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Per sempre tua
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E-book338 pagine4 ore

Per sempre tua

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Info su questo ebook

Transcend Duet Series

Swayze Samuels ha avuto un'intelligenza particolare sin da quando era piccola. A soli undici anni riusciva a sentire una connessione con eventi accaduti anni prima della sua nascita. Psicologi ed esperti di sviluppo infantile si sono occupati del suo caso, senza mai venirne a capo. Adesso Swayze ha ventun anni, è fresca di college e ha appena ottenuto per l'estate un lavoretto come babysitter di una bambina appena nata. Non appena fa la conoscenza del suo nuovo datore di lavoro, un professore di anatomia diventato da poco vedovo, qualcosa le sembra terribilmente familiare. Come è possibile che conosca tante cose di lui, nonostante la loro differenza di età?

Jewel E. Ann
È un’inguaribile romantica con uno spiccato senso dell’umorismo e una grande passione per la lettura. Ha lavorato per anni come igienista dentale, prima di decidere di dedicarsi alla famiglia e scoprire la vocazione per la scrittura. I battiti dell’amore è il primo romanzo pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita5 giu 2019
ISBN9788822734723
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    Anteprima del libro

    Per sempre tua - Jewel E. Ann

    2418

    Titolo originale: Transcend

    Copyright © 2018 by Jewel E. Ann

    Traduzione dall’inglese di Francesca Gazzaniga

    Prima edizione ebook: giugno 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l, Roma

    ISBN 978-88-227-3472-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Jewel E. Ann

    Per sempre tua

    Indice

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    A Shauna, Regina dei Nomi

    Capitolo uno

    Nevaeh. Heaven scritto al contrario. Paradiso. È il nome della bambina alla mia destra con un dito infilato nel naso. Sorrido sistemandomi sulla sedia. Nulla a che fare con quella sua disgustosa abitudine. In realtà, una delle ali dell’assorbente mi si è incollata ai peli pubici. Mamma ha paura degli assorbenti interni e dello shock anafilattico che potrebbero causare. Questi però, mi danno un fastidio tremendo.

    La receptionist continua a guardarci attraverso le lenti dei suoi occhiali da gufo, picchiettando la penna sul mento. «Nevaeh, ti serve un fazzoletto?», domanda.

    I miei genitori non sono poi i più strani del mondo. Per fortuna.

    Roy.

    Doris.

    Cherish.

    Wayne.

    Con più di diecimila scelte in un libro dei nomi, come si fa a prediligerne di tanto brutti?

    Heaven al contrario mi fissa come se avessi la risposta alla domanda della signorina. Non sono mica la punta del suo dito, cosa ne so di come si sta dentro al naso? Dopo averla osservata un po’ – più piccola di me, con i capelli biondi di cento lunghezze diverse a causa di quello che mia madre chiama taglio fai-da-te– rivolgo alla receptionist un cenno d’assenso.

    Senza spostare il dito perché potrebbe essersi incastrato, Nevaeh annuisce imitandomi. La ragazza porge una scatolina di fazzoletti. Entrambe mi fissano. Da quando le caccole toccano a me?

    «Swayze, hai bisogno di fare la pupù prima di andare?», domanda mamma, uscendo dall’ufficio dove ho fatto le analisi.

    Swayze. Sono io. Il nome peggiore di sempre – fino a cinque minuti fa, quando Nevaeh si è presentata offrendomi uno snack senza glutine, senza arachidi, senza lattosio, senza zucchero e senza gusto che aveva nel suo zainetto senza bisfenolo. Mio zio pensa che i millenial distruggeranno il mondo perché non hanno buon senso e tutto quello che sanno l’hanno imparato su internet. Potrebbe anche aver ragione, solo il tempo potrà provarlo, ma qual è allora la scusa dei miei genitori? O di quelli di Nevaeh? Il buon senso imporrebbe di dare ai figli un bel nome. Noi bambini non vogliamo essere unici o speciali, vogliamo solo integrarci.

    Afferro la scatola di fazzoletti e la butto sulla mia sedia vuota, voltandomi prima che Nevaeh si tolga il dito dal naso. Ci sono alcune cose che non voglio sapere, come per esempio perché la sala d’attesa puzzi di vomito alla ciliegia, perché ci sia un distributore dell’acqua ma non dei bicchieri e cosa accada nella narice destra di Nevaeh.

    «Bagno», mormoro, passando la punta del piede sul disegno geometrico rosso e bianco del tappeto.

    «Non ti sentiamo se parli guardandoti i piedi, Swayze», esclama papà come se l’avesse detto mille volte. Forse l’ha fatto.

    Sollevo il capo. «No, non ho bisogno di andare in bagno! O di fare pupù. Vi sembra che abbia ancora quattro anni?».

    I suoi occhi azzurri, uguali ai miei, osservano la stanza prima di posarsi su di me. «Shh… non c’è bisogno di urlare». Si passa la mano sulla testa quasi pelata, come se gli avessi scompigliato le poche ciocche di capelli che gli rimangono.

    «Andiamo, tesoro». Mia madre si allunga per prendermi la mano.

    Mi scosto.

    «Swayze».

    Come se darmi questo stupido nome non fosse stato abbastanza, deve anche trascinarne le sillabe. «Swaaaayzeeee». Chi desidererebbe mai un nome che faccia rima con ipnosi e psicosi?

    «Be’, avete detto che quando parlo guardandomi i piedi non mi sentite. Ora va meglio?!».

    Mi sentono. L’uomo che mi ha fatto gli esami si affaccia alla porta, fissandomi. Anche lui mi sente. Non riesco ad abbassare la voce. Qualcosa mi ha fatto alzare il volume e si è bloccato sulle «urla da parco giochi».

    «I poppanti fanno la pupù. Io non sono una poppante! Ho undici anni. E so cose che quelli della mia età non sanno. E quindi? Non vuol dire che abbia qualcosa che non va. Continuate a portarmi a fare questi stupidi esami e ad aspettare in sale d’aspetto puzzolenti con bambini strani con nomi orribili a cui piace risolvere enigmi irrisolvibili, tirarsi i capelli e mettersi le dita nel naso!».

    Stringendomi le mani, combatto l’impulso di tirarmi anche io i capelli. I miei genitori mi prendono per le braccia e mi trascinano fuori dalla stanza. Un attimo prima di raggiungere la porta, rivolgo a Nevaeh un sorriso di scuse. Lei si infila di nuovo il dito nel naso.

    «Quindi sono un genio?», chiedo con tono più calmo mentre i miei mi fanno entrare in fretta e furia in ascensore per poi scendere a rotta di collo quindici piani come se avessimo appena attentato alla vita del presidente. Di fianco alla nostra auto ibrida blu c’è una decapottabile rossa. Forse è dei genitori di Nevaeh. Anche se è un po’ troppo bella per gente che chiama la figlia Heaven al contrario. Il contrario di paradiso, non dovrebbe essere poi inferno?

    Dopo avermi controllato la cintura di sicurezza, come se una bambina di undici anni non fosse in grado di farlo da sola, mio padre mi guarda con la mascella tesa. È troppo furioso per parlare. Va bene. Capirò quando sarà pronto per dire qualcosa; la sua prima richiesta sarà una spiegazione. Non c’è molto altro che possa dire. Le mie parole, anche se pronunciate con tono più alto del necessario, hanno parlato da sé.

    Dopo lunghi minuti di tregua autoimposta, mio padre rivolge un’occhiata a mia madre e annuisce.

    «Swayze?». Lei mi osserva oltre la spalla, sistemandosi i capelli scuri dietro l’orecchio. Non noto alcuna rabbia nella sua voce. È dolce e vellutata come le caramelle gommose che compro quando andiamo al cinema.

    Temo che quello che dirà farà male come le carie che mi verranno se mangio troppi dolci.

    «Che ne diresti di provare una scuola nuova?».

    Sì. Mi sta trapanando senza anestesia. Sono stata in quattro scuole diverse. Tutti gli psicopedagogisti e esperti di sviluppo infantile nel raggio di ottanta chilometri mi hanno visitata. Hanno affermato che sono dotata, ma non in modo comune. Sono intelligente, ma non necessariamente un genio.

    I miei ricordi casuali di eventi storici, per nulla degni di nota, sono incomprensibili. Non suono la musica di Chopin né parlo fluentemente spagnolo. Mi piace parlare con gli adulti, ma sto bene anche con i miei coetanei. Non conosco così tanti nomi di generali. Mi è difficile anche elencare i presidenti in ordine. Ma la mia specialità sembrano essere alcuni fatti avvenuti a Madison, in Wisconsin, qualche anno prima della mia nascita.

    «Trasferirmi? Di nuovo?», sospiro mentre passiamo accanto al giardino botanico dell’università di Madison, uno dei posti che preferisco durante l’estate.

    «Vogliamo solo trovarne una che vada bene per te».

    «Quella in cui sono va bene».

    «Ma non è abbastanza stimolante».

    Alzo le spalle. «Cosa importa? Se so già quello che mi spiegano, allora non devo fare tanti compiti a casa come i miei compagni».

    «È potenziale sprecato». Mio padre mi rivolge un’occhiata veloce dallo specchietto retrovisore. Anche lui ha rinunciato a placare la mia scenata.

    «Potenziale significa…», inizia a spiegare mamma.

    «Possibilità, prospettive, successo futuro. Ho capito». Sono quasi certa che altri bambini di undici anni in quinta elementare abbiano sentito la parola potenziale. Non è che sia proprio una parola così difficile.

    «Sai, Swayze, i Gibson mandano Boomer in una scuola privata a solo un’ora da casa nostra. Se ci andassi anche tu, avresti già un amico».

    Boomer. Un altro nome orribile. Suona come Rottweiler. Un ragazzino carino però. Mi piace, ma non nel modo in cui io piaccio a lui. O almeno non credo. Mi porta sempre lo zaino fino al pullman dopo la scuola, ma mi slaccia anche il reggiseno in classe. Un reggiseno che non mi serve. Mia madre mi ha forzato a indossarlo visto che molte mie compagne lo portano. Io non ho il seno. Niente. Non c’è ancora nulla. Comunque lo metto per sentirmi come le altre e, a quanto pare, il fatto che Boomer me lo slacci ogni giorno durante l’ora di matematica significa che gli piaccio. Almeno questa è la storia che mia madre tenta di propinarmi.

    Ma io non ci credo.

    «Mi piace la mia scuola». Mi arrotolo i capelli biondi intorno al dito, poi faccio passare la ciocca tra le labbra.

    Mamma aggrotta la fronte. Non sopporta i capelli vicino alla bocca. Trovarne uno nel piatto le fa venire i conati di vomito e non riesce più a mangiare quel cibo per mesi. Papà minaccia sempre di farle trovare un capello nel gelato che lei divora di nascosto – il suo gelato.

    «L’anno prossimo andrai alle medie. È un bel momento per cambiare, non sarà così difficile». Papà annuisce come se dovesse convincere solo se stesso e mamma.

    «Mi piacciono i miei amici».

    «Te ne farai di nuovi», dice mamma, scuotendo la testa a causa della ciocca che ho tra le labbra.

    La tolgo e me la butto dietro la spalla. «Perché non posso essere normale e basta?»

    «Swayze, se farai ancora un tentativo, ti prometto che non ti chiederemo più di cambiare scuola, anche se questa scelta non dovesse rivelarsi la migliore». Mamma sussulta come se avesse qualcosa fermo in gola, forse la bile provocata dai miei capelli in bocca.

    Un ultimo cambiamento. Un’ultima scuola. Lo farò. Ma non credo che sarà davvero l’ultima.

    Capitolo due

    Dieci anni dopo

    «Swayze, cosa ti fa pensare che i tuoi genitori abbiano perso ogni speranza con te?», domanda il dottor Greyson.

    Carlton Greyson. Questo sì che è un nome ben scelto. Forte. Virile. Intelligente.

    Mio padre è morto d’infarto l’anno scorso. Io sto bene, ma mia madre ha proposto che entrambe usassimo parte dei soldi della sua assicurazione sulla vita per superare il lutto. Io pensavo a un viaggio in Costa Rica, lei ha optato per gli strizzacervelli.

    Ripeto, sto bene. Ma mia madre è più tranquilla sapendo che racconto le mie emozioni a qualcuno visto che non lei non lo faccio. Ho girato tra diversi psicologi e psichiatri alla ricerca di qualcuno che non mi infastidisse.

    Questa è la mia prima seduta con il dottor Greyson. È troppo presto per trarre delle conclusioni, ma il suo nome non mi disturba.

    «A mia mamma piacciono gli oggetti antichi. C’era anche un programma televisivo che una volta guardava sempre. Ci sono talmente tante aspettative – e speranze – tra la gente che pensa di possedere un tesoro nascosto. Io mi sono sentita quel tesoro per quasi tutta la vita. Abbiamo aspettato, passando da un esperto all’altro, da una scuola privata all’altra, che qualcuno descrivesse loro il mio dono – il mio valore. Mi immaginavo la loro espressione diventare quella di chi ha vinto alla lotteria».

    «E cosa è successo?».

    Fisso le mani che tiene unite in grembo – sono quelle di un uomo che non ha mai avuto a che fare nemmeno con un grammo di unto in tutta la sua vita. Chi avrebbe mai detto che un uomo con una perfetta manicure e un indice affusolato potesse essere tanto affascinante? Trovo l’ordine della stanza al contempo intimidatorio e confortante. Lui ha occhi profondi e color dell’argento, uguali ai capelli ingrigiti che si diradano verso una netta attaccatura. Mi ricorda Liam Neeson. Mi chiedo se anche lui abbia delle capacità molto particolari come il protagonista di Io vi troverò.

    Incrociando il suo sguardo, sorrido. «Quando ricevetti la mia ultima pagella, cinque anni fa, venne detto ai miei che ero una sedicenne perfettamente normale e che i miei risultati agli esami erano sopra la media, ma nulla che mi distinguesse troppo dai miei coetanei. Ero intelligente, ma non un genio. Consigliarono di iscrivermi a corsi avanzati, che mi avrebbero preparato ad affrontare l’università, ma non avevano considerato la possibilità di farmi anticipare anni di scuola. Comunque, quando mi sono diplomata al liceo, avevo già i crediti sufficienti per il primo anno di college».

    Il dottor Greyson guarda alcuni fogli del fascicolo che gli ho consegnato prima della seduta. Ormai sono abituata a portarmi sempre dietro un curriculum che includa tutti i miei voti. «Hai ottenuto quasi il massimo nel test di ammissione all’università e ti sei diplomata con una media altissima. Davvero ottimo. E ti sei appena laureata».

    Alzo le spalle. «Non ero la migliore della classe. Non ho ricevuto una borsa di studio completa per nessun college. Niente recensioni in riviste mediche. Nessuna apparizione sulla

    TV

    nazionale. Nessun biglietto della lotteria. Nessun tesoro nascosto. Ma sì, ho finito il college. Bello, no? Non tutti hanno una laurea. Spero di riuscire a diventare un insegnante di ruolo quest’anno. Altrimenti farò la supplente».

    «E ora?»

    «Mi occupo di grafica: siti web, banner, copertine di libri. Cose del genere».

    «Ti piace?».

    Nessuno me l’ha mai chiesto. Hanno tutti sempre pensato che, visto che lo facevo, dovesse piacermi. Da quando a tutti piace il proprio lavoro?

    «Non molto. Ma sono brava. È un lavoro temporaneo».

    Parliamo di argomenti a caso… una seduta giusto per conoscermi. Quando terminiamo, accetto di prendere un secondo appuntamento. Per la prima volta.

    Voltando le spalle alla scrivania della receptionist, afferro diversi cioccolatini da un contenitore di ceramica che sembra fatto da un bambino a scuola e vedo Nate. È invecchiato, ma riconoscerei ovunque i suoi capelli rossi ondulati. Ho sempre avuto una fissa per i ragazzi con i capelli mossi, soprattutto per quelli che li accettano e non cercano di domarli. Davvero, non c’è nulla di più attraente dei capelli scompigliati.

    Si è anche irrobustito. Non è più un ragazzo, ma un uomo con le spalle ampie e la mascella definita. E una barbetta spessa. Il testosterone gli calza a pennello. Sorrido quando solleva lo sguardo e quei suoi inconfondibili occhi blu.

    «Ehi, come stai?», domando appena lui torna a guardare per terra, con le braccia appoggiate alle cosce robuste avvolte nei jeans e le mani giunte.

    Mi guarda senza riconoscermi. Si guarda intorno prima di tornare a fissarmi.

    «Nate?»

    «Sì?», dice con tono incerto.

    «Wow, come sei cresciuto».

    Socchiude gli occhi. «Devi scusarmi, ma ti conosco?»

    «Vivevi in Gable Street. Nella casa verde pallido. Giocavi a hockey. È così che ti sei fatto quella cicatrice all’attaccatura dei capelli. Ricordi? Tu e altri bambini giocavate sul laghetto senza caschi e protezioni».

    Nate si porta una mano alla testa, sfiorando la cicatrice nascosta dai riccioli. «Come ti chiami?», domanda, stringendo ancora di più gli occhi.

    «Swayze Samuels». Come fa a non conoscermi? So che gli piace l’ananas e il peperoncino sulla pizza, molto burro sui popcorn al cinema – che diventano mollicci e schifosi – e dice agli amici che gli piacciono i videogiochi, ma la sua passione segreta sono gli scacchi. O almeno… lo erano. Non riesco ancora a capacitarmi di quanto sia cresciuto.

    Scuote la testa. «Hai dei fratelli o sorelle più grandi?»

    «No». Pazzesco. Io so che è figlio unico, quindi come mai lui non sa nulla di me? È un fan sfegatato dei Chicago Bears e questo infastidisce i suoi genitori perché chiunque abiti in Wisconsin dovrebbe tifare per i Packers.

    «Conosco i tuoi per caso?»

    «Nate Hunt, come puoi non ricordarti di me, noi…». Mi sistemo i capelli, che mi arrivano alle spalle, dietro l’orecchio e sospiro. «Noi…».

    Le altre persone in sala d’attesa sono interessate alla nostra conversazione; persino le due donne anziane sedute a due sedie di distanza da lui che fingono di leggere una rivista, mi rivolgono un’occhiata curiosa. È ridicolo. Sono passati anni, ha qualche ruga intorno agli occhi a dimostrarlo ma… io lo conosco.

    «Quanti anni hai?», domanda, interrompendo il balbettio con cui sto cercando di spiegare come lo conosco.

    «Ventuno».

    «Be’, io mi sono fatto questa cicatrice quando ne avevo quattordici. Quindi ventidue anni fa. Forse conosci qualcuno che mi conosceva quando ero piccolo».

    Gli rivolgo un cenno del capo, ma non sono d’accordo con una sola delle sue parole.

    «Uhm… i miei genitori… Travis e Krista Samuels? Mio padre è mancato un anno fa». Non ricordo di aver parlato di Nate con loro, ma deve essere successo per forza.

    «I nomi mi sono familiari». Nate annuisce piano, le labbra piegate di lato. «Però non riesco a identificarli. È anche vero che sono un po’ fuori fase, negli ultimi tempi». Accenna alla porta dell’ufficio del dottor Greyson. «Se sono qui dovrò pur avere qualcosa che non va, giusto?». Ridacchia ma più con tristezza che con umorismo.

    Lo conosco davvero, non ci siamo solo incontrati una volta e non ne ho solo sentito parlare. C’è di più. Un di più da pelle d’oca, da brividi che mi fanno rizzare i peli sulla schiena.

    «È stato bello rivederti». Lo lascio con un sorriso teso e me ne vado prima che possa dire: Vorrei poter dire lo stesso, perché non ha idea di chi io sia.

    E se fosse un tumore al cervello? Ci penso più di quanto dovrei. Comunque spiegherebbe molti dei pensieri unici, brillanti, avanzati, inconsistenti e spesso senza significato che mi passano per la testa.

    «Nate Hunt». Canticchio il suo nome uscendo dal parcheggio per tornare nel mio appartamento.

    È un déjà-vu molto intenso. Ho in testa dei ricordi vividi, chiari e dettagliati. I sogni lasciano dei vuoti e superano i confini della realtà. Questi non sono sogni. Conosco Nate Hunt.

    Dopo essermi fatta una doccia e preparato un toast al formaggio, che, distratta dal pensiero di Nate, avevo praticamente bruciato, scrivo un messaggio a mia madre dicendole che non potrò cenare con lei stasera – la nostra tradizione del giovedì sera. Mentre vado alla macchina, mi suona il telefono.

    «Un colloquio, mamma. Non ti do buca per niente di meglio».

    «Swayze, non ti chiamo per incolparti. Volevo solo accertarmi che stessi bene. Mi pare sia così, quindi dimmi del colloquio. È un vero lavoro o solo una cosa temporanea fino all’autunno?»

    «Non so ancora». Collego il telefono al Bluetooth mentre allontano la mia Elantra nera dal marciapiede. «È un posto come tata. Chiedono le sere e qualche weekend. Ti faccio sapere».

    «È qui a Madison?»

    «Sì, a pochi minuti da casa mia».

    «Com’è andata la seduta?». Ecco un bel cambio di argomento.

    «Bene».

    «Bene sul serio?». Mi conosce davvero.

    Sospiro. «Bene tanto da prendere un secondo appuntamento».

    «Sono felice di sentirtelo dire».

    Perché? Non sono io quella che piange ancora quando viene menzionato mio padre. Se non riconoscessi come conoscenti quelli che a quanto pare sono sconosciuti e non ricordassi cose avvenute prima della mia nascita, si potrebbe dire che sono perfettamente normale.

    «Mamma, il dottor Bunz ti ha già suggerito di vendere la casa?». Howard Bunz. Mi fa male la testa anche solo a pensare al suo nome. Non ho mai portato a termine la terapia con lui per ovvie ragioni.

    «No. Non sei un dottore, Swayze. Non so perché insisti tanto sul vendere. Il dottor

    B

    non ne ha parlato e non credo lo farà».

    «Dottor

    B

    , eh?».

    Schiocca la lingua. «È così che lo chiamano tutti i pazienti».

    «Non riesco a immaginare perché». Sorrido immettendomi in strada e la voce del navigatore si accavalla a quella di mia madre.

    «Smettila. Tu e la tua ossessione con i nomi. Anche se non pensi di avere problemi causati dalla morte di tuo padre, il tuo problema con i nomi è una ragione sufficiente per andare dallo psichiatra».

    Guardando lo specchietto retrovisore e quelli laterali, parcheggio tra due macchine molto costose. È una bella zona. Mi stupisce quasi vedere delle auto in strada e non nei garage.

    «Con problema con i nomi intendi le mie astute osservazioni sulle stranezze dell’umanità? Il bisogno della gente di essere unica a tutti i costi? L’ossessione di seguire le mode?»

    «Ci sentiamo, Swayze. E buona fortuna per il colloquio». Questo è il suo modo di chiudere una conversazione che sa di non poter vincere.

    «Ciao, mamma. Ti voglio bene».

    Sono in anticipo, quindi aspetto qualche minuto prima di incamminarmi sul lungo vialetto alberato che porta alla casa di mattoni dai soffitti alti e con delle colonne bianche all’ingresso.

    Suono il campanello e aspetto, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti neri e poi abbandonandole lungo i fianchi. Le sposto ancora, incrociandole sul petto e poi optando per rimetterle in tasca proprio quando la porta si apre. I nervi giocano brutti scherzi.

    Inarco di colpo le sopracciglia, incredula. «Nate».

    Capitolo tre

    Nate sbatte qualche volta le palpebre prima di sporgere il collo oltre la soglia e dare un’occhiata intorno. «Cosa ci fai qui?».

    Seguo il suo sguardo sul giardino lussuoso e ben tenuto, sugli alti sempreverdi che dividono la sua proprietà da quella dei vicini. È uno scherzo? Ci sono delle telecamere nascoste? Cosa mi sto perdendo?

    «Be’, io sono…». Tiro fuori il telefono per mostrargli la mail. «…Qui per il colloquio. Vedi?».

    Si irrigidisce mentre gli avvicino il cellulare, arrivando senza volerlo a un centimetro dal suo naso. In effetti venendo qui ero un po’ tesa, niente di che, la solita ansia da colloquio. Ma vedere Nate aprire la porta mi ha fatto tremare come durante un terremoto.

    «S. Samuels?». Strizza gli occhi fissando lo schermo.

    Non è necessario che il mondo intero conosca il mio nome. S. Samuels mi fa sembrare misteriosa, come un’autrice che non voglia rivelare la proprio identità sessuale – o una con un nome di merda. «Swayze. In caso te ne fossi dimenticato».

    Nate si massaggia la fronte come se volesse cancellare questo giorno dalla memoria. Deve avere qualcosa che non va se ha bisogno del dottor Greyson. Detto da me, potrebbe essere il bue che dà del cornuto all’asino. Mi dispiace per lui. Non è mia intenzione essere un ulteriore problema oggi.

    «Non me ne sono dimenticato. Mia cognata ha fissato questi colloqui. Scusa, non ho collegato il nome…», tende le labbra, «di prima».

    Di prima. Non di anni fa. Cosa succede? Non capisco nulla. Tumore. Devo avere un tumore al cervello – o sarà colpa degli alieni. Ogni anno faccio una visita medica. Il cancro sembra improbabile, ma spesso i medici non notano queste cose. Gli alieni sono un’alternativa più che plausibile. Devono esistere sul serio, altrimenti perché la

    NASA

    spenderebbe tanto per cercare la vita oltre la Terra?

    Dalle labbra pizzicate tra i denti e il tic nervoso del sopracciglio, capisco che non si sente a suo agio a far entrare in casa una stalker, per non parlare del fare un colloquio alla suddetta stalker per una posizione di tata.

    Non mi serve questo lavoro. Anche se sono economicamente alle strette, posso accettare qualche altro lavoro di grafica che mi aiuti ad arrivare all’autunno. Ma questo non

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