mi sorprende notare come lui non si scomponga minimamente. È irremovibile. Se adesso ci investisse un tornado, lui non si sposterebbe di un millimetro.

    È ai piedi del mio letto, sul lato destro, i neon alle sue spalle continuano a illuminare il nero di cui è ricoperto. Ha le gambe un po’ aperte, ben piantate sul pavimento, le mani strette davanti, la mascella contratta e il mento leggermente sollevato in alto.

    Mi sta parlando.

    Lui sta comunicando con i gesti. Devi temermi, sembra dire.

    E lo temo. Lo temono i miei occhi che si incantano sulle labbra serrate e carnose, poi sull’accenno di barba scura, fino a quando, con mia sorpresa, si fissano sui suoi occhi e mi sento un po’ più forte.

    Ricordo il suo volto.

    Era stato un attimo, in quel trambusto ci eravamo guardati, ma io non ero stata in grado di indicare il colpevole che aveva tamponato quell’auto. Mi ero immobilizzata.

    Uno scatto nervoso gli smuove una palpebra. Indugio su quegli occhi scuri che in realtà possiedono un verde foresta che ricorda distese e praterie, ma scure. Prati notturni e invernali su cui non batte il sole. Ha uno sguardo oscuro. È come se ci fosse una nuvola grigia a velare i suoi colori. La nube lo rende di un verde… spento.

    Mi appare come tenebra.

    Lui serra di più la mascella, immagino che stia stringendo i denti per la rabbia. Rabbia di cosa? Strizza un po’ gli occhi, mi studia. Tace, non accenna alcun movimento ma sta conversando con me, come, non ne ho idea.

    Immagino che i miei movimenti diventino le risposte ai suoi. Se lui si irrigidisce, io dovrei contrarmi in risposta? Non lo so, ma sento che non riesco a togliere gli occhi da quel verde che sembra spegnersi sempre di più.

    E allora decido di comunicare. Scelgo di creare un moto non fisico, ma interiore.

    Schiudo le labbra, sospiro, sto cercando di calmarmi. Se lui si irrigidisce, io mi rilasso.

    Devi temermi.

    Io non ti temo.

    E adesso non lo guardo più, adesso lo colpisco. Proprio quando stabiliamo una strana connessione, entrambi, intuiamo che ci siamo appena presentati.

    «Bentornata tra noi, Lena Morozov». Fa un passo verso di me. «Il mio nome è Amir Shakib».

    «Chi sei?»

    «Il tuo Maestro».

    Capitolo 2

    Amir

    Mi guarda con quella faccia da cane bastonato, un po’ implorante, ma pronta a mordere. Sono sicuro che la sua sia tutta una finzione. Quelle come lei, delicate e pure all’apparenza, celano un’indole ipocrita, ingannevole, cospiratrice, calcolatrice e… pericolosa.

    Lena Morozov appartiene alla categoria di femmine da cui stare alla larga per molteplici motivi. Primo fra tutti: avermi appena mostrato di riuscire a comunicare senza dire alcuna parola.

    Pessima l’idea di imporsi nel silenzio, almeno con me, che di silenzi vivo. Se c’è qualcuno che sa dominare il silenzio, quello sono io. La presunzione nel mio caso è una dote, visto che avere a che fare quotidianamente con chi crede di essere più tracotante di me, mi costringe a essere il re degli spocchiosi. E Lena Morozov ha osato, diciamo meglio tentato, imporre la sua superbia.

    Faccio un passo avanti, ritenendo eccitante questa sorta di conoscenza muta. Parlare non sembra essere necessario: la signorina, come ho già detto e appurato, è capace di comunicare senza dar suono alle sue intenzioni che, adesso, sono quelle di dimostrare di non aver paura.

    Mi sfugge un impalpabile sorriso, perché alla parola Maestro, accompagnata dalla mia posa, Lena Morozov ha sussultato.

    Cedere è ciò che imparerà a fare. Cedere sarà l’unico modo per non soccombere alla follia.

    La vedo serrare i denti e i pugni. La visione dei polsi ancora stretti nelle cinghie marroni soddisfa la mia tempra sadica. E dire che ho cercato di essere meno invasivo possibile. Avrei operato un gradevole intreccio anche attorno al suo collo chiaro, giusto per intravedere seducenti lividi violacei.

    Lei aggrotta la fronte, ma non è confusa, è urtata, motivo per cui insisto in un silenzio sgradevole. Per lei, però. Io amo i silenzi.

    Ma, contravvenendo alla mia passione per il nulla sonoro, mi butto in una raffica di parole, giusto per dimostrarle quanto insignificante possa essere la sua presenza. Per me.

    «Deve essere alquanto interessante precipitare nel pozzo di una morte provvisoria e risorgere come sottratti da ciò che è più simile a una pace terrena».

    Lei spalanca gli occhi, io continuo. Le voglio fottere il cervello.

    «Dormire con incoscienza non deve essere del tutto traumatico. La ritengo una sorta di pausa ultraterrena. Un’esistenza in bilico tra l’esserci e il non esserci. Stare e non restare. Respirare, ma non percepire alcun reale odore». Mi scappa un sorrisetto.

    «È una condizione estremamente interessante», proseguo. «Molti dicono di vederci il paradiso».

    Lei mi osserva come se stessi parlando in aramaico, io mi compiaccio di vederla sempre più confusa.

    «È un vero peccato essere coccolati da un crudele Morfeo e poi venire risbattuti nella triste realtà». Mi lascia parlare, non mi interrompe. Bene. Dunque continuo.

    «Rimpiangerai questi giorni di quiete, perché so che sei stata nella pace. Ti ho osservata, ho monitorato ogni tua espressione. Non direi che non c’eri, non direi nemmeno che non percepivi nulla. Ho avuto la vaga sensazione che stessi addirittura sorridendo».

    Aggrotta di nuovo la fronte e mi incanto nel broncio delle sue labbra, riprendendo il mio monologo.

    «Bada bene che le tue non erano le solite false smorfie che riservi a quelle donne che chiami amiche, le tue erano… espressioni serene. Ho anche immaginato che la tua sfortunata condizione ti stesse piacevolmente coccolando. In verità, Lena, non hai trovato esaltante non avere a che fare con nulla di esterno?».

    Fa per rispondere, ma la freno subito.

    «Essere soli, nel bianco o nel nero, è pur sempre una sensazione di serenità. Anche se ammetto che non tutti gli esseri bramano vivere con se stessi. Ho avuto modo di appurare che sei una creatura solitaria, che si nutre di silenzi, aneli l’isolamento come scudo protettivo. Pensi che restare sola con te stessa sia l’unica alternativa a un’esistenza sicura. Peccato. Adesso avrai a che fare con altro, con me, per l’esattezza. È un pensiero che ti turba? Rispondi, Lena».

    Lei accenna a rispondere e io mi diverto a fermarla, senza darle modo di ribattere.

    «Ah, prima che tu possa aprir bocca e infastidirmi, perché so per certo che lo farai, è bene anticiparti che non devi mai più, ripeto, mai più, guardarmi in quel modo».

    «In quale modo?»

    «Sai perfettamente a cosa mi riferisco. Non sono un uomo superficiale e assorbo tutto. Abbiamo comunicato in silenzio. Non sono solito parlare in quel modo alquanto strano, ma, a volte, senza dire, si pronunciano una moltitudine di parole che hanno effetti contrapposti. Nel nostro caso, ragazzina, le tue chiacchiere non dette mi hanno profondamente infastidito». Il mio sguardo di rimprovero sembra immobilizzarla.

    «Non farlo mai più», scandisco le parole. «Osa ancora andare oltre uno sguardo, tenta un’altra volta di invadermi in qualche modo, e io, da Maestro, divento Incubo».

    «C-cosa ho fatto? Io non capisco… Io…».

    «E non balbettare! Non si addice a quelle come te».

    «Quelle come me?».

    «Non ammetto alcuna esitazione, né insicurezza di qualsiasi tipo. Devi essere ricettiva, pronta, sicura, rapida e giusta».

    «Giusta?»

    «Il giusto non è sempre oggettivo. Capirai che ciò che è giusto per noi, lo è solo perché deve esserlo. Non ci sono punti di vista, né prospettive diverse da quelle concesse».

    «Cosa stai dicendo, non cap…».

    «E non interrompermi. Credevo fossi più disciplinata».

    «Disciplinata?»

    «Non intendo educarti come si fa con i bambini. Mi limiterò a fare ciò che devo, se non obbedisci sono cazzi tuoi e ti assicuro che potrebbero essere cazzi amari».

    «Mi stai confondendo. Non ho capito niente. A cosa ti riferivi prima, quando dicevi che non devo guardarti…».

    «Non devi farlo. Considerala una sorta di sottomissione momentanea. Non ti permetto di arrivare dove nemmeno io intendo giungere. Fatti bastare le mie parole. Per il momento, mi rendo conto che essere in un certo senso morbido aiuti a instaurare una sottospecie di rapporto, ma ti garantisco che io e te non condivideremo nulla più che il semplice obiettivo prestabilito».

    «Che sarebbe?», domanda strattonandosi i polsi legati.

    «Una delle tante regole che ti obbligherò a seguire è: non permetterti di fare domande». Mi avvicino. «Non esprimere pareri non richiesti». Mi avvicino ancora e lei si ritrae sul letto. «In poche parole, non rompermi il cazzo». Mi fermo, perché non posso andare oltre.

    «Sto cercando di essere professionale, meno aggressivo possibile, più… umano. E ti assicuro che non è nelle mie corde».

    Torno sui miei passi e riprendo le distanze.

    «Imparerai ad apprezzare i miei metodi».

    «Metodi?», chiede a voce troppo alta.

    «Ancora? Interrompere è maleducazione».

    «Stiamo parlando. In una conversazione si parla in due. Tu stai facendo dei monologhi».

    «E sei anche impertinente. Lo sai cos’hai appena fatto?»

    «Sto solo esprimendo…».

    «…la tua opinione».

    «E non mi è concesso?»

    «L’ho già puntualizzato. Le risposte a tono non mi piacciono. A me servono solo occhi, orecchie e obbedienza».

    «Occhi non direi, visto che non vuoi che ti guardi».

    «Stai ancora rispondendo».

    «E cosa dovrei fare? Stare zitta e annuire?»

    «Esattamente».

    «Non sono quel genere di donna».

    «Infatti sono qui per insegnarti l’obbedienza e la disciplina».

    «Vuoi manipolarmi».

    «Sei anche perspicace. Giungi alle conclusioni con più velocità del resto degli allievi».

    «Allievi di cosa?»

    «Ancora domande? Devi solo ascoltare, apprendere e obbedire».

    «Scusami tanto se tento di capirci qualcosa. Mi risveglio piena di dolori, in un posto sconosciuto, con persone sconosciute e, cosa ben più grave, mi ritrovo legata in un letto come se fossi stata sbattuta in un manicomio. Adesso, Am…, come diavolo ti chiami, pretendo di sapere cosa ci faccio qui, chi sei tu e soprattutto perché mi tenete così». Tira le cinghie senza smettere di dar fiato alla bocca. «Non intendo continuare questa farsa, né stare a sentire le tue assurdità e…».

    «Qualcuno ti ha mai informata del fatto che il tuo tono di voce produce mal di testa nei tuoi interlocutori?».

    Mi avvicino di nuovo, rimanendo a una distanza cautelativa. Non che lei possa fare molto, ma io potrei e sto già accumulando tensione da un bel po’. La tentazione di metterle un bavaglio sulle labbra è così pressante che la sento formicolarmi addosso.

    Stranamente, la visione si innesca nel mio cervello. Lei imbavagliata, io che sono… il suo Maestro.

    Lentamente, mi accomodo sul ciglio del letto. I suoi occhi multicolore scivolano sul punto in cui il materasso si piega. Con un’occhiata calcolo la nostra distanza: tre dita separano la mia pelle dalla sua. A tre dita dalla mia mano c’è il suo medio. Sarebbe interessante verificare l’effetto di un mio contatto su di lei.

    «Chi sei?», insiste. Non ha capito assolutamente nulla. Le domande non sono una sua prerogativa.

    Come spiegarlo?

    «Cosa vuoi da me? Perché sono qui?».

    Il mio petto si riempie di aria.

    Spero di rimuovere questo sentore di impazienza. Diciamo che lo reputo un’intolleranza, tipo quelle alimentari. Tipo un’orticaria. Vedremo se darà prurito.

    Furtivamente, allungo la mano verso la sua e… Sì, il prurito c’è, ma per lei che sussulta e strattona il polso legato.

    «Slegami!», urla.

    «Mi stai dando un ordine?».

    Nella sua richiesta manca un per favore e anche l’intonazione che pretendo.

    «Fallo!».

    Stringo gli occhi e la fisso, il mio busto si inclina verso di lei senza che possa controllarmi.

    «Forse non ci siamo capiti», sibilo. «Ricominciamo».

    «Forse non sei capace di spiegarti».

    «O forse voglio solo rendere meno spaventosa la tua nuova esistenza. Dovresti ringraziarmi per aver scelto di intraprendere una conoscenza pacifica con te».

    «Pacifica? Sono legata a un letto!», strilla.

    «E continuerai a restarci se non la smetti di infastidirmi», urlo a mia volta.

    «Ma io non… non sto facendo proprio niente di male. Dio… è tutto così assurdo!». Chiude gli occhi, lo fa solo per qualche secondo e io attendo che li riapra. Attendo come se stessi aspettando di vedere l’alba. Mi sembra che scorra un’eternità prima che quell’inusuale multicolore si affacci dalle palpebre.

    Mi ritraggo, forse intimorito, forse irritato, forse… incazzato con me stesso.

    «Dammi una spiegazione sensata», sussurra e il tono della sua voce soddisfa ancora l’area sadica del mio mondo interiore. È supplichevole, è implorante, e io voglio che diventi sottomessa.

    Non volevo accettare l’incarico, ma credo che ci sarà da divertirsi. Lena Morozov mi incuriosisce parecchio.

    Sospiro e mi irrigidisco. Valuto le parole da pronunciare e mi rendo conto che aspiro a trovare le migliori. Non sono solito interessarmi a queste stronzate, ma questa Lena Morozov mi stimola a tal punto che intendo seriamente terrorizzarla.

    «Ascoltami bene», la fisso. «Solo quando smetterai di essere, diventerai il perfetto ritratto di ciò che io disegnerò per te. Osa controbattere e ti mostro qui, adesso, le conseguenze del mal di testa che mi hai fatto venire. Non sempre il dolore genera altro dolore, Lena. Imparerai che dal dolore si può giungere all’annullamento di se stessi, e scoprirai che non è poi una condizione tanto inaccettabile. Allora, forse, un giorno mi ringrazierai». Lei sembra scioccata, ma poi si esprime con sicurezza.

    «O ti annullerò io».

    «Annullare qualcosa che non esiste più? Prima dovresti riuscire a riportarmi indietro».

    «Da dove?».

    «Scoprirai che qui tutto si perde, viene soppresso e non resta che accettare quello spiraglio isolato, quel piccolo barlume che noi umani chiamiamo istinto di sopravvivenza».

    «Stai dicendo che, se non mi piego, voi…».

    «Non ammettiamo fallimenti. È una regola».

    «E lo faresti tu stesso?».

    «Ti stai già proiettando nel momento della tua dipartita?»

    «No, vorrei solo capire».

    «Limitati a comprendere quello che io ti insegnerò; poi, forse, ti concederò il privilegio di attingere a informazioni di livello superiore».

    «Okay, allora…», abbassa gli occhi e si morde le labbra, poi mi guarda e mi sento come se mi avesse sorpreso a spiare qualcosa di intimo. «Facciamo così Am…».

    «Amir».

    «Amir. Se mi sleghi farò tutto ciò che vorrai. Ascolterò e resterò in silenzio fino a quando non avrai finito».

    Ma con chi crede di avere a che fare?

    «Ma certo», l’assecondo. Lena Morozov è davvero una cretina. È del tutto ovvio che appena le toglierò le cinghie lei cercherà di darsela a gambe. La notizia è che io non vedo l’ora. «Ti libererò e tu seguirai le mie direttive». Le parlo come se fosse una decerebrata. «Lo farai, Lena?»

    «Lo farò».

    Ma che bugiarda.

    Spero tanto che la sua fuga inneschi qualcosa di violento, così che io possa darle un assaggio di ciò che sono.

    «Bene». Le regalo un sorriso falso, così falso che stento a credere di averlo fatto. Lei annuisce. È più falsa di me.

    Il fatto che abbia la minima speranza di potermi fottere, la pone nella posizione di colei che sta per essere fottuta. Non so se l’ho già detto, ma non vedo l’ora.

    Mi alzo e mi tolgo il giaccone di pelle, appoggiandolo sulla sbarra del letto. Credo che sarà necessaria una certa mobilità. Gli occhi pudichi di Lena Morozov si schiantano sui miei bicipiti. Li contraggo, giusto per impressionarla, ma lei finge di essere immune al mio corpo, fino a quando si tradisce ancora percorrendomi con lo sguardo il petto e poi il punto vita.

    Avanzo lento, solo per gustarmi la speranza che le balena negli occhi, la speranza di riuscire a sfuggirmi. Vorrei esplodere in una risata derisoria, ma recitare si sta rivelando il preludio di un godimento imminente.

    Senza togliere gli occhi dai suoi, cosa che fa anche lei, inizio ad allentare la cinta dal suo polso destro.

    Il sospiro che le sfugge, una volta liberata, è un misto tra il dolore e il sollievo.

    Nell’intravedere i lividi attorno al polso, sento un impulso tra le gambe. Quei segni le stanno bene, la rendono… invitante. Prima di svincolarle l’altro polso, reputo più opportuno sganciare le cinghie delle caviglie, così, con un gesto secco, sposto il lenzuolo bianco. Lei sospira sorpresa di notare le gambe nude e la maglietta bianca extralarge il cui bordo le copre a stento l’inguine.

    «Siamo pudiche?», la punzecchio, notando un delizioso rossore invaderle le guance.

    Deglutisce e serra la mascella. Non lo ammetterà. È chiaro che è una donna orgogliosa.

    «Per niente».

    Come volevasi dimostrare.

    Vorrebbe sprofondare negli abissi della vergogna, invece tenta di non darmi alcuna soddisfazione.

    Bene. I giochi saranno divertenti.

    Le slaccio la prima cinta e lei ritira la gamba, piegando il ginocchio e strofinandolo con la mano libera.

    Il gesto provoca uno spostamento della sua maglia e adesso la biancheria intima in bella vista mi fa scappare un mezzo sorrisetto.

    «Eh sì», infierisco, «siamo pudiche». Le sue guance sono un fuoco. Quasi vorrei saggiarne il calore.

    «Fa’ presto!», sbotta.

    «Cerca di essere più educata con me». Il mio tono stavolta è serio. «Pretendo disciplina, o ti farò diventare una donna a modo con metodi estremi. Ti sto liberando, dovresti ringraziarmi».

    Sembra sconvolta per le mie parole. Non capisco cosa possa turbarla tanto.

    L’hai solo prelevata contro la sua volontà dalla sua insulsa esistenza.

    Imbronciata, volta la testa dall’altra parte, precisamente verso il tubo di plastica che ha attaccato al braccio.

    Banale e prevedibile. Ci sarà da lavorare con lei in fatto di originalità.

    Immagino che starà escogitando un modo per utilizzare l’ago come arma. Devo aspettarmi che tenti di infilzarmelo contro. Peccato per lei che io abbia la carne così dura da rompere qualsiasi cosa mi caschi addosso.

    «Io non posso spezzarmi», l’avviso.

    «C-cosa?». Finge di non aver capito, ma è chiaro che è sconcertata per il fatto che abbia letto le sue intenzioni.

    «Ecco fatto», dico invece, liberando anche l’altra caviglia.

    Lena si siede al bordo del letto e dandomi le spalle, resta in attesa

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