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Io, te e l'infinito
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Io, te e l'infinito
E-book389 pagine6 ore

Io, te e l'infinito

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Info su questo ebook

Autrice di Ogni battito del cuore

Falling Series

Cass è una teenager come le altre, ma combatte in segreto contro la sclerosi multipla. È una di quelle ragazze che tutti conoscono di vista, ma non di persona. Ha preferito costruirsi una cattiva reputazione: andare alle feste e finire a letto con qualcuno, per poi scordarsene il giorno dopo. Ma adesso tutto sta per cambiare. Andare al college significa lasciarsi il passato alle spalle e ricominciare da zero. Tyson è un duro. Le persone che lo conoscono sanno che per lui la parola “impossibile” non esiste. È forte, sicuro di sé e intelligente. E arrogante, certo. Persino dopo il terribile incidente che sei anni prima gli ha fatto perdere l’uso  delle gambe, ha combattuto perché le persone continuassero a vederlo nello stesso modo di sempre: come un combattente. Non ha bisogno della loro pietà. Quando Cass entra nella vita di Tyson, il muro dietro cui lui si nasconde rischia di sgretolarsi per sempre. Perché la forza di Tyson è quello di cui Cass ha bisogno per ricominciare a vivere. E tutte le regole che lui si è costruito per sentirsi al sicuro stanno per essere infrante.

La vera forza è avere il coraggio di amare

«Ho amato ogni frase di questa storia. Le vicende dei due protagonisti sono realistiche e commoventi.»

«È impossibile non essere ispirati e incantati alla fine del libro.»

«Una storia sull’amore e l’importanza di accettarsi. La scrittura è bellissima e l’autrice ci trasporta in una storia che inchioda dalla prima all’ultima pagina.»
Ginger Scott
è autrice bestseller di Amazon, nominata ai Goodreads Choice Award, autrice di diversi romanzi d’amore young adult e new adult. Collabora da sempre con quotidiani, riviste e blog. Con la Newton Compton ha già pubblicato il primo capitolo della Falling Series, Ogni battito del cuore, di cui Io, te e l’infinito è il secondo capitolo.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788822725028
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    Anteprima del libro

    Io, te e l'infinito - Ginger Scott

    Prologo

    Ty

    Vi dico qual è la fregatura di quando fate un bel sogno: per quanto vi sforziate di farlo durare a lungo – e restiate a occhi chiusi, vi mettiate sotto alle lenzuola, cerchiate la parte più fresca del cuscino – vi risvegliate comunque.

    Sempre.

    I miei sogni sono tutti così. Stringo la mazza tra le mani, la faccio girare, avverto la tensione delle cosce mentre sposto il peso indietro sulla gamba destra, ruoto i fianchi, colpisco la palla. E poi mi metto a correre. E corro per davvero.

    Mi sembra tutto reale.

    A volte, se riesco a prolungare il sogno quel tanto che basta, trovo Kelly che mi aspetta alla fine del giro delle basi. Sento il suo corpo abbracciato al mio, le sue mani sulla schiena, le gambe attorno ai fianchi, e io la sollevo. Senza sforzo. La bacio, la tengo tra le braccia, la tocco – inspiro il suo profumo.

    Poi all’improvviso finisce tutto.

    Il suono della sveglia è impietoso: il mio presente stride penosamente con il sogno dal quale sono stato strappato a forza. Mi ci vuole qualche minuto per riprendermi dallo sconforto. Devo togliermi subito certi pensieri dalla testa perché queste dannate gambe inutili che mi ritrovo non devono diventare un peso per nessuno, a parte me. E poi devo alzarmi dal letto. Devo fare i bagagli e prendere l’aereo per tornare in Louisiana per assicurarmi che mio fratello vada al college. So che se vado insieme a lui, possiamo farcela – riusciremo a realizzare i nostri sogni.

    Non lo sa, ma io ho bisogno di lui, forse più di quanto lui abbia bisogno di me, perché io sono il fratello forte, ma Nate è quello dotato di un cuore grande. Questi sono i nostri ruoli nella vita: io sono il maggiore e mi prendo cura di Nate, sempre e comunque. Anche se sono il fratello problematico e menomato.

    «Ciao, sei sveglio». Non so esattamente chi sia la ragazza mora mezza nuda che esce dal mio bagno. I ricordi sono un po’ confusi. C’è stata una festa e c’erano molte matricole del primo o secondo anno, e mi ricordo di averci provato con lei. Huh – devo essere stato proprio irresistibile ieri sera.

    Il solito sorriso stampato sulle labbra, mi tiro su e mi metto seduto sul bordo del letto, ancora avvolto tra le lenzuola. Mentre mi allungo per prendere la maglietta che pende dal primo cassetto del comò, lancio un’occhiata verso di lei, che mi dà le spalle, e mi attardo un attimo sul suo corpo nudo. È sexy. Una strafiga. Ma non è il mio tipo. Nessuna lo è.

    «Ciao, tesoro». Odio chiamare così le ragazze, ma non ho idea di quale sia il suo nome. «Grazie per stanotte e, detesto fare lo stronzo, ma… devo andare», dico mettendomi sulla carrozzina, poi mi piego in avanti e raccolgo i jeans da terra.

    «Lo so, me l’hai detto. Niente di impegnativo», dice, mimando con le dita le virgolette. Bene… sono contento di aver avuto il tempo, prima di fare altro, di dirle come la penso. «Ma comunque, hai intenzione di tornare in Florida il prossimo semestre?».

    Ci risiamo. Sono stato chiaro con lei, sa quali erano le mie condizioni, ne abbiamo parlato – eppure le ragazze vogliono sempre qualcosa in più. «Tesoro», dico, il suo nome mi sfugge ancora, «probabilmente non tornerò mai più in Florida. E se dovessi farlo, sarà con il mio jet privato in qualità di amministratore delegato di una società. Ora, devo prendere un aereo tra qualche ora… e… hai presente quell’asciugamano che ti copre? Devo metterlo in valigia. Quindi…».

    Capisco che vorrebbe mollarmi un pugno in faccia, e non la biasimo. Ma non faccio mai promesse che non posso mantenere. A dire il vero ce ne sono già troppe che mi legano. Ho promesso ai miei genitori che sarò forte per mio fratello e che farò qualcosa di importante nonostante la mia disabilità. Sono bravo a fingere di essere forte – talvolta ci credo perfino io. Ma altre volte… accidenti, sono proprio stanco.

    «Nel caso in cui cambiassi idea», dice porgendomi un angolino di carta che deve aver strappato da una delle mie riviste. Che diavolo è? Lo giro e trovo il suo numero di telefono e, ah… giusto – Beth.

    «Be’, grazie», dico e, davanti ai suoi occhi, getto il pezzetto di carta nel cestino. E così si conclude il nostro rapporto: dopo qualche secondo se ne va, mostrandomi il dito medio come saluto. Me lo merito. Forse mi merito anche di peggio. Ma Beth starà meglio senza di me, e per quanto possa sembrare egoista, devo conservare tutte le mie energie per raggiungere gli obiettivi che mi sono prefisso nella mia vita. Non ce la faccio a prendermi cura anche di un’ipotetica persona al mio fianco. Non più, da quando mi sono tuffato da quella scogliera.

    Finalmente solo, mi fermo per qualche minuto e mi spingo verso la finestra per osservare cosa fanno gli altri là fuori. Appoggio la fronte sul vetro e guardo una coppia che si sta salutando: il ragazzo solleva la ragazza e la fa girare, poi si baciano come due innamorati. Si vede la differenza. I miei baci soddisfano un piacere momentaneo, senza un domani, una specie di bisogno usa e getta. Sul momento sono stupendi, ma non mi lasciano nulla in bocca, a parte forse il gusto di vodka o tequila – o talvolta quello di sigaretta. Non provo nulla, se non il bisogno di soddisfare i miei istinti. Invece quel bacio – quello che si stanno scambiando due piani più in basso e che osservo dalla mia finestra – è tutta un’altra cosa. Parla di amore, di felicità e di futuro.

    Vibra il cellulare sul letto, e subito mi riscuoto da quelle tristi considerazioni e indosso la mia maschera. È Nate. «Che mi dici?»

    «Ciao, ti vengo a prendere all’aeroporto. Mamma e papà restano a casa», dice. «Vuoi fare qualcosa anche se arrivi tardi?»

    «Sì, andiamo allo strip club prima di rientrare», dico, un po’ per scherzare.

    «Bene, ho capito. Allora porto i soldi», ribatte, serio. Tra noi siamo sempre diretti, non esiste imbarazzo né giri di parole. Voglio molto bene a mio fratello. È il mio migliore amico. Ma Nate non è abbastanza forte da sopportare il peso di tutto quello che mi è accaduto. Finisco di accordarmi con lui al telefono poi metto giù e, nelle due ore successive, metto in valigia il resto delle mie cose – un lavoro che a chiunque altro avrebbe richiesto un quarto d’ora.

    Prima di andarmene, mi spingo di nuovo verso la finestra e osservo, solo per qualche secondo ancora, quale avrebbe potuto essere la mia vita là fuori. Con la borsa più pesante sulle gambe e il trolley dietro di me, mi avvio verso il corridoio dove chiedo a un altro studente di aiutarmi a portare il trolley verso il taxi che mi sta aspettando. Una volta chiusa la portiera, sulla strada verso l’aeroporto, mi dimentico di tutto – il sogno, la scena fuori dalla finestra, gli ultimi quattro anni all’Università della Florida: tutto insignificante e senza senso. Come quel che mi aspetta. Devo solo continuare a fingere. Ovvero… devo apparire forte.

    Costi quel che costi.

    Capitolo 1

    Ty

    «C oraggio, principessina. Muovi il culo! È ora di allenarsi. Chi dorme non piglia pesci, e tutte quelle altre stronzate simili», dico quasi canterellando a mio fratello, la cui testa giace sepolta sotto due cuscini. Si crogiola nel letto perché ieri sera abbiamo fatto le ore piccole. Nate non è abituato ai miei ritmi. Io non ho mai avuto bisogno di dormire troppo, conseguenza del fatto che il mio risveglio è sempre pessimo – sia per dolori reali che immaginari. Durante gli anni di università passavo da una festa all’altra, eppure alla fine ho preso quasi il massimo dei voti.

    «Uffaaaaaa!», urla Nate, il suono della voce attutito dal materasso mentre mi lancia tra i due il cuscino più in alto, che mi colpisce al petto. «Cosa sei, un mezzo robot? Come fai a non essere stanco?»

    «Sono un tipo eccezionale, e le persone come me non hanno bisogno di dormire quanto voi, comuni mortali», dico togliendogli le coperte di dosso per farlo incazzare sul serio.

    «Va bene! Mi alzo. Mi alzo», dice, portandosi i pugni sugli occhi che si strofina come faceva quando era bambino. Ai miei occhi è ancora piccolo – forse lo resterà per sempre. «Comunque la squadra comincia gli allenamenti dopo le nove, stronzo!».

    Si lamenta, ma si veste. Sono un po’ duro con Nate, lo faccio per spronarlo e lui me lo lascia fare, il che significa che sotto sotto gli fa piacere. E io sono duro perché il ragazzo ha talento da vendere. Io ero bravo… prima di farmi male. Forse avrei potuto giocare nella squadra di baseball di qualche università vicino casa. Ma Nate potrebbe far carriera e arrivare a giocare da professionista – e proseguire per anni.

    «Ehi, questo eccezionale stronzo ti ringrazia tanto. Adesso infilati le scarpe e andiamo a correre», dico, e mi spingo con la carrozzina in corridoio dove mi fermo ad aspettarlo.

    Tutte le mattine facciamo più di sette chilometri – Nate sul tapis roulant e io con la handbike, in palestra. Mi alleno perché voglio mantenere il corpo in forma, almeno quel che ne resta: così i pesi e la palestra sono diventati un po’ il mio chiodo fisso. Ho sempre trovato facile studiare, e forse per questo andare alle feste non ha mai costituito un problema. La vera sfida è invece riuscire a fare vasche da mille o millecinquecento metri in piscina – ma ho bisogno di sfide simili per ricordarmi che sono ancora vivo.

    «Ti detesto perché sembri l’allegro folletto del mattino», dice Nate, lanciandomi l’asciugamano che porta con sé, poi si volta e chiude a chiave la nostra stanza.

    «Ehi, di certo non ti costringo io ad andarci giù pesante con l’alcol. Lo sai, fratello, fatichi a reggere anche la birra. Quindi meglio se eviti shots e robaccia del genere. Per questo sei sempre stanco al mattino», gli dico.

    Alle superiori Nate era il classico bravo ragazzo che usciva sempre con il solito gruppo di amici e con la sua ragazza. La metamorfosi avvenne quando scoprì che lei lo tradiva. Grazie a Dio quando accadde io ero a casa. Lasciò la festa dove si trovava, tornò a casa con me e insieme ci facemmo la nostra prima bottiglia di Jack Daniels. Accidenti, forse è stata colpa mia – avrei dovuto farlo iniziare con qualcosa di più leggero.

    «A proposito… ho chiuso», dice, fermandosi proprio davanti all’entrata del nostro dormitorio.

    «Chiuso cosa?». Mi sono perso.

    «Ho chiuso con… una festa e una ragazza diversa tutte le sere. Non… Non fa per me», dice e a me scappa da ridere, ma Nate non è dell’umore adatto. «Vaffanculo, lo sapevo che mi avresti preso in giro».

    «Scusa, scusa amico. È solo che…». Mi interrompo di nuovo e cerco di fare la persona seria. Giro la faccia per nascondere l’ampio sorriso, mi impongo di fare un bel respiro – e di prendere mio fratello sul serio. «Ti chiedo scusa. Comunque non vedo cosa ci sia di male».

    «Sapevo che non avresti capito», dice Nate incamminandosi. Al che il mio sorriso si spegne – ha ragione, non avrei capito. E la cosa mi brucia un po’.

    Ci alleniamo come al solito e, quando Nate esce per raggiungere i suoi compagni di squadra, io mi fermo ancora un po’. È già da qualche giorno che ho visto un’offerta di lavoro come personal trainer ma finora non ho avuto le palle per andare a chiedere informazioni. Oggi è il giorno buono. C’è una ragazza carina che lavora al bancone all’entrata, quindi per prima cosa chiedo a lei.

    «Ciao, Nike!». La chiamo Nike perché così è scritto sulla maglietta. Abbassa lo sguardo, fa una risatina e poi sposta di nuovo lo sguardo su di me. Vede che sorrido e allora sorride anche lei, mordendosi il labbro, e a quel punto capisco che ormai l’ho conquistata. «Scusami, non sapevo come ti chiami».

    «Sono Sage», dice e si piega sul bancone quel tanto che basta per regalarmi una piacevole panoramica sul delicato bordo di pizzo bianco del suo reggiseno.

    «Sage, bel nome», sorrido, attenendomi al mio copione abituale. «Volevo avere informazioni sul posto da personal trainer. È già stato preso?»

    «No», dice e il sorriso si fa più ampio. «Interessato?»

    «Sì», dico, usando lo stesso tono sbarazzino della sua risposta, anche se lei ne è del tutto inconsapevole.

    «Aspetta, chiamo il responsabile», dice e con un saltello si stacca dal bancone ed entra nell’ufficio sul retro.

    Mentre si allontana molleggiando mi concedo un’altra occhiata ai minuscoli shorts che indossa e al perfetto lato B.

    Il responsabile non è rimasto incantato come lei dalle mie fossette e dal mio fascino quindi ho dovuto conquistare il suo metro e novantacinque di altezza contando solo sulle mie capacità. Dopo sei anni di riabilitazione, so il fatto mio e quanto valgo: alla fine è stato ben contento di assumermi per occuparmi degli studenti del primo anno che desiderano mantenersi in forma.

    Mentre torno al dormitorio mando un messaggio a Nate e mi metto d’accordo per andare a mangiare un hamburger da Sally’s come ormai facciamo tutti i giorni. Probabilmente è colpa di nostro padre. Ai ragazzi Preeter piace fare sempre le stesse cose. Forse solo due o tre giorni non abbiamo consumato almeno uno dei tre pasti quotidiani nel nostro ristorantino preferito.

    Manca un’ora buona prima che gli allenamenti di Nate siano finiti. Non ho nessuno con cui condividerla e niente da fare. Almeno durante l’orario scolastico la mente è assorbita dalle lezioni; in generale ho bisogno di essere sempre impegnato e di fare tante cose – anche perché non sopporto di stare con le mani in mano a oziare. Ma in questo momento non c’è granché di stimolante da fare. Perfino Sports Center in televisione è una noia ad agosto. La McConnell non ha una squadra di football forte, quindi è inutile che me ne interessi.

    È una cattiva idea – come sempre – ma ho il cellulare in mano e le mie dita scrivono e premono il tasto invio prima che riesca a fermarle. Sono passate tre settimane da quando ho parlato con Kelly. Il suo bambino è nato due mesi fa. È stato come prendere un ceffone in pieno viso. Una buona dose di vita reale di cui probabilmente avevo bisogno. Questa è stata la ragione più importante per cui ho rotto con lei – perché potesse avere certe cose. L’ho fatto perché l’amavo; volevo che avesse tutto ciò che desiderava. Ma accidenti quanto fa male vedere che la sua vita prosegue felice anche senza di me e che lei ha voltato pagina con così tanta facilità.

    Kelly rimase con me dopo l’incidente, durante il terzo anno delle superiori. Avevamo anche deciso di andare allo stesso college – era stato da sempre il nostro sogno. Ma col passare dei giorni mi resi conto dall’espressione del suo viso, che ormai era sempre più evidente, che si stava imponendo di mantenere la promessa che ci eravamo fatti quando in realtà avrebbe voluto tirarsi indietro. Ma mi amava troppo per ferirmi. Così fui io ad allontanarla da me. Alla fine dell’ultimo anno delle superiori la lasciai e cominciai a passare da una ragazza all’altra. Non so come fece ma, nonostante tutto, rimase mia amica.

    Vibra il cellulare, è arrivata la sua risposta: esito per qualche secondo davanti allo schermo, ho paura di vedere quel che mi ha scritto. Le ho solo chiesto come vanno le cose a casa con Jack, il suo bambino. Siamo amici da quattro anni. Amici – anche se ogni volta che la sento mi sembra che la lama di un coltello mi venga conficcata nel cuore. L’anno scorso si è sposata. Qualche mese dopo mi disse che era rimasta incinta, e fu un altro colpo tremendo.

    Faccio scorrere un dito sullo schermo e per prima cosa vedo la foto di un piedino minuscolo racchiuso tra le mani di Kelly – l’anello con il diamante al dito sinistro è come un pugno in pieno viso. Jared, suo marito, mi sopporta ma penso che non gli dispiacerebbe affatto se Kelly e io smettessimo di sentirci… una volta per tutte. Ho la sensazione che prima o poi il suo desiderio si avvererà: la lontananza e il tempo hanno un effetto strano sui sentimenti – ti aiutano a… dimenticare. O almeno ti fanno desiderare di dimenticare.

    "È bellissimo". Non riesco a scrivere altro.

    "Grazie". La sua risposta è altrettanto stringata. So che siamo vicini alla fine, e ci sto male. Stasera voglio sbronzarmi – con o senza Nate a farmi compagnia. Cazzo, basta appropriarsi di uno sgabello da Sally’s e fare come i clienti abituali che si piantano lì tutto il giorno.

    Cass

    «O h mio Dio. Hai portato letteralmente tutto quello che possiedi da Burbank a Oklahoma, sbaglio?», sbuffo trascinando due enormi borsoni, più il mio baule, lungo il vialetto che conduce al nostro dormitorio.

    «Questi erano i patti. Sarei venuta qui, ma senza rinunciare a essere me stessa – quindi senza rinunciare a tutte le mie cose», dice Paige, mia sorella, camminando impettita davanti a me con le borse più leggere. È nata un minuto prima di me, ma da come mi comanda si potrebbe dire che ci separano anni.

    Quando venne il momento di decidere in quale università andare, la scelta di Paige si restrinse tra la Berkeley e la McConnell, e la Berkeley era in assoluto quella che preferiva. Per me invece, era sempre stata la McConnell, e solo la McConnell. Aveva il miglior piano di studi di medicina dello sport e riabilitazione di tutto il paese, ed era proprio quello che io volevo fare – quello che ero destinata a fare. I miei genitori non avrebbero acconsentito che mi trasferissi a migliaia di chilometri di distanza senza qualcuno che mi tenesse d’occhio. Supervisione – una parola che mi faceva accapponare la pelle e che avevo sentito fin troppe volte. Supervisione e controllo erano le due parole abitualmente più usate quando si parlava di me, ma mai quando si parlava con me. Dio, quanto avrei desiderato che almeno per una volta qualcuno infilasse in quelle conversazioni anche la parola normale.

    Quindi, per quanto mia sorella sia insopportabile a volte, è anche una santa, perché scelse la McConnell… e lo fece solo per me. Le sono debitrice – le devo la vita.

    «Okay, ecco cosa faremo», attacca Paige non appena finiamo di scaricare i nostri bagagli, soprattutto i suoi, nella nostra stanza. «Prendo questo letto. Ma senza perdere un minuto di tempo chiedo di essere ammessa in una confraternita femminile. Mamma e papà non devono necessariamente sapere che non vivrò insieme a te».

    «Per me va bene», dico mentre apro il mio borsone e spalanco il coperchio del baule. Sento all’improvviso la borsa di Paige che si abbatte sulla mia schiena. «Ahi! Ma che ti prende?», le chiedo strofinandomi il punto dove la tracolla di pelle ha colpito la schiena nuda.

    «Il minimo che potresti fare è fingere che ti dispiaccia di non vivere con me», dice, socchiudendo gli occhi, e l’espressione del suo viso rivela che è rimasta un po’ ferita.

    «Oh Paigey, certo che mi mancherai. Ma non sopporto che tu sia costretta a farmi ancora da babysitter!». È veramente una cosa che odio. Credo che sia la cosa più brutta dell’essere un’adolescente affetta da sclerosi multipla – tutti si aspettano sempre che possa sopraggiungere qualche problema.

    Tutto ebbe inizio durante il primo anno delle superiori. Mi faceva male un occhio. Il dolore andava e veniva ma trascorrevano intere settimane tra un episodio e l’altro. Quando non riuscii più a ignorarlo, lo dissi ai miei genitori e andammo dall’oculista. La mia vista era perfetta quindi forse dipendeva dallo stress per la scuola o dal fatto che restavo disidratata durante le partite di calcio perché correvo tanto. Una diagnosi semplice e concisa. Ma anche totalmente errata.

    Poi venne la stanchezza. Anche questa volta la si liquidò in quattro e quattr’otto come conseguenza delle troppe partite di calcio giocate il che, naturalmente, sfociò in spiacevoli discussioni tra i miei genitori – mamma voleva che smettessi di giocare, punto e basta, mentre papà diceva che avevo solo bisogno di tonificare e potenziare di più i muscoli. Proprio a causa di queste tensioni nascosi loro il formicolio agli arti. Andò avanti per alcuni mesi, finché arrivò l’estate. Poi un giorno, non riuscii più a camminare.

    Mi alzai dal letto, rimasi in piedi, ma non riuscii a fare altro. Nell’istante in cui cercai di andare verso la porta o di spostarmi verso il guardaroba per vestirmi, barcollai e caddi. Mi sentivo come fossi ubriaca ma senza il conforto della bottiglia avvolta nel famoso sacchetto di carta. Chiamai a gran voce Paige e i miei genitori, e dalle loro espressioni capii che la vita che avevo vissuto fino a quel momento era finita per sempre.

    Dopo il primo ciclo di cure con iniezioni di steroidi, riuscii a camminare di nuovo – scomparsi tutti i sintomi, come la sfera che il mago ti fa oscillare davanti agli occhi finché non la vedi più. Solo che, proprio come il mago nasconde la sfera dietro la mano senza farsi vedere, anche la mia malattia non è scomparsa. È solo… dormiente.

    Le discussioni continuarono e i miei genitori si separarono per un breve periodo. Una volta diagnosticata la sclerosi multipla, mamma insistette perché lasciassi il calcio. Mi sentivo depressa. Allora papà mi incoraggiò a tornare a giocare – naturalmente tenuta sotto stretto controllo e purché mi limitassi negli allenamenti. L’anno seguente fu quasi tutto da dimenticare.

    Si susseguirono varie cure sperimentali per vedere quali medicine funzionassero meglio e scoprire quali effetti collaterali riuscissi a sopportare. Divenni anche piuttosto brava a farmi le iniezioni – tre volte a settimana per tre anni, finché l’anno scorso passai alla terapia per bocca. Comunque farmi le iniezioni non mi dava fastidio. Quello che m’infastidiva erano le continue domande e le accorate raccomandazioni da parte dei miei genitori: Come ti senti? Sei stanca? Dovresti riposarti; smettila di affaticarti tanto.

    Paige invece non mi soffocò mai con le sue eccessive premure. Durante tutto quel periodo, rimase sempre la stessa. È vero, è terribilmente egocentrica – in alcuni momenti non sopportava che tutte le attenzioni fossero rivolte a me a causa della mia malattia – ma la sua contrarietà era legata solo al fatto che quelle attenzioni non fossero dedicate a lei. E la cosa mi faceva piacere.

    Cercammo di trovare un accordo con i nostri genitori: che ci facessero andare all’università insieme. Lottammo per mesi – mamma voleva a tutti i costi tenermi a casa. Ma il punto è questo: la sclerosi multipla non andrà mai via, ce l’avrò sempre. Le iniezioni, le sperimentazioni, le terapie – non possono curare la malattia, possono solo rallentarla. Sono come la difesa della prima linea dei Pittsburgh Steelers – anche se molto meno efficaci. Forse più simili alla prima linea dei Miami Dolphins. Comunque alla fine ho fatto di testa mia. Ora che sono qui non permetterò che si parli di sclerosi multipla. Io sono Cass Owens, punto e basta.

    «Ho fame. Adesso», dice Paige schioccandomi le dita davanti agli occhi. Sorrido e guardo fuori dalla finestra, non mi sento affatto offesa. Sono libera.

    «Andiamo a mangiarci qualche schifezza fritta e unta», dico prendendo la borsa. Mentre le passo davanti, faccio finta di non vedere che alza gli occhi al cielo e che con voce lamentosa dice di volere solo un’insalata con un condimento dietetico. Libertà!

    Ty

    Nel momento in cui Nate entra da Sally’s, io mi sono già fatto due birre e intuisco, man mano che si avvicina, che sta per farmi una bella ramanzina. Lo capisco dai suoi gesti, da come fa scrocchiare il collo, inclinandolo di lato, e poi abbassa lo sguardo, scuotendo la testa a mo’ di rimprovero.

    «Risparmiatela, fratello», dico sollevando il bicchiere e finendo di bere la seconda birra mentre lui si siede e ammira i due boccali vuoti.

    «Hai chiamato Kelly, vero?». Non è una vera e propria domanda, quindi non rispondo. «Non so perché ti torturi in questo modo. Puoi avere qualunque altra donna. Accidenti, Ty – è una delle cose che ti riesce meglio. Conosci una donna diversa ogni cinque minuti, e dopo dieci tutte sono già innamorate di te».

    «Già, ma io non sono innamorato di loro. Nessuna è come Kelly», dico vinto da un senso di autocommiserazione.

    «No, ma forse… solo forse, qualcuna potrebbe essere meglio di lei, sai, diversa ma migliore. Se solo per una volta ci provassi, accidenti», dice Nate stendendo le gambe fuori dal divanetto e prendendo un menù dalla rastrelliera attaccata al muro. Non posso fare a meno di osservare i suoi muscoli che si distendono e in quel momento lo odio – solo per una frazione di secondo – perché lui è sano. Ovviamente non lo odio sul serio, ma a volte è difficile vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. «Ordinami un cheeseburger e patatine piccanti. Vado in bagno», dice uscendo dal divanetto e incamminandosi verso il retro del locale.

    Mamma dice sempre che Nate è il figlio romantico. Io invece sono tutto numeri, pragmatismo e logica. Non so, credo di avere anch’io un lato romantico – anche se conciato piuttosto male. È una debole fiammella che ancora brilla nel mio cuore, convinta che al mondo ci fosse un’unica ragazza che mi avrebbe potuto amare, anche se il suo amore non era destinato a durare per sempre.

    «Ahahahah! Tu non sei affatto sexy», dice una ragazza alle mie spalle a voce così alta che sono costretto a voltarmi. Quella voce, e il fatto di aver sentito la parola sexy, mi hanno fatto reagire quasi senza volerlo. Lancio un’occhiata oltre la mia spalla e inizialmente vedo solo due ragazze bionde. Non riesco a distinguere molto altro, ma se proprio fossi costretto, direi che sono entrambe dannatamente sexy. Quando mi passano accanto, inspiro e l’aria profuma di oceano. Una delle due è più alta dell’altra – magra ma muscolosa, di sicuro una abituata a correre. L’altra è formosa; indossa un abito con le spalline sotto il quale, immagino, non porta il reggiseno ma solo un grazioso paio di mutandine provocanti.

    «La tua sensualità è lampante», dice quella alta, e sento che fa schioccare la gomma da masticare. «La mia invece è invisibile, come la vera identità di un ninja».

    Mi scappa un sorriso. Questa ragazza è davvero divertente e, devo ammetterlo, quel che ha appena detto le fa guadagnare molti punti in fatto di sensualità. Tengo lo sguardo fisso davanti a me, facendo finta di guardare qualcosa sullo schermo del cellulare che ho posato sul tavolo, invece noto che le due ragazze si sono messe a sedere a un tavolo dall’altra parte della sala.

    «Cosa prendete oggi, Ty?», chiede Cal tirando fuori la penna per scrivere l’ordine da dietro l’orecchio. Non so perché si dia la briga di chiedermelo. Sono quattro settimane che veniamo qui e sono abbastanza sicuro che abbiamo sempre ordinato la stessa cosa.

    «Due cheeseburgers», dico con un cenno del capo a Nate che è comparso alle spalle di Cal e aspetta di rimettersi seduto.

    «Oh, ciao Nate», dice Cal mentre trascrive l’ordine, e poi infila di nuovo la penna in un punto non meglio identificato tra i capelli scompigliati e il cappellino con rete della Budweiser che indossa tutti i giorni.

    «Sto morendo di fame. Oggi gli allenamenti sono stati molto faticosi. È che… fa proprio caldo», dice Nate tirando fuori il cellulare per controllare qualcosa sullo schermo. Sono contento che sia un po’ distratto, perché io invece sto prestando molta attenzione a quel che avviene al tavolo che si trova a circa sei metri dal nostro.

    «Avete condimenti dietetici? O privi del tutto di grassi?», chiede la bionda tutta curve, arrotolando una ciocca di capelli attorno al dito mentre fa la domanda.

    «Abbiamo il condimento all’italiana», dice la donna di una certa età che sta prendendo la loro ordinazione.

    «Sarebbe olio e basta? Questo però non vuol dire che è dietetico. È senza grassi o a basso contenuto calorico?». È una ragazza difficile da accontentare e molto esigente.

    «È… all’italiana», dice la cameriera. Mi scappa una risatina, e l’altra ragazza, il ninja, mi guarda per un istante. Non so perché, ma i battiti del mio cuore accelerano leggermente quando mi rendo conto che mi ha notato.

    «Prenderà il condimento all’italiana. Ma lo porti a parte», dice la principessa ninja e la cameriera si allontana.

    «Buona idea. Se lo porta a parte è meno calorico», dice la diva. La mia principessa ninja si limita a fissarla, la osserva mentre tira fuori lo specchietto e si controlla il rossetto; poi mi lancia un’occhiata. Questa volta non mi agito; al contrario, sollevo leggermente il labbro a destra accennando un sorriso per farle capire che sono dalla sua parte – cavolo, sono decisamente dalla sua parte. Mi guarda scuotendo la testa incredula, poi sposta di nuovo lo sguardo sulla sua amica.

    «Se metti il condimento in un’altra scodella non ne cambi il contenuto calorico, Paige», dice e io sorrido di nuovo.

    «Ehi, cosa c’è di così divertente?», interviene Nate, ma io scuoto la testa e sollevo una mano sul tavolo.

    «Aspetta un attimo, voglio sentire come va a finire una cosa», sussurro. Lui aggrotta le sopracciglia e poi si volta a guardare le due ragazze alle sue spalle che mi hanno totalmente affascinato.

    «Allora perché diavolo me lo hai fatto portare a parte, Cass?», chiede e io subito memorizzo il nome che ha appena pronunciato.

    «Così ne puoi mettere di meno», sospira Cass.

    «È una cosa stupida», dice Paige.

    «Sì, solo ora me ne rendo conto», dice Cass, mentre si alza da tavola e si avvia verso la toilette. Mi sorride un’ultima volta prima di allontanarsi e io sollevo il boccale di birra vuoto in suo onore – la sexy principessa ninja, dotata della preziosa virtù della pazienza, la prossima ragazza che voglio conoscere in Oklahoma.

    Capitolo 2

    Cass

    «F accio male a essere agitata? Non dovrei esserlo così tanto, dovrei mantenere la calma. Giusto, tranquilla… uffa! … un bel respiro profondo, sono pronta. Okay, ora sono calma. Come sto?». Paige si limita a sollevare gli occhi al cielo e riprende a camminare decisa. «Allora? Non sto bene? Sono le scarpe, vero? O gli shorts? Avrei dovuto mettermi un vestito, o qualcosa di più carino. Non sono brava a decidere come vestirmi».

    «Cristo, Cass! Stai benissimo. Sei splendida. I ragazzi ti troveranno fantastica. Proprio come accadeva quando eravamo a casa. Ma se fai così ogni volta che andiamo a una festa, dovrò cominciare ad andarci senza di te», scatta Paige

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