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Fluffers/CdM
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E-book193 pagine2 ore

Fluffers/CdM

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Info su questo ebook

Sette storie brevi, tra circoli di lotta tra carlini mannari, pessimi coinquilini, diete alternative, primi halloween, storie narrate in cinema deserti e rospi domestici. In appendice, un'anteprima della seconda stagione di Zeitgeist Hotel.
LinguaItaliano
EditoreReda Wahbi
Data di uscita17 mag 2016
ISBN9786050440478
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    Anteprima del libro

    Fluffers/CdM - Reda Wahbi

    109

    FLUFFERS

    I

    Stessa giornata, stessa strada. Ormai, era diventato il mio mantra quotidiano.

    Erano le quattro parole che mi fluttuavano in testa quando guidavo assonnato fino all'ufficio. Erano le quattro parole che si depositavano sul fondo del mio cervello quando tra una pausa e l'altra ordinavo il solito caffè equo-solidale e i miei croissant vegani ai cinque cereali. Erano quelle che sulla strada del ritorno, incastrato nel traffico della sera, mi restavano appiccicate in fondo alla gola e lottavano per uscire.

    Non che stia qui a lamentarmi, figurarsi. La mia vita fino adesso è... no, non direi fantastica, ma ero arrivato alla conclusione che avevo bisogno una nuova vittoria o di una piccola tragedia che scuotesse le fondamenta della mia giornata. Dopo ore di ipotesi e pianificazioni (licenziarsi e mettersi a produrre birra artigianale? Aprire un bar? Sposarmi? Aprire un blog?), decisi che evitare la tangenziale e prendere una strada alternativa per tornare a casa poteva rivelarsi un piano più che soddisfacente. In quel particolare momento della mia vita, una piccola deviazione mi regalava l'illusione di aver terminato la mia giornata in una maniera più fresca, diversa.

    Uscì pimpante dall'ufficio, salì in macchina e, appena chiusa la portiera, mi ricordai di una piccola stradina di campagna che si apriva un paio di chilometri prima dell'entrata della tangenziale. Quello sarebbe stato l'inizio ideale della mia piccola avventura.

    A circa cinquecento metri dalla mia scorciatoia cominciai a titubare. Era dicembre e il sole cominciava a tramontare già alle quattro del pomeriggio. Non mi sentivo più troppo sicuro a fare una stradina sconosciuta al buio. Forse non era illuminata, o peggio, avrei potuto bucare una ruota e trovarmi incastrato lì, in mezzo al nulla. Cercai di scrollarmi di dosso quello e altri pensieri dalla testa, misi la freccia e svoltai.

    Tutto andò esattamente come temuto.

    Chilometro dopo chilometro, la fila di lampioni si fece pian piano sempre più rada, fino ad abbandonarmi completamente nel buio. Poi la strada cominciò a stringersi, lasciando spazio appena sufficiente per una macchina. Ai lati, due fossati profondi e stretti separavano l'asfalto dai vasti campi d'erba ricoperti di brina.

    Il buio si diradava lentamente come una nebbia, spazzato via dalla luce dei fari, concedendomi brevissime porzioni di tempo per prepararmi alle varie curve e tornanti.

    La feci tutta ai trenta all'ora, con entrambe le mani strette sul volante e la testa allungata in avanti, come se sporgendomi appena potesse permettermi di vedere attraverso il nulla.

    Il cellulare squillò. Lo tirai fuori dalla tasca, con la calma e la cautela che s'addice a un artificiere, lo collegai al kit bluetooth per il viva voce e, con gli occhi ben fissi sulla strada, risposi alla chiamata.

    «Pronto, Ciuffo?» Giovanna, la mia ragazza. «Stai tornando?»

    «Dieci minuti. Ho preso una piccola scorciatoia,» dissi con un ghigno idiota sulla faccia.

    «Va bene, ok, non posso più aspettare. Guarda qui.»

    «Sto guidando.»

    «Va bene, allora sarà per quando torni,» disse facendo la vaga. Cercò di restare in silenzio, ma potevo sentirla sghignazzare sommessamente attraverso le casse, probabilmente tenendo l'indice piegato sulle labbra come faceva di solito.

    «Va bene, cos'è?»

    «Ma no, è una stronzata.»

    «Fa ridere?»

    «Un po'.»

    «Un po' quanto?»

    «Un po' tanto.»

    «È un carlino?» chiesi sospirando.

    Rimase in silenzio.

    «Ok, questa cosa ti sta sfuggendo di mano.»

    «Non è vero!»

    «Sì, invece. Hai un problema.»

    «Mi piacciono! E poi piacciono anche a te!»

    È vero, piacciono anche a me. Sono buffi, è innegabile, ma cercavo di conservare quel poco di mascolinità rimasta fingendo repulsione verso qualunque cosa fosse minimamente carina o tenera.

    «D'accordo, son carini, ma non al punto di farci quello che ci faresti tu,» dissi, «tipo vestirlo da pompiere, mettergli la pipa, gli occhiali...»

    «Perché no?»

    «Perché, tecnicamente, è tortura, ecco perché. Non lo faresti mai con una persona, o sbaglio?»

    «Be'...»

    «Anzi, no. Non rispondermi. Concedimi il beneficio del dubbio.»

    «Guarda che a loro piace! Ce l'hanno sempre quella faccia.»

    «Sì, quella tipo ''ti prego, uccidimi'' o altre cose del genere.»

    Restammo in silenzio per qualche secondo.

    «Ok, senti, tra cinque minuti sono a casa, ok?» dissi ricordandomi di dove mi trovavo.

    «Va bene.»

    Il telefono vibrò e fece un blip per informarmi dell'allegato che mi aveva appena inviato Giovanna.

    «Io te lo lascio lì» disse, «poi decidi tu cosa farne.»

    «Affare fatto. Bacio.»

    «Bacio.»

    La tentazione era forte. Se avete amici o conoscenti che come me lavorano nel settore pubblicitario, capirete quanto possano essere frustranti certe giornate. Certe volte, può bastare la foto di un cane buffo per salvarti la serata.

    Rimisi gli occhi sulla strada, sforzandomi di scacciare il desiderio di vedere il video.

    «Quanto vuoi che duri? Trenta secondi?» pensai.

    Allentai il piede dall'acceleratore e rallentai di un'altra decina di chilometri. Allungai una mano verso il telefono e schiacciai il display, selezionando l'allegato. Rimasi in attesa, facendo scattare gli occhi tra la strada e lo schermo del telefono, poi il filmato partì.

    C'erano un carlino e un bulldog francese dal pelo nero seduti ai due lati di una scacchiera. Erano a partita avanzata: alcuni pezzi erano posizionati al centro e alcune pedine erano già state mangiate. I due cani restavano a guardarsi, confusi, intanto che il padrone sghignazzava facendo tremare il telefono.

    Il bulldog francese fece sporgere il muso in avanti e mosse una pedina, spingendola col naso. Il carlino strabuzzò gli occhi e cominciò ad abbaiare, agitandosi convulso sulla sedia. Prese a tremare e a battere la coda sul sedile, dondolando. Guardò ancora una volta la scacchiera, indispettito, e cominciò a ringhiare.

    Il bulldog rispose alle provocazioni e cominciarono ad abbaiarsi addosso, l'uno contro l'altro. Il carlino fece ricadere le zampe anteriori sulla scacchiera, rovesciando i pezzi sul tavolino e sul pavimento. Poi saltò giù, stizzito, lasciando il bulldog a guardare l'obiettivo perplesso, come se chiedesse al padrone cosa avesse fatto di male per farlo arrabbiare tanto.

    Non era niente di speciale. L'esperienza sviluppata dopo visioni su visioni di filmati con carlini mi diceva che ce n'erano di migliori, ma, nonostante tutto, risi, alimentato dallo stress della giornata e dalla tensione accumulatasi guidando incerto nel buio.

    Continuai a ridere e ad asciugarmi le lacrime, finché le ruote anteriori non fecero un piccolo balzo, seguito da un acuto squittio di dolore.

    Quando frenai, lo squittio si ridusse a un lamento debole, lungo e strascicato che andò spegnandosi come una batteria scarica.

    Rimasi immobile a guardare il buio con gli occhi sbarrati per il terrore. Poi guardai lo specchietto retrovisore. Stesa in mezzo alla strada c'era una piccola massa, chiara e pelosa, debolmente illuminata dalla luce rossa dei fanalini posteriori.

    La fissai a lungo, finché non la vidi gonfiarsi e sgonfiarsi come se stesse respirando.

    Spensi il motore, presi il cellulare e aprì il vano portaoggetti. Decisi di armarmi di una spessa custodia per occhiali da sole per difendermi nel caso la massa avesse in mente di attaccarmi. Presi coraggio e scesi dalla macchina.

    Avvicinandomi, notai che quella cosa stava effettivamente respirando o almeno, ci provava. Ogni rigonfiamento era seguito da un grugnito roco e strisciante.

    Appena capì cosa avessi appena investito, la custodia mi scivolò dalle mani e la disperazione prese il sopravvento.

    Avevo appena investito un carlino.

    Il segno nero del pneumatico gli era rimasto impresso sul pelo chiaro e morbido. Rantolava, con la lingua a penzoloni appoggiata sull'asfalto. Gli occhietti neri guardavano dritti nel buio, colmi di dolore e paura. Quando i suoi occhi incrociarono i miei, mi tirai indietro e cominciai a guardarmi intorno, in cerca di non so cosa.

    La prima cosa a cui pensai in quel momento fu che Giovanna non avrebbe mai dovuto saperlo. Sarebbe stata capace di lasciarmi se avesse saputo che avevo appena ucciso un esemplare della sua razza canina preferita. Probabilmente, mi avrebbe lasciato se avesse saputo che ero scappato dopo investito qualunque cane, in generale. «È colpa sua» pensai, «è colpa dei suoi filmati del cazzo se l'ho investito. È colpa sua se è successo questo.»

    M'inginocchiai vicino a lui e gli posai una mano sulle costole. Cominciò a piangere, disperato, e io con lui. Arrancai scuse su scuse, spiegandogli che non era colpa mia, che era stato tutto un incidente, uno stupido incidente. Gli accarezzai la testolina e gli passai una mano sul muso. In quel momento il carlino scattò e mi morse nello spazio tra il pollice e l'indice.

    La vergogna e il rimpianto svanirono in un'istante. Scattai in piedi, gli mollai un calcio e urlai:

    «Carlino del cazzo!»

    Presi a girare in cerchio, tenendomi stretta la mano ferita. Stavo gridando altri insulti diretti alla carcassa del cane quando sentì qualcosa urlare in mezzo all'erba.

    «Fluffers! Oh mio dio, Fluffers! No! No!»

    Da lontano, nel buio, riuscì a distinguere solo il suo maglione rosso. Poi notai i capelli lunghi e bianchi, la barba folta, brizzolata e lo scintillio dei suoi occhiali piccoli e tondi. Solo quando arrivò a un paio di metri da me riuscì a notare il fucile da caccia che stringeva tra le mani.

    Scattai in piedi e indietreggiai, tenendo le mani tese in avanti per proteggermi. Iniziai a farfugliare:

    «Non l'ho fatto a posta! Non volevo, non l'ho neanche...»

    Il vecchio mi passò di fianco e m'ignorò. Gettò il fucile a terra e si lanciò disperato sul corpo del povero Fluffers. Rimase a guardarlo, incredulo, con la bocca spalancata e le mani tese sopra il suo corpicino, come temendo di toccarlo e danneggiarlo.

    Poi le sue mani smisero di tremare. La fronte e le guance si riempirono di rughe e le lacrime cominciarono a sgorgargli copiose dagli occhi, bagnandoli la barba.

    «Qualcosa,» cominciai a dire, «qualcosa mi ha tagliato la strada e il cane... cazzo, il cane non l'ho nemmeno visto. È... è troppo piccolo...».

    Ricordargli quanto fosse piccolo contribuì soltanto a fargli versare il doppio delle lacrime.

    «Forse,» continuai, «non lo so, credo che stesse inseguendo quella ''cosa''. Sembrava un tizio e... quindi...».

    «Sì, certo, è così,» disse il vecchio con voce spezzata dal dolore, «è coraggioso il mio Fluffers, vero, piccolo?».

    «Sì, lo è...».

    «E lei come diavolo crede di saperlo?» disse con un tono brusco, quasi un ringhio.

    «Perché... mi fido...» risposi, sentendo la mia voce farsi sottile. «Mi scusi.»

    «No, mi scusi lei» il vecchio tornò a piangere sul cagnolino e si rilassò.

    Fluffers lanciò un ultimo lamento per annunciarci che se ne stava andando definitivamente una volta per tutte. Gli occhi del vecchio si spalancarono e si sporse in avanti, come per voler afferrare quell'ultimo lamento che teneva il suo cagnolino ancorato nel mondo dei vivi.

    Poi si alzò, imbracciando distrattamente il fucile. Rimase in piedi, immobile, a singhiozzare con le spalle muscolose che sobbalzavano per il pianto. Si ravviò i capelli, mi guardò di sfuggita e ritornò a guardare Fluffers.

    «Adesso cosa si fa?» chiesi, tenendo gli occhi fissi sul fucile.

    Il vecchio si asciugò le lacrime con il braccio, tirò su col naso e disse:

    «Lo seppelliamo. Celebriamo la vita e il ricordo di Fluffers, come è giusto,» disse con tono solenne.

    «Non dovremmo... Non so...»

    «Cosa?» mi chiese con una pallida luce di speranza negli occhi. Notata la mia indecisione, si trasformò di nuovo in un bambino triste e confuso.

    «Potremmo andare da un veterinario. Forse...»

    «È morto. Fluffers è morto,» disse scuotendo la testa, «non c'è più niente da fare.»

    Feci per avvicinarmi a dargli una pacca sulla spalla, ma la ferita alla mano pulsò, costringendomi a ritirarla all'istante. Il vecchio mi guardò, incuriosito.

    «L'ha morsa?»

    «Cosa?» chiesi, concentrato a premere sulla ferita.

    «Fluffers. L'ha morsa.»

    «Sì, mi sono avvicinato un attimo per controllarlo e mi ha morso. Non posso biasimarlo.»

    Il vecchio mostrò un cenno di riso. Una specie di sorriso malizioso... anzi, col senno di poi, posso dire che doveva essere un sorriso di speranza, lo stesso che scaturisce dall'aver appena trovato una cura per il dolore.

    «È il caso che vada», dissi.

    «No, aspetti. Non può guidare con la mano conciata così.»

    «Posso provarci.»

    «Glielo devo. In parte è colpa mia se Fluffers l'ha morsa e se...»

    «No. Affatto non si preoccupi,» dissi prima che scoppiasse di nuovo in lacrime.

    «Va bene, ma non mi lasci solo. Non lasci un povero vecchio da solo. La prego.»

    Ci dirigemmo verso casa sua, camminando con il passo solenne che s'addice a una veglia funebre, senza rivolgerci una sola parola per tutto il tragitto. Non un vago cenno di comunicazione, a parte qualche singhiozzo lanciato di tanto in tanto. Restai poco dietro di lui, stringendo la mano ferita nell'altra e guardandomi nervosamente intorno.

    Il vecchio camminò tenendo una postura rigida, militare, con il corpicino di Fluffers stretto contro il petto.

    Arrivammo di fronte un enorme cancello di legno dalle assi spesse e lucide. Liberò una mano, spostando il corpicino nell'incavo del gomito, tirò fuori un telecomandino dalla tasca e, dopo un rapido blip, il cancello si aprì, cigolando e scricchiolando.

    Proseguimmo per un sentiero ghiaiato e dopo qualche metro ci trovammo di fronte la sua dimora.

    Era una casa piccola e umile colorata di rosso. Con quel suo tetto piatto e sottile, pareva un piccolo cubo rossastro che emergeva come un alieno dalla campagna, come qualcosa di affascinante e fuori posto.

    Il

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