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La notte più lunga
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E-book406 pagine5 ore

La notte più lunga

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Info su questo ebook

Una volta, in Africa, ho baciato un re…

«E così, in un vecchio fienile rosso ai piedi del monte Kilimanjaro, ho scoperto la magia inafferrabile che avevo intravisto solo tra le pagine di grandi storie d'amore. Fluttuava intorno a me come una farfalla appena nata e si stabilì in un angolo del mio cuore. Ho trattenuto il fiato, ho avuto paura di respirare per paura che scivolasse fuori e la perdessi per sempre.»

Quando una bomba esplode in un centro commerciale dell’Africa orientale, le tragiche conseguenze delle scosse di assestamento provocano l’incontro di due estranei in un percorso per il quale nessuno dei due sa di essere destinato. Jack Warden, un coltivatore di caffè divorziato in Tanzania, perde la sua unica figlia. A un oceano di distanza, nella campagna inglese, Rodel Emerson riceve una telefonata che le comunica la morte di sua sorella. Sconvolta, prende un aereo nella speranza di un po’ di pace. Due persone comuni, legate da un evento tragico, sono in cammino per ritrovare sé stesse. Li aspetta un’avventura nelle immense pianure di Serengeti, durante la quale il destino di tre bambini si lega indissolubilmente al loro. Ma nonostante le avversità, un’altra sfida si profila all’orizzonte: possono sopravvivere a un’altra perdita, questa volta quella di un amore che è destinato a scivolare tra le loro dita, come le nebbie che svaniscono alla luce del sole?

«A volte ci si imbatte in una storia dai colori dell’arcobaleno, che ci attraversa il cuore. Potremmo non essere in grado di afferrarne o mantenerne il significato, ma non saremo mai dispiaciuti per il colore e la magia che ha portato nella nostra anima.»
Leylah Attar
È autrice bestseller del «New York Times» e di «USA Today». Scrive storie d’amore turbolente, e nei suoi romanzi non manca mai un colpo di scena finale.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2018
ISBN9788822724663
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    Anteprima del libro

    La notte più lunga - Leylah Attar

    Capitolo 1

    Rodel

    Per pochi meravigliosi istanti prima di svegliarmi del tutto, avevo dimenticato. Avevo dimenticato che Mo se n’era andata, che stavo dormendo nel suo letto, in una stanza estranea, in una terra sconosciuta, dove lei aveva trascorso gli ultimi mesi della sua vita. Ma il richiamo gutturale delle colombe migratrici, il tonfo ritmico di una zappa all’esterno, il rumore metallico di un cancello che si apriva e chiudeva, tutto mi ricordò che era la mia prima mattina ad Amosha.

    Aprii gli occhi e fissai le pale del ventilatore da soffitto che giravano rumorosamente. Mo aveva lasciato la sua impronta anche lì. Dei nastri vivaci lasciavano delle scie colorate mentre ruotavano sopra di me. Era un ricordo talmente vivido e doloroso di lei – della sua energia inesauribile, della sua vita in movimento perpetuo, caleidoscopica – che avvertii di nuovo un acuto senso di perdita. Quando si perde una persona cara, non si conclude con il fatto in sé, o con il suo funerale, o con il nome sulla lapide. Li perdiamo continuamente, ogni giorno, nei piccoli istanti in cui si abbassa la guardia.

    Era passato quasi un mese dal funerale. Avevo continuato a posticipare il viaggio in Africa per radunare i suoi effetti personali e ripulire la stanza.

    «Non andare», aveva detto mia madre, guardandomi con gli occhi arrossati. «C’è ancora in vigore l’allerta per i viaggi».

    Mio padre era rimasto in silenzio, le spalle incurvate che sopportavano il peso di un uomo il cui corpo della figlia non era mai stato recuperato dalle macerie. Ci era stato negato il dono di un saluto estremo, di vedere il suo viso per l’ultima volta.

    «Devo», risposi. Non potevo sopportare il pensiero di un estraneo che passava in rassegna le cose di Mo, sbarazzandosi di ciò che le era appartenuto.

    E così ero arrivata, quella della famiglia che non amava viaggiare, a Nima House ad Amosha, dove Mo aveva firmato come volontaria per sei mesi. Tutto era cominciato con l’obiettivo romantico di scalare il monte Kilimangiaro con l’amore della sua vita. Be’, l’amore della sua vita per quel mese. Quando si era rifiutato di condividere con lei la razione che gli spettava di carta igienica, tra i 4.500 e i 5.200 metri di altitudine, Mo aveva scaricato quello stronzo ed era tornata indietro – senza carta igienica né alcun biglietto aereo per andarsene di lì. I nostri genitori si erano offerti di aiutarla, però Mo non aveva chiuso con la Tanzania e aveva detto loro di sborsare del denaro in modo che potesse fermarsi più a lungo. Aveva firmato per un’occupazione non retribuita, lavorando coi bambini di un orfanotrofio in cambio di cibo scadente, una sistemazione e tempo libero per andare in cerca di cascate, fenicotteri e branchi di gazzelle nel Serengeti.

    «Fare qualcosa di buono, cercare un po’ d’azione», aveva detto l’ultima volta che avevamo parlato, prima di farmi un resoconto dettagliato degli accoppiamenti convulsi e rumorosi dei leoni. «Ogni quarto d’ora, Ro! Adesso sai perché Mufasa è il cazzutissimo re della giungla».

    «Sei una depravata, Mo. Sei rimasta lì seduta ad osservarli?»

    «Diamine, sì! Abbiamo anche pranzato lì. Devi alzare il culo e raggiungermi. Aspetta di vedere quanto è lungo il batacchio di un elefante, Ro…».

    Aveva chiacchierato senza sosta, e io avevo ascoltato solo in parte, non sapendo che sarebbe stata l’ultima volta che le parlavo, non sapendo che mi sarei trovata nella sua stanza, lo sguardo rivolto al medesimo ventilatore da soffitto che stava probabilmente osservando quando mi aveva chiamata.

    A parte l’ultima volta, quando mi aveva chiamata dal centro commerciale.

    Quando non avevo risposto.

    Quando aveva bisogno di me più che mai.

    Mi girai sul fianco, cercando di sfuggire ai pensieri che continuavano a perseguitarmi.

    Il letto accanto al mio era vuoto e rifatto con cura. La compagna di stanza di Mo, Corinne, se n’era andata. Mi aveva fatta entrare, la notte precedente, e mi aveva abbracciata.

    «Mi dispiace così tanto», aveva detto. «Era una persona davvero incredibile».

    Sentire parlare di Mo al passato era doloroso. Svegliarsi nel suo letto era doloroso. Mi alzai e tirai le tende, aprendole. Era più tardi di quanto pensassi, ma mi stavo ancora adattando al cambio di fuso orario. Il pavimento di cemento era duro sotto i piedi, così scivolai nelle pantofole di Mo. Avevano la faccina da coniglio, coi nasetti rosa appuntiti e le orecchie che saltellavano quando camminavo.

    Rimasi in piedi al centro della stanza e mi guardai intorno. Dal lato di Mo c’era un armadio stretto e lungo, ma gli abiti si erano sfilati dalle grucce, oppure non si era mai data pena di appenderli.

    Probabilmente la seconda ipotesi. Sorrisi. Eravamo così diverse, e tuttavia non avremmo potuto essere più legate. Ero in grado di sentire il suo chiacchiericcio nella mia testa mentre spulciavo tra le sue cose.

    Ehi, ti ricordi quando ho riempito un palloncino di lustrini e l’ho ficcato nel tuo armadio? È scoppiato, e i tuoi vestiti erano così scintillanti che te ne sei andata in giro come una palla da discoteca per giorni.

    Immaginarla lì accanto a me, le gambe incrociate sul pavimento, mi aiutò a farcela. Mi trattenne dallo scoppiare a piangere mentre piegavo le cannottiere che non avrebbe più indossato, ancora impregnate del suo profumo.

    Non dimenticare il cassetto, Ro. Meno male che te ne stai occupando tu. Prova a immaginare mamma che trova un dildo? Io per prima ero un po’ dubbiosa, ma è così realistico, non trovi? Dovresti proprio procurartene uno, cara. Niente Mufasa? Nessun problema….

    E così era trascorsa la giornata, con la radiocronaca di Mo che mi frullava in testa come una farfalla che andava di fiore in fiore, salutando mentre il sole si affievoliva oltre l’orizzonte.

    Era tardo pomeriggio quando mi alzai e ispezionai la stanza. Tutto il lato di Mo era impacchettato, a parte una cartina sulla parete con alcuni post-it pieni di appunti nella sua sciatta calligrafia corsiva e i nastri che aveva legato attorno al ventilatore. Non riuscii a staccarli. Inoltre, avevo altre tre settimane prima di tornare in Inghilterra. Volevo vedere i posti di cui aveva parlato, comprendere la magia che l’aveva ispirata, trovare una sorta di spiegazione nel luogo che le era costato la vita.

    Il centro commerciale Kilimani era ancora un’immensa voragine spalancata nel terreno, ma i civili erano stati un danno collaterale. L’obiettivo degli uomini armati era un ministro che quel giorno stava prendendo parte a una convention. I membri della sua scorta lo stavano portando al sicuro quando era scoppiata un’autobomba, uccidendoli tutti. Era esplosa nel parcheggio sotterraneo e gran parte del centro commerciale era crollata. Nessuno aveva rivendicato la responsabilità dell’accaduto, e gli investigatori stavano ancora setacciando tra i detriti. Era uno di quegli eventi tragici e insensati, come quando all’improvviso si apre una voragine e ti inghiotte l’auto, la casa e le persone amate. Non c’è nessuno da incolpare, così ci si tiene dentro il dolore e la rabbia, mentre al contempo si attende un’illuminazione, un briciolo di comprensione che aiuterebbe ad andare avanti, perché dev’esserci per forza un significato.

    Sprofondai sul letto e abbracciai il cuscino di Mo, desiderando di sentirmi stretta tra le sue braccia. Qualcosa di solido mi scivolò tra le dita. Infilai la mano sotto la federa ed estrassi l’astuccio degli occhiali. Il paio di scorta era ancora lì: una montatura arancione a forma di occhi di gatto; Mo aveva l’abitudine di nascondere le cose dentro la federa. Rimasi sorpresa dal fatto di non averli trovati la notte precedente. D’altronde, ero stata troppo sopraffatta dagli eventi per notarli.

    «Vorrei che potessi vedere il mondo attraverso i miei occhi», mi aveva detto quando non riuscivo a comprendere il fascino del suo stile di vita.

    Be’, eccomi qui, Mo. Indossai gli occhiali ed esaminai la stanza distorta attraverso le lenti dei suoi occhiali.

    Il sole stava tramontando e la luce dorata riempiva la stanza, ricadendo sulla parete. Le puntine di metallo che sostenevano la cartina sopra la scrivania splendevano come i lustrini che Mo aveva fatto esplodere sui miei abiti.

    Mi alzai e feci scorrere le dita sui post-it gialli che aveva fissato alla parete. Sfilando gli occhiali, mi chinai per leggerli più da vicino.

    14 aprile – Miriamu (Noni)

    2 maggio – Huzuni (Pendo)

    12 giugno – Javex (Kabula)

    17 luglio – Juma (Baraka)

    29 agosto – Sumuni (Maymosi)

    1° settembre – Furaha (Magesa)

    Le annotazioni erano strane e complesse da decifrare. Le prime tre erano state depennate con righe d’inchiostro nero. Erano sparpagliate in giro per la cartina, alcune vicino ad Amosha, altre più distanti.

    «Wow. Hai fatto un sacco di cose», disse Corinne mentre entrava in camera e gettava la borsa sul letto. «Sei rimasta rinchiusa qui per tutta la giornata?».

    Abbassai lo sguardo, osservandomi. Avevo ancora addosso il pigiama.

    «Hai mangiato qualcosa?», chiese.

    Scossi il capo, rendendomi conto che l’ultima cosa che avevo mangiato era stato uno spuntino sull’aereo.

    «Come stai, sorella di Mo? Noi la chiamavamo Mo-Bu quando non aveva mangiato. Diventava davvero cattiva quando era affamata». Corinne mi condusse verso il bagno. «Rinfrescati, così possiamo andare a cena».

    Fissai il mio riflesso mentre mi spazzolavo i capelli. Le onde di un caldo color castano si dividevano naturalmente da un lato e le scostai dolcemente dalla fronte. Gli occhi racchiudevano ancora quello sguardo stupefatto che ha la gente quando gli viene sottratto qualcosa, qualcosa di prezioso. Parevano di un castano più scuro, come se le pupille si fossero dilatate, rimanendo in quel modo. Mo aveva quell’aspetto quando era eccitata per qualcosa, sebbene i suoi occhi fossero ben lontani da un banale castano. Mi ricordavano il colore caldo del legname e della sabbia dorata. I nostri genitori avevano scelto adeguatamente i nostri nomi. Mo era il calore scanzonato dei Caraibi, il pulsare spensierato e rilassato del reggae. Io ero una baia tranquilla e le montagne antiche. Non mi vestivo in modo troppo appariscente, né parlavo a voce troppo alta. Mi sentivo più a mio agio quando mi confondevo con la massa. La mia ordinarietà lo rendeva semplice. Altezza nella media, peso nella media, lavoro nella norma, una vita mediocre.

    Non ci misi molto a cambiarmi indossando un paio di jeans e una maglietta a maniche lunghe. Corinne mi fece fare un rapido giro del posto. Il complesso dei volontari di Nima House sorgeva lontano dall’orfanotrofio, con camere modeste che affacciavano su un cortile condiviso.

    Gli altri volontari erano già radunati attorno a un lungo tavolo all’esterno.

    «Devi provare il wali e il maharagwe», disse Corinne mentre ci univamo a loro. Mi scodellò del riso nel piatto e quelli che sembravano fagioli stufati.

    «Non lasciarti ingannare dallo swahili», intervenne qualcuno. «Sta solo leggendo la lavagna a voce alta».

    «Sto cercando di fare una buona impressione». Corinne si sedette accanto a me. «Mi dispiace, mi sono dimenticata di presentarvela. Ragazzi, questa è la sorella di Mo, Rodel».

    La conversazione subì un’evidente battuta d’arresto prima che tutti ricominciassero a parlare.

    «Ehi, mi dispiace così tanto».

    «È troppo tranquillo qui in giro senza di lei».

    «Non riesco ancora a credere che se ne sia andata».

    Condivisero i loro racconti su Mo. Tutti avevano firmato con clausole differenti, alcuni per un paio di settimane, altri, come Mo, per sei mesi interi. Era un piccolo gruppo informale di diverse provenienze. Corinne veniva dalla Nigeria. Il tizio accanto a me era tedesco. Un paio di loro provenivano da città non troppo distanti da Amosha. Non tutti parlavano inglese o swahili, ma, in qualche modo, si comprendevano a vicenda. Mi si riempì il cuore ascoltando tutti i modi in cui ricordavano mia sorella: dolce, avventurosa, chiassosa, coraggiosa.

    «Era davvero arrapante», disse uno dei tipi prima che qualcuno gli desse un calcio nello stinco.

    Fu solo quando Corinne e io tornammo di nuovo nella nostra camera che mi resi conto di quanto fossi sfinita. Ero sempre tesa quando viaggiavo. Quello, unito alle montagne russe emotive della giornata, mi fece desiderare di sprofondare a letto. Ma avevo ancora una cosa da cancellare dalla mia lista.

    «Corinne?», dissi. «Cosa significano queste annotazioni?». Indicai i post-it sulla cartina.

    «Oh, quelli». Era in piedi accanto a me e li stava esaminando. «Mo lavorava con dei bambini a rischio nel tempo libero. Ogni mese, andava a prendere un bambino da uno di quei posti e lo portava in un luogo sicuro. Vedi, annotava la data in cui pensava di andare, il nome del bambino, e questo qui, tra parentesi, è il nome della località. Puntava a raccogliere sei bambini in sei mesi. Ha fatto i primi tre». Corinne indicò quelli che erano stati cancellati.

    «E gli altri? Chi si prenderà cura di loro?»

    «Immagino il tizio con cui stava lavorando. Gabriel qualcosa. Un locale. Nima House non ha nulla a che fare con questo. È già al massimo della capienza. Non ha le risorse per prendersi cura dei bambini che stavano radunando».

    «Quindi dove li stavano conducendo?»

    «Non ne sono sicura. Mo potrebbe averlo menzionato, ma non ricordo». Corinne strisciò verso il letto. «Buonanotte, Rodel. Cerca di dormire un po’».

    Spensi la luce e scivolai sotto le coperte. Il ventilatore ruotava lentamente sopra di me. Riuscivo a malapena a distinguere i nastri nell’oscurità. La mia mente era piena di aneddoti appresi su Mo. Mentre io cercavo i miei eroi nei libri, mia sorella era stata una di loro: un’eroina silenziosa, diventata tale forse per caso, che avrebbe fatto battute se qualcuno l’avesse definita così. Non era andata laggiù per salvare qualcuno. Era semplicemente entusiasta della vita – del divertimento, del cibo, dei colori, delle esperienze. Non era in grado di vedere oltre il suo naso e faceva solo le cose che la rendevano felice, ma ciò la faceva apparire persino più eroica ai miei occhi.

    Pensai alle annotazioni che non era riuscita a depennare sulla cartina – quella parte di lei che era rimasta incompiuta – e decisi di realizzare il suo desiderio. Sei bambini in sei mesi. Era l’obiettivo che si era posta. Erano rimasti ancora tre bambini.

    Andrò a prenderli per te, Mo. Cancellerò ogni nome prima di fare ritorno a casa.

    Capitolo 2

    Mi fermai ai piedi della scalinata simile a quella di un palazzo che conduceva al Grand Tulip, un leggendario hotel di Amosha, famoso per la tradizionale ospitalità offerta alle celebrità più esigenti. Ero ancora nervosa dopo aver preso un minibus locale, un dala-dala, per arrivare fin lì, ma mi ci aveva mandata Corinne. Non conosceva il cognome di Gabriel, l’uomo con cui stava lavorando mia sorella, ma sapeva dove viveva.

    E no, non era al Grand Tulip.

    Era in un villaggio nei sobborghi di Amosha.

    «Potresti prendere un dala-dala, ma sono un po’ caotici e non troppo sicuri. Vanno bene per un passaggio veloce. Per raggiungere Gabriel, ti suggerirei di procurarti un autista», aveva detto Corinne. «Ne ho utilizzato uno un paio di volte. Si chiama Bahati. Non si avventura troppo lontano dalla città, ma conosce la zona e parla un inglese fluente. Di solito è al Grand Tulip la mattina».

    Così eccomi lì, mentre salivo le scale di quell’hotel da favola. Colonne massicce che parevano giganteschi alberi contorti sostenevano l’entrata ombreggiata in cima alla scalinata. C’erano due uomini in uniforme a guardia dell’atrio aperto, ma a catturare la mia attenzione fu la statua a grandezza naturale di un guerriero Masai, sistemato contro la spoglia vastità bianca del muro esterno.

    Svettava orgoglioso, la lancia in mano, i capelli decorati con fango color ocra. Il legno d’ebano era stato lucidato fino a renderlo talmente levigato che la sua pelle pareva essere stata spalmata di grasso animale. La toga rossa fluttuava e schioccava al vento. Pareva un giovane profeta biblico sospeso in un tempo che era andato avanti suo malgrado, come un reperto che si sarebbe dovuto trovare in un museo.

    Mi avvicinai, esaminando la finezza dei dettagli: le perline rosse e blu che gli adornavano il corpo, le ciglia dalle estremità così delicate, che catturavano il sole mattutino. Tirai fuori la videocamera e gli inquadrai il volto.

    «Ottomila scellini», disse lui.

    «Cosa?», sobbalzai.

    «Per scattare una fotografia».

    «Ma lei è in carne e ossa!».

    «Sì, signorina. Facciamo seimila scellini».

    «No, fa lo stesso», dissi, indietreggiando.

    «Viene dall’Inghilterra? Lo capisco dal suo accento. Duemila sterline. Più economico di un caffè da Starbucks».

    «No, grazie. A dire il vero, sto cercando qualcuno. Si chiama Bahati. Lo conosce?»

    «Mille scellini. L’accompagno da lui».

    «Non importa». Scossi il capo e mi allontanai. Ovviamente era un trafficone. «Scusatemi», dissi ai portieri. «Uno di voi due sa dove posso trovare Bahati?».

    Si scambiarono un’occhiata, poi indicarono un punto alle mie spalle.

    Mi state prendendo in giro. Mi voltai lentamente.

    Come previsto, il Masai mi stava sorridendo.

    «Mi ha trovato. Gratis. Lei è abile nel mercanteggiare. Cosa posso fare per lei?»

    «Stavo cercando un autista, ma va bene così. Ho cambiato idea». Iniziai a scendere le scale.

    «Amica. Amica!», mi urlò dietro, ma non mi voltai.

    Grandioso, pensai. "Dovrò prendere il temuto dala-dala fino al villaggio di Gabriel".

    Tornai indietro sulla strada polverosa e camminai per venti minuti fino alla fermata dell’autobus. Era una cacofonia frastornante di bus privati, tour operator che mi agitavano cartine in faccia e gente che voleva vendermi braccialetti, banane e granturco abbrustolito.

    Tra motociclette, vetture e dala-dala che andavano a velocità diverse, partendo e fermandosi senza alcun ordine o avvertimento, la strada somigliava a un’orchestra. I conducenti sporgevano dai minibus gridando le loro destinazioni e davano colpi sulla fiancata del furgone quando volevano che il guidatore si fermasse per far salire i passeggeri. Ogni dala-dala era dipinto a colori vivaci, con adesivi o slogan in onore di qualche celebrità. Beyoncé, Obama, Elvis. Attesi la chiamata per il villaggio di Gabriel, Rutema, ma nessuno di loro andava da quella parte.

    «Amica. L’ho trovata!». Un 4x4 stridette fermandosi accanto a me, mancando per un soffio un uomo su una bicicletta. Il conducente indossava una camicia bianca, fresca e pulita, con le maniche arrotolate, e occhiali da sole che riflettevano il mio volto spossato. «Sono io». Si tolse gli occhiali e mi rivolse un sorriso sfacciato.

    Bahati.

    «Che ne è stato del suo… costume?», gridai al di sopra dello strombazzare dei clacson.

    «Non è un costume. Sono un autentico Masai».

    «Anche i capelli sono spariti?»

    «Le trecce? Sono extension. Mi vesto così per i turisti. Scattano fotografie con me. Sono anche una guida turistica, ma sono impieghi temporanei. In realtà sono un attore, film d’azione, in attesa della mia grande occasione. Un giorno mi vedrà sul grande schermo. Ha detto che stava cercando un autista. Dove vuole andare?»

    «Rutema», risposi.

    «Salga. L’accompagno io».

    «Quanto vuole?», domandai, socchiudendo gli occhi.

    «Per lei, lo stesso prezzo del dala-dala».

    Esitai. Non ero il tipo da saltare sulla macchina di uno sconosciuto, figurarsi uno sconosciuto in una parte del mondo così estranea.

    Qualcuno mi pizzicò il fondoschiena. Doveva essere stata l’anziana che cercava di vendermi i braccialetti. Non verificai. Saltai sulla macchina di Bahati mentre un altro autista con un megafono mi urlò qualcosa nell’orecchio.

    «Conosce Corinne di Nima House?», chiesi. «È stata lei a dirmi di venire a cercarla».

    Ho degli amici, bello mio, e sanno dove mi trovo.

    «Conosco la signorina Corinne. Le ha dato un buon consiglio. Sono un autista eccellente». Bahati svoltò all’improvviso e io mi aggrappai al cruscotto con le nocche bianche.

    «Non ha le cinture di sicurezza?». Mi allungai in cerca della mia, rimanendo a mani vuote.

    «Nessuno indossa le cinture da queste parti». Rise. «Non si preoccupi. È in buone mani. Ho un record invidiabile. Nessun incidente».

    Osservai due pedoni che si scansavano appena in tempo per evitare di venire investiti.

    «Non mi ha detto il suo nome, signorina…?». Lasciò la domanda in sospeso.

    «Mi chiamo Rodel».

    «Signorina Rodel, è fortunata che l’abbia trovata io, altrimenti sarebbe a bordo di quello». Indicò il dala-dala che ci superava. «La maggior parte di quei minibus è predisposta per trasportare dieci persone. Se non ce ne sono almeno venti, non è un vero dala. Se sta comoda, non è un autentico dala. Il conducente ha un’autorità assoluta. Mai chiedergli di abbassare la musica. Mai aspettarsi che si fermi dove si dovrebbe scendere. Mai prendersi gioco delle foto sulla sua aletta parasole. Una volta che abbandona il dala, rinuncia a tutti i diritti. Lui può investirla, andarsene quando ha ancora un piede sul pulmino, o il suo bagaglio, o il suo…».

    «Afferrato. Sto meglio con te».

    «Decisamente. E offro molti pacchetti speciali. Pranzo al sacco. Birra alla banana. Massaggio africano gratuito. No. Non quel genere di massaggio, amica mia. Intendo questo, vede?». Lanciò un’occhiata dalla mia parte mentre rimbalzavamo su una strada costellata di buche. «Massaggio africano. Eh eh. Bello, no? Mi lascerà una recensione? Ho un punteggio di quattro stelline e mezzo…».

    «Bahati?»

    «Sì, signorina?»

    «Tu parli troppo».

    «No, signorina. Fornisco solo informazioni importanti. Oggi è una bella giornata per andare a Rutema. Domani pioverà. Le strade saranno molto fangose. Sono felice che andiamo oggi. Domani avrei dovuto addebitarle un extra per il lavaggio della vettura. Per Suzi, la mia macchina». Colpì col pugno il volante. «Lei adora essere pulita. Ma se desidera andare domani, va bene lo stesso. Ho un ombrello nel bagagliaio. È del Grand Tulip. Molto grande, molto bello. L’ha usato Oprah Winfrey. Vedrà il logo. Quello del Grand Tulip, non quello di Oprah. Me l’hanno dato perché…».

    «Oggi è perfetto. Non è dove siamo diretti?»

    «Sì, sì. È dove la sto portando. Me l’ha già detto. L’ha scordato? Va tutto bene. Ho una buona memoria. Ma non capisco perché vuole andare laggiù. Non c’è niente da vedere. Se vuole il mio parere, dovrebbe andare a…».

    Superammo mercati animati ed edifici coloniali che rimanevano in piedi tra i negozi moderni come vestigia storiche, caparbie e polverose. Bahati si dilungò in chiacchiere mentre lasciavamo Amosha e seguivamo una strada sterrata che passava attraverso piccole fattorie e proprietà coloniche tradizionali. Rallentò su una collina con una vista che spaziava sulla zona e fermò la macchina.

    «Guardi», disse, indicando oltre i canyon, verso l’orizzonte.

    Sopra le nubi, come un’evanescente corona di gloria contro il cielo blu zaffiro, si ergeva la cupola ricoperta di neve del Kilimangiaro. Avevo immaginato la vastità del suo splendore quando Mo me ne aveva parlato, ma nulla mi aveva preparata alla prima visione dei suoi picchi spruzzati di bianco.

    Bahati parve condividere il mio senso di timore reverenziale. Tacque per qualche istante, senza fare alcun commento. Non aveva parole da condividere con me, nessuna tiritera per impressionarmi. Fissammo il gigante surreale che si stagliava in lontananza, svettando maestosamente sopra le pianure dorate della savana africana.

    «Perché vuole visitare Rutema?», chiese Bahati una volta che fummo tornati sulla strada. «È solo un pugno di case locali e qualche negozio».

    «Sto cercando un amico di mia sorella». Spiegai cosa mi aveva condotta ad Amosha e perché avevo bisogno dell’aiuto di Gabriel.

    «Mi dispiace per sua sorella. È terribile», disse. «Quest’uomo, Gabriel, non sa il suo cognome?»

    «No. Solo che lui e mia sorella lavoravano insieme».

    «Non si preoccupi, signorina Rodel. Lo troveremo».

    Era una semplice rassicurazione, ma gliene fui grata.

    Mentre entravamo a Rutema, dei bambini a piedi nudi si precipitarono dietro di noi sulla strada polverosa, cantando: «Mzungu! Mzungu!».

    «Cosa stanno dicendo?», domandai a Bahati.

    «Mzungu indica un bianco. Non sono abituati a vedere molti turisti qui attorno». Parcheggiò la jeep sotto un fico. Un gruppo di uomini macchiati di grasso stava lavorando su un trattore sotto l’albero, borbottando come chirurghi attorno a un paziente. «Chiedo se conoscono Gabriel».

    I bambini accerchiarono la nostra vettura mentre Bahati parlava con gli uomini. Mi fissarono con sguardi inebetiti e ridacchiarono. «Scholastica, Scholastica!», gridarono, indicandomi.

    Non avevo idea di cosa significasse, ma scomparvero quando Bahati ritornò e li cacciò via.

    «Per sua fortuna, c’è solo un Gabriel nel villaggio, amico di una signora mzungu. Ma viaggia molto, e non lo vedono da un po’. La sua famiglia vive laggiù». Indicò un vasto complesso. Pareva fuori luogo tra le fila di piccole capanne. Era circondato da mura perimetrali con vetri taglienti, rotti, sistemati nella malta sulla sommità.

    Ebbi un tuffo al cuore. Non avevo considerato la possibilità che Gabriel potesse non essere presente. «Possiamo domandare quando sarà di ritorno?».

    Demmo qualche colpo di clacson e aspettammo. Gli uomini smisero di lavorare sul trattore e ci osservarono con curiosità. Una donna che indossava un abito variopinto di tessuto locale chiamato kitenge uscì e venne a salutarci. Parlò a Bahati in swahili attraverso le sbarre metalliche, ma i suoi occhi continuarono a saettare nella mia direzione.

    «Sei la sorella di Mo?», chiese.

    «Sì. Mi chiamo Rodel».

    «Sono felice di vederti. Karibu. Benvenuta», disse aprendo la serratura del cancello. «Sono Anna, la sorella di Gabriel». Il suo sorriso era caldo, ma i suoi occhi nascondevano qualcosa di spettrale. Era bella, nel modo dimesso in cui lo sono le persone col cuore spezzato. Ci condusse in un cortile con alberi da frutto e una piccola zona adibita ai giochi dei bambini. Un’altalena vuota cigolò, continuando a dondolare, come se fosse stata abbandonata precipitosamente.

    All’interno, le tende erano tirate – un peccato, perché era una giornata soleggiata talmente bella. Sul pavimento giacevano delle scatole, alcune vuote, altre chiuse con il nastro.

    «Mi dispiace per tua sorella», disse Anna dopo che ci fummo seduti.

    «Grazie», risposi. «Non voglio abusare troppo del tuo tempo. Mi stavo domandando se potevi dirmi come mettermi in contatto con tuo fratello».

    «Vorrei saperlo», disse fissandosi le mani. «Non lo sento da un po’. Non è mai stato via tanto a lungo. Temo che non tornerà. O peggio, che gli sia accaduto qualcosa di grave».

    «Qualcosa di grave?». Guardai lei e Bahati, ma lui stava fissando un punto dietro di me, oltre la mia spalla.

    Mi voltai e vidi una ragazzina davanti all’ingresso sul retro. La sua silhouette scura si stagliava contro la luce che filtrava attraverso la porta aperta. Pareva avere all’incirca sei o sette anni, ma sembrava rigida e diffidente, come se fosse incerta se entrare o meno.

    «Va tutto bene, Scholastica», disse Anna. Passò allo swahili e persuase la bambina a entrare.

    Quando la ragazza entrò alla luce, trasalii. Poteva essere stata l’imprevedibilità della cosa, lo shock di vedere uno spettro pallido emergere dalle ombre alla luce del giorno. La sua pelle era di una strana sfumatura di bianco, con chiazze rosacee dove l’aveva toccata il sole. Ci guardò attraverso occhi ultraterreni, lattiginosi e blu. I capelli erano rasati fin quasi al cuoio capelluto, una sfumatura di biondo attenuato, ma privo di morbidezza o delicatezza. La mancanza di colore era stridente, come un quadro privo di pigmento. Avevo già visto persone affette da albinismo, ma quella ragazza aveva croste ovunque, sulle labbra e sul viso, come piccole mosche nere che le banchettavano addosso. Non riuscii a sottrarmi al brivido che mi percorse, ma fu Scholastica a ritrarsi da me, dalla reazione impulsiva con la quale senza dubbio non aveva familiarità. Disgusto. Terrore. Repulsione.

    Distolsi lo sguardo, vergognandomi di me stessa. Era solo una ragazzina nata senza pigmentazione.

    «Lei è la figlia di Gabriel», ci disse Anna. «Non parla inglese. Gabriel ha smesso di mandarla a scuola perché non potevano garantirle l'incolumità, quindi rimane a casa con me».

    Annuii, pensando ai bambini che avevano intonato Scholastica, Scholastica! quando mi avevano vista. A loro, pareva verosimilmente più simile a me che a loro. Da insegnante, ero ben conscia di come i ragazzini potessero darsi manforte e reagire di fronte a qualcosa che non comprendevano.

    «È sensibile al sole, ma non posso tenerla dentro tutto il giorno». Anna toccò il volto della nipote. «Queste croste sono postumi di scottature». Quando parlò di nuovo, le tremò la voce. «Voglio che la porti con te».

    «Scusa?». Mi chinai in avanti, convinta di aver sentito male.

    «Tua sorella aiutava Gabriel a far arrivare i bambini albini all’orfanotrofio di Wanza. Laggiù hanno una scuola per i bambini come Scholastica, un luogo dove sarà al sicuro, dove non dovrà sentirsi diversa».

    «Vuoi mandarla via? In un orfanotrofio?». Ero sbalordita. «Non dovresti discuterne prima con Gabriel?»

    «Gabriel se n’è andato da troppo tempo stavolta. Ha detto che ci saremmo trasferiti a Wanza quando sarebbe tornato». Il mento di Anna tremava, e fece un respiro profondo. «Non posso badare a Scholastica da sola. Ho due figli miei. Gabriel ci ha portati qui e ha affittato un posto più grande quando mio marito e io abbiamo divorziato. Senza di lui, non posso permettermi di pagare l’affitto. Ho appena ricevuto una notifica di sfratto». Gesticolò verso gli scatoloni che ci circondavano. «Devo traslocare, e una volta che avremo lasciato questo complesso… Bahati, lo capisci, vero? Dille di portare Scholastica all’orfanotrofio».

    Sentendo pronunciare il suo nome, Scholastica guardò prima sua zia, poi Bahati.

    Non ha idea di cosa stiamo parlando, pensai.

    «L’orfanotrofio a Wanza… è il posto dove Mo stava portando tutti i bambini?», domandai.

    «Li stava portando Gabriel. Aveva chiesto a Mo di aiutarlo a farli arrivare là. Avevano un accordo. Gabriel si era offerto di accompagnare gratuitamente Mo ovunque volesse andare: parchi nazionali, laghi, villaggi. In cambio, Mo fingeva che i bambini fossero suoi».

    «Non capisco. Mo fingeva che i bambini fossero suoi?», chiesi.

    «I bambini albini danno nell’occhio in Africa. Sono speciali. Diversi. Ci sono persone che non esiterebbero a prenderli di mira o fargli del male. Quando fai indossare un cappello grande e gli abiti giusti a questi bambini, puoi ingannare la gente facendogli credere che siano turisti, almeno da lontano. È più semplice quando la gente pensa di vedere una madre e un figlio mzungu che viaggiano con una guida locale. Una volta al mese, Mo garantiva un passaggio sicuro a uno dei bambini che Gabriel aveva scovato, e lui restituiva il favore mostrandole i dintorni».

    «Ma adesso lui non c’è», dissi. «Hai denunciato la

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