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Innamorarsi è la parte più facile
Innamorarsi è la parte più facile
Innamorarsi è la parte più facile
E-book385 pagine5 ore

Innamorarsi è la parte più facile

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Info su questo ebook

«Scritto divinamente e incredibilmente romantico!»
Daily Mail

Innamorarsi è la parte più facile... ciò che conta è quello che succede dopo!

L’amore è ricco di sfumature. Ognuno può dargli un significato diverso… Qualcuno dice che è tutta questione di chimica. E forse è persino vero. È qualcosa che scatta a livello molecolare… Oppure genetico. Non che importi davvero. Ciò che conta invece è quello che succede dopo che ci si è innamorati. Fisher e Ivy stanno insieme da appena diciannove giorni. Sono nella fase di entusiasmo iniziale, una sorta di luna di miele in cui non fanno altro che pensarsi, cercarsi, coccolarsi. Ogni particolare della loro vita è filtrato attraverso le lenti rosa dell’amore e il fatto che abbiano avuto pochissimo tempo per conoscersi è un dettaglio minimo... O almeno ne sono convinti. Nel corso di dodici mesi, durante i quali le loro vite sono destinate a cambiare per sempre, Fisher e Ivy affronteranno le sfide della vita di tutti i giorni, che richiedono impegno e responsabilità. Quando Ivy scoprirà di aspettare un bambino, sarà chiaro a entrambi che innamorarsi è un discorso, ma costruire insieme con convinzione il futuro è tutta un’altra storia.

Chiunque può innamorarsi
Non tutti sanno amare

Un autore tradotto in 12 lingue

«Emozionante e intelligente, con un intreccio ben strutturato e protagonisti straordinariamente credibili. Si fa amare.»
Daily Mail

«Un’appassionante commedia romantica sulle moderne relazioni sentimentali.»
Publishers Weekly

«L’esordio di questo autore è una favola moderna ipnotizzante. Divertente e profonda, raccomandata.»
Library Journal

«Chi tra noi non è stato stupido e ingenuo in amore? Gli amanti della commedia romantica adoreranno il personaggio di Fisher, specialmente dopo il finale, grandioso e commovente.»
Booklist
Andy Jones
Vive a Londra con sua moglie e le loro bambine. Durante il giorno lavora in un’agenzia pubblicitaria ma durante il weekend e a ore improponibili del mattino scrive. È autore di tre bestseller, ma ha scritto anche una raccolta di racconti e due libri illustrati per ragazzi. I suoi romanzi sono tradotti in 12 lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2018
ISBN9788822719072
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    Anteprima del libro

    Innamorarsi è la parte più facile - Andy Jones

    Capitolo 1

    È l’ultima settimana di agosto e la mia scottatura brucia mentre Ivy svolta con la macchina nella strada in cui sono cresciuto, diretta verso la casa in cui sono stato portato il giorno della mia nascita.

    Se la radio è accesa, Ivy canta; se è spenta, fischietta, e male anche. Il motivetto mi è quasi famigliare, ma non riesco ad afferrarlo. Il lato sinistro del viso di Ivy è segnato da una cicatrice che si è procurata da piccola, in un incidente: le linee ormai sono bianche, ma i solchi e i disallineamenti sono netti; quando fischietta, la cicatrice si contrae e si fa più profonda. Non so se ciò influisca sul suo fischiettare, ma a giudicare anche da come canta, è solo stonata e il peggio è che non se ne rende minimamente conto. Stiamo insieme da meno di tre settimane, perciò è un po’ troppo presto per stilare una lista di cose che adoro della mia ragazza, ma se dovessi farlo, il fischio inconsapevolmente stonato di Ivy sarebbe tra le prime. E visto che stiamo parlando di stadi di una relazione, penso sia un po’ presto anche per le presentazioni in famiglia. Eppure eccoci qui, a circa un minuto da casa.

    «Preparati», la avverto.

    Ivy si volta verso di me. «Eh?»

    «Per i miei», continuo. «Sono un po’… sai…».

    «Non preoccuparti», replica lei. «Ho già conosciuto i genitori di qualche ragazzo con cui uscivo, in passato. Un sacco di volte, centinaia di volte». Sorride.

    «Divertente, ma non è di te che mi preoccupo».

    Giriamo l’angolo ed ecco comparire la casa di papà. Non ho mai prestato attenzione all’aspetto dell’abitazione della mia infanzia; da che ricordi, è sempre la stessa e non la osservo più di quanto osservi i miei piedi, forse persino meno. Ma oggi, con Ivy al mio fianco, mi rendo perfettamente conto di quanto sia comune e banale, e di tutto ciò che non è. Le dimore vittoriane, come quella in cui vivo a Londra, migliorano con il trascorrere del tempo, trasudano personalità e integrità; le case come questa, invece, costruite negli anni Sessanta e Settanta, invecchiano come operai di una fabbrica, abbrutiti dal tempo, dalla fatica, dal fumo e dalla delusione. Forse non è la scottatura che brucia, forse è il mio atteggiamento da snob. Lancio un’occhiata a Ivy, che mi guarda di sottecchi, aggrotta le sopracciglia e parcheggia di fronte al numero 9 di Rose Park.

    Ma il problema non è la casa, bensì la famiglia che la abita.

    Probabilmente ci stavano aspettando con ansia, perché prima che Ivy possa spegnere il motore, mio padre, mia sorella, mio cognato e le mie nipotine gemelle escono dalla porta di casa. Saluto, sorrido, dico: «Ciao» attraverso il parabrezza, ma nessuno mi sta guardando. I miei famigliari si allineano in mezzo alla strada, con il viso acceso dall’entusiasmo, mentre papà apre la portiera a Ivy neanche fosse una diplomatica. Le gemelle, Imogen e Rosalind, hanno solo dieci anni, perciò posso perdonare loro il fatto che ballino sul posto con impazienza e si azzuffino per vedere meglio la mia ragazza (in effetti, è proprio bello dire: la mia ragazza), ma mia sorella e mio padre hanno quasi cent’anni in due e si stanno comportando da imbecilli. Ed è allora che mi viene in mente che cosa stava fischiettando Ivy: It Must Be Love. Scende dall’auto e viene risucchiata in un abbraccio spezzaossa da papà. Faccio una smorfia a mo’ di scuse quando la solleva da terra. Per tutta risposta, Ivy mi fa l’occhiolino o una smorfia, difficile a dirsi visto che ha il viso spiaccicato contro il collo del mio vecchio.

    Mentre scendo dall’auto, mi rendo conto che potrei aver frainteso il fischiettio di Ivy. Più ci penso, più sono convinto che si trattasse di House of Fun o forse persino di Embarrassment. Qualunque cosa fosse, presentarla a casa è stata decisamente una follia.

    Quando il comitato d’accoglienza si toglie dalla strada ed entra in casa, ormai ho già tolto le valigie dal baule, le ho portate di sopra, ho fatto pipì, ho messo sul fuoco il bollitore e preparato del tè.

    «Il tè è pronto», annuncio, nel momento in cui la truppa sfila in cucina.

    «Non abbiamo del vino?», chiede Maria.

    «Dello champagne può andare?», domanda papà, aprendo il frigo con un tremendo gesto plateale.

    «Wow», commenta Ivy.

    «Be’», dice papà, «è un’occasione speciale, no? Vai a prendere i bicchieri, figliolo». Poi conduce Ivy in soggiorno.

    Maria rimane con me per aiutarmi a spolverare cinque calici. «Sembra carina», commenta, con un sorrisetto.

    «Già. Hermione non c’è?», chiedo, dribblando il sarcasmo inevitabile della mia sorellona (che ci trova in te?).

    Maria non aveva ancora compiuto sedici anni quando ha dato alla luce la mia nipotina più grande. Mamma era mancata meno di un anno prima e la piccola Herm ha svolto un ruolo importante nel superamento collettivo del lutto. Per i primi sei anni di vita di Hermione (finché Maria non ha conosciuto e sposato Hector) sono stato, credo, più un padre che uno zio per lei. Più di dieci anni dopo, continuo a considerarla più una figlia che una nipote.

    «È fuori con un ragazzo», risponde Maria.

    «Scherzi? Che tipo è?».

    Maria si stringe nelle spalle. «Meglio dell’ultimo cretino».

    «Non è difficile. Speravo di trovarla qui».

    «Non puoi competere con un nuovo amore», replica Maria.

    «Non sono propriamente d’accordo», dico. «Forza, andiamo a salvare Ivy da papà».

    Quando raggiungiamo il soggiorno, papà ha già estratto gli album di famiglia.

    È la prima volta in assoluto che porto a casa una ragazza, e suppongo che tutti non vedessero l’ora di tirar fuori il loro miglior repertorio. Sorseggio così il mio champagne e sopporto l’umiliazione da vero uomo mentre i presenti prendono in giro i miei vari tagli di capelli e vestiti nel corso degli anni. La mia ragazza da ben diciannove giorni inclina il bicchiere verso di me, mi fa un sorriso civettuolo e l’occhiolino.

    Io e Ivy lavoriamo entrambi nell’industria cinematografica (nel mio caso, si tratta di spot pubblicitari, nel suo di qualunque tipo di produzione), il che significa che essenzialmente siamo freelance. Abbiamo trascorso i primi quattro giorni insieme barricati nell’appartamento di Ivy. Senza dichiararlo esplicitamente, il nostro tacito accordo era che non ci saremmo avventurati all’esterno finché non fosse stato inevitabile. Capivamo entrambi che una volta esplosa la bolla, sarebbe stato impossibile tornare alla complicità stupida, intima dei Primi Giorni. Quando le provviste avevano cominciato a scarseggiare, avevamo bevuto caffè amaro, sbocconcellato il pane raffermo avanzato e mangiato toast con i buchi. Per cena avevamo uova e biscotti, panini imbottiti con melanzane e maionese, e pasta condita con del brodo di pollo. Ivy leggeva mentre io guardavo serie poliziesche americane sulla sua tv portatile scassata. Abbiamo giocato a Monopoli, Scarabeo e Snap! Ci siamo ubriacati con il vino, la vodka e infine con un superalcolico semicristallizzato di origine ignota. Abbiamo evitato di ordinare qualsiasi tipo di cibo che non fosse pizza, sapendo che i fattorini sarebbero stati degni del copione di un film romantico solo se avessero guidato dei motorini e non un furgone del supermercato. Poi un lavoro ha cambiato tutto: Ivy è stata ingaggiata per uno spot per tutta la giornata di venerdì. Prima di andare sul set, mi ha riaccompagnato a casa consegnandomi una borsa piena di suoi vestiti, e ci siamo salutati con un bacio appassionato, di quelli che di solito ci si scambia in aeroporto.

    La settimana successiva, pur essendo impegnati con il lavoro, abbiamo trascorso insieme tutte le sere, qualche volta ci siamo visti al ristorante, altre volte direttamente a letto. Il secondo sabato dall’inizio della nostra relazione, abbiamo caricato la mia Fiat 126 e siamo partiti senza alcun programma o destinazione, dormendo nella New Forest, nei Cotswold, nelle Yorkshire Dales e nel Peak District. Abbiamo passeggiato, mangiato, bevuto e saltato la colazione ogni mattina. Ieri mi sono reso conto che eravamo a meno di due ore di strada da casa di mio padre ed ero troppo di buon umore per non passare a trovarlo. Io e Ivy dobbiamo aver guidato per più di ottocento chilometri nell’ultima settimana – abbiamo cantato, Ivy mi lanciava in bocca le M&M’s dal sedile del passeggero e io l’ho imboccata con le Skittles quando ci siamo dati il cambio al volante –, ma c’è stato qualcosa di diverso nel tragitto fino a qui. Sarei persino in grado di identificare il punto esatto in cui l’atmosfera è cambiata.

    Ci siamo fermati in una cittadina minuscola per mangiare qualcosa e per fare spese: Ivy è entrata in farmacia per comprare uno spazzolino e altra roba, mentre io sono andato al supermercato. Ci siamo rincontrati in macchina, Ivy aveva una borsa piena di prodotti per il bagno, io di cibo e bottiglie tintinnanti. E da quel momento in poi qualcosa è… cambiato. Niente di lampante, ma Ivy era decisamente più silenziosa. Ha cantato con meno entusiasmo, non ha giocato all’assassino, non mi ha stretto il ginocchio con quell’affetto svagato che ho iniziato a bramare. Forse era nervosa al pensiero di conoscere la mia famiglia. E, visto l’interrogatorio in corso, chi potrebbe biasimarla?

    Papà si informa su dove abitano i genitori di Ivy, su come si chiamano e se vadano o meno in chiesa; Hector le chiede se una truccatrice guadagna parecchio, se ha un commercialista, un sito web e se ha mai conosciuto Madonna; le gemelle vogliono sapere se ha delle sorelle, dei fratelli, degli animali domestici, se preferisce i gatti o i cani, se le piacerebbe essere una sirena, una fata o una principessa; a Maria, invece, interessa capire dove Ivy abbia comprato i suoi gemelli, chi è il suo parrucchiere, se abbia sempre portato i capelli lunghi e cosa ci trova in me.

    «Renditi utile», mi dice Maria, agitando un bicchiere vuoto in aria.

    Butto indietro la testa e sospiro. «Mi sono appena seduto».

    «Sei stato seduto per tre ore», ribatte papà. «Forza, sgranchisciti le gambe».

    Mi alzo ed esco dalla stanza strisciando i piedi, sbuffando e borbottando sottovoce. Non è che io ce l’abbia con la mia famiglia perché desidera un altro drink o vuole monopolizzare l’attenzione della mia ragazza, ma la verità è che conosco davvero poco la donna di cui sono innamorato e sono impaziente quanto loro di ascoltare le sue risposte. So che preferisce il sidro alla birra, che adora lo sformato di pollo e porri, e che russa quando beve troppo; so che i suoi capelli profumano di cocco e che al mattino ha un’alitosi tremenda; so che a otto anni ha sfondato un tavolino da caffè di cristallo e che le Skittles sono i suoi dolcetti preferiti. Ma c’è ancora tantissimo che non so: il suo Beatles preferito, il nome del suo primo animaletto domestico, del suo primo ragazzo e del suo primo disco; non conosco nemmeno il suo secondo nome, santo cielo. E per qualche ragione, mi interessa particolarmente la sua opinione sulle fate e le sirene.

    Quando faccio ritorno con una bottiglia di vino, tutti, papà e Hector inclusi, stanno ascoltando con attenzione rapita Ivy che descrive il modo migliore per affilare la punta dell’eyeliner.

    «A che ora si cena?», chiede Maria.

    «Sto morendo di fame», aggiunge Hector.

    «Che si mangia?», domandano le gemelle.

    Tutti si voltano verso di me e io lascio a passi pesanti la stanza, brontolando a proposito di schiavitù, impertinenza e ingratitudine.

    Quando papà entra in cucina, ho tagliato quattro petti di pollo, tre cipolle, due peperoncini, sei peperoni rossi, mezzo spicchio d’aglio e mi sono già mangiato un terzo di chorizo affumicato.

    «Ti serve una mano?»

    «Ho quasi fatto», rispondo.

    «Allora», esordisce papà, «questo è uno sviluppo inaspettato».

    «Concordo».

    «Prendi», mi dice, appoggiando un bicchiere di vino accanto al tagliere.

    «Salute». Bevo un sorso e poi faccio un cenno in direzione del soggiorno. «E?»

    «Avresti potuto fare di peggio», risponde, con un sorriso.

    «Oh, l’ho fatto», replico. «Cristo, se l’ho fatto».

    Papà alza gli occhi al cielo, affettuosamente rassegnato e paziente. Insegna religione nella scuola che ho frequentato quasi vent’anni fa, e va a messa tra le due e le cinque volte a settimana; è quasi peggio di un prete.

    «Scusa», aggiungo.

    «Nomina un’altra volta il nome del Figlio di Dio e pregherò per te».

    Ci troviamo gomito a gomito attorno al piccolo tavolo da pranzo, ma la vicinanza è piacevole, intima mentre passiamo in rassegna vecchi aneddoti e scoliamo diverse bottiglie di vino. Sono seduto distante da Ivy, che ora è schiacciata tra mio papà e mia sorella, e anche se vorrei averla al mio fianco e non dall’altra parte del tavolo, apprezzo l’opportunità di osservarla mentre intrattiene e asseconda la mia famiglia: ride alle loro battute, ascolta le loro storielle e non perde occasione di unirsi alle prese in giro nei miei confronti. La mia famiglia è già pazza di lei, ognuno cerca di catturare la sua attenzione, a colpi di scherzi, vanterie e rivelazioni. Allungo una gamba sotto il tavolo e sfioro l’interno di quello che presumo essere lo stinco di Ivy. Maria sussulta, dando una ginocchiata al tavolo e facendo tintinnare le posate.

    «Che cavolo stai facendo?» «Ho avuto un crampo», rispondo e Maria mi guarda come se fossi fuori di testa.

    «Che stai combinando?», domanda Ivy.

    «Niente. Mi sto stirando».

    Ivy mi guarda con gli occhi ridotti a fessure e si volta verso Maria. «Ti stava facendo… il piedino?».

    D’istinto guardo in direzione di papà, che all’improvviso è rapito dalla decorazione del suo piatto.

    «Che cos’è il piedino?», interviene Imogen, la più curiosa delle gemelle, nonché la maggiore, nata ben venti minuti prima dell’altra.

    «Non è niente», risponde Maria.

    «È una cosa sconcia che fanno i ragazzi», aggiunge Ivy, facendo ridere le gemelle.

    «Mi stavo stirando!».

    «Non sei credibile», replica Ivy ed Hector le applaude.

    Per il resto del pasto, tengo i piedi saldamente sotto la sedia. A un soffio dal caffè, penso quasi di averla scampata senza ulteriori incidenti.

    Siamo al dolce (è uno dei pochi momenti in cui nella stanza regna il silenzio poiché tutti si stanno gustando la propria fetta di cheesecake), quando papà dichiara: «A proposito, William, stanotte dormirò nella tua vecchia stanza, così tu e Ivy potrete usare il mio letto».

    Probabilmente dura meno di quanto non sembri a me, ma c’è decisamente una lunga pausa imbarazzata mentre le parole di mio padre, e in particolare la parola usare, aleggiano nella stanza. Con la forchetta ancora tra le labbra, Ivy guarda mio padre, sorride, mormora un «grazie», o forse un «fantastico».

    Maria lancia un’occhiata a Ivy e fa un sorrisetto; Hector guarda me e fa una smorfia. Io abbasso lo sguardo sulla mia fetta di torta e mi sento arrossire.

    Durante il tragitto fin qui mi ero chiesto come ci saremmo sistemati per la notte. Papà è super cattolico, nonché l’unico in casa ad avere un letto matrimoniale, perciò mi ero rassegnato a dormire da solo per la prima volta da quando io e Ivy ci siamo messi insieme. Da un lato, sarebbe stato un peccato; dall’altro, però, prima o poi sarebbe comunque successo e, se devo essere del tutto sincero, sono esausto. Inoltre, rinunciando a dormire con Ivy mi sarei evitato qualsiasi conversazione imbarazzante con mio padre.

    «Ho cambiato le lenzuola», dichiara papà e, quando commetto l’errore di incrociare il suo sguardo, quello sciocco mi fa l’occhiolino. Il suo non è assolutamente un occhiolino lascivo, anzi lo definirei un gesto di autocompiacimento per essersi comportato da padre moderno e ben organizzato. Ma un occhiolino rimane pur sempre un occhiolino e, se dovessi piantare una bandiera a terra, sarebbe quello l’istante che ha decretato la morte della mia vita sessuale.

    Mentre ci spogliamo per metterci a letto, l’imbarazzo è tangibile: inciampo nel togliermi i jeans, vergognandomi della mia nudità pallida e cascante; per la prima volta da quando stiamo insieme, Ivy si sdraia con indosso delle mutande e una maglietta. Con ogni probabilità, sono stato concepito in questo letto e, anche se non ho alcun desiderio di andare oltre un bacio sulle labbra, un po’ mi offende che Ivy sia convinta che i giochi sono chiusi. Tra l’altro, ho bevuto una bottiglia e mezzo di vino, perciò le parole mi escono di bocca prima che il mio cervello abbia occasione di intervenire.

    «Ma come siamo timide stasera», le dico, biascicando un po’.

    «Sono stanca», taglia corto Ivy. «Se permetti».

    Se permetti?

    Forse ho bevuto più di quanto pensassi perché rispondo in automatico: «Certo, come ti pare». E la mia replica mi pesa addosso come un macigno.

    E anche se poi cala il silenzio e non ci sono né scuse né accuse, non ci siamo mai trovati a un passo dal litigare come ora. Quando spengo la luce e mi sdraio sul letto di mio padre, non c’è neanche un briciolo d’affetto nella stanza.

    Individuo la testa di Ivy, rivolta lontano da me. «Notte», le dico, baciandole i capelli.

    Ivy sospira. «Notte», risponde piano, ma molto piano.

    Il mattino dopo ci baciamo, ma durante la notte si è perso qualcosa: urgenza, elettricità, promessa… un certo non so che, insomma. Non aiuta di certo che io abbia un dopo sbronza colossale, mentre Ivy sembra non risentire per nulla dei bagordi di ieri sera.

    Si fa una lunga doccia nel bagno in camera, emergendo dalla stanza piena di vapore asciutta, vestita e con i capelli avvolti nell’asciugamano a mo’ di turbante. Sono colpito dal fatto che all’improvviso non giri più nuda. Ivy non solo ha delle cicatrici sul lato sinistro del viso, della gola e del collo, ma anche sulla pancia, sul fianco, sull’avambraccio, sulla coscia e sul seno destro; nonostante ciò, non si fa problemi a vagare per casa nuda o quasi, mentre dà da mangiare al pesce rosso, prepara il caffè e i suoi cereali. Sono certo che abbiamo passato la metà del nostro tempo svegli senza neanche un indumento addosso. Perciò sì, sono colpito quando la vedo uscire dal bagno con indosso un paio di jeans, una maglietta e un cardigan.

    Nel tempo che impiego a farmi la doccia, Ivy è sparita. La trovo di sotto, intenta a parlare con papà che, in maniera davvero poco elegante, ha ammucchiato sul tavolo della cucina tre confezioni di succo di frutta, e ogni scatola di cereali, vasetto o tubetto di sostanza spalmabile che possiede. Al momento sta cercando di preparare del tè e contemporaneamente di imburrare dei toast, facendo un deplorevole disastro con entrambi.

    «È sicuro che non la posso aiutare?», chiede Ivy.

    «Tutto sotto controllo», risponde papà, sistemando il coperchio del bollitore al suo posto dopo ben due tentativi. «Allora, come lo prendi il tè… dannazione! Hai detto che volevi il caffè, vero?»

    «Va bene anche il tè».

    Anziché lasciar bollire il tè, papà svuota il bollitore nel lavandino.

    «Che sbadato», commenta, dandosi un colpetto sulla fronte. «No, hai detto che volevi il caffè, perciò te lo preparo. Quello istantaneo va bene?».

    È risaputo che Ivy sia esigente in fatto di caffè e so perfettamente che preferirebbe non bere nulla piuttosto che bere del caffè istantaneo, perciò quando dice a papà: «Istantaneo è perfetto», provo un moto d’affetto nei suoi confronti.

    Mentre papà comincia a riempire nuovamente il bollitore, il rilevatore di fumo della cucina inizia a emettere un bip acuto e intermittente e il mio mal di testa martellante si trasforma all’istante in un mostro rabbioso con i denti aguzzi. Dal tostapane sta uscendo del fumo nero, ma papà se ne sta lì in piedi impalato e gira più volte lo sguardo dal tostapane all’allarme, indeciso su cosa affrontare per primo. Sempre con il bollitore in mano, afferra un canovaccio abbandonato accanto al frigo e colpisce l’allarme tre volte finché non cade a terra e si spacca in due; chissà come, uno dei due pezzi continua a fare bip, anche se con molto meno entusiasmo, perciò papà lo pesta forte, facendolo spegnere del tutto. Il tostapane scoppietta.

    Papà sorride a Ivy come un folle. «Me ne serviva comunque uno nuovo», dichiara.

    Raccolgo i frammenti del rilevatore di fumo mentre papà recupera il toast carbonizzato e si mette a grattare via le parti bruciacchiate nel lavandino.

    «Dateci dentro», dice papà, indicando con un coltello annerito le scatole di cereali e lasciandoci intendere che non sarebbe stato contento finché non avessimo mangiato tutto quanto. Pertanto, ci godiamo una colazione a base di toast bruciati, cereali ammuffiti e caffè istantaneo, mentre papà riprende da dove si era interrotto ieri sera e ricomincia a fare il terzo grado a Ivy e a umiliare me.

    Per fortuna Ivy domani deve lavorare, deve girare uno spot per un costruttore di auto tedesco, perciò ci mettiamo in viaggio prima delle dieci e prima che papà possa infliggere danni ulteriori agli elettrodomestici o alla mia relazione con lei. Insiste comunque per prepararci il pranzo al sacco e ci consegna abbastanza banane marroni, pere molli e sandwich al formaggio incartati da bastarci per una settimana. C’è ancora la concreta possibilità che io abbia troppo alcol in corpo, perciò Ivy guida mentre io premo la testa contro il vetro freddo del finestrino per farmi passare un po’ il dopo sbronza.

    La Fiat è una gentile concessione del mio migliore amico, El; me l’ha regalata quando la malattia di Huntington ha compromesso a tal punto i suoi movimenti da impedirgli di guidare. Un adesivo sul paraurti invita gli altri autisti a suonare il clacson se sono eccitati, su un altro, invece (adesivo da rimorchio, lo chiama El), è scritto: Sono così gay che nemmeno la mia guida è da etero. Quindi, procedendo verso sud in autostrada, un’auto dopo l’altra, un furgone dopo l’altro, un tir dopo l’altro ci suonano, urlano o fanno le corna. La settimana scorsa era alquanto divertente, oggi lo è un po’ meno.

    «Mi chiedo se pensino che io sia una donna», commento, quando una Ford Galaxy ci sorpassa strombazzando il clacson, e tre bambini allegri ci salutano dal sedile posteriore.

    «Perché?», domanda Ivy, senza sorridere.

    «Be’… per colpa degli adesivi sul paraurti». Ivy si acciglia. «Tu chiaramente non sei un uomo». Aspetto un sorriso di conferma, ma non arriva. «Perciò, se fossimo una coppia gay, io dovrei essere una donna». Mi passo una mano sui capelli rossi rasati. «La più mascolina delle due».

    «Magari pensano che siamo solo amici», ribatte Ivy.

    Passo i chilometri successivi ad agitarmi e a domandarmi se possa averla offesa. Forse alcune delle sue migliori amiche sono lesbiche. Oppure lo è sua zia. Non me l’ha mai accennato e l’argomento non è venuto fuori durante l’interrogatorio di ieri sera, ma tutto è possibile.

    Alla radio parte un’altra canzone: Could It Be Magic.

    «Chi è il tuo Beatles preferito?», chiedo.

    Ivy mi guarda di sottecchi. «Lo sai, vero, che questa è una canzone dei Take That?».

    A essere onesto, credevo fosse dei Boyzone, ma annuisco comunque. «Certo».

    Ivy rimane in silenzio.

    «Allora?». La incalzo. «Quale?».

    Nella risposta di Ivy c’è un che di impaziente e pungente, e ora sono certo che sia arrabbiata. Probabilmente perché ieri sera mi sono comportato da insensibile o qualcosa del genere.

    «I Beatles», continuo allegro; anziché scusarmi per ieri sera (e quindi ricordare l’accaduto a Ivy), decido che la soluzione migliore sia nascondere il problema sotto un bello strato di pimpante buonumore. «John, Paul, Ringo o l’altro?», domando.

    «L’altro», risponde la mia amata.

    «Mick o Keef?», persisto.

    «Non abbiamo già fatto questo gioco ieri sera?»

    «Già. Be’, per lo meno tu ci hai giocato parecchio; io stavo cucinando. Il fatto è che mi sono reso conto quanto poco ancora ci conosciamo. Tutto qui».

    Ivy passa sulla corsia di sorpasso per superare una fila di macchine che procedono almeno venti chilometri orari sotto il limite di velocità. Per la Fiat è un duro colpo e sferraglia mentre passiamo accanto a un gruppo di auto e furgoni così lentamente che potrei sporgermi dal finestrino e stringere la mano a tutti gli autisti sorpassati. Rientriamo nella corsia centrale e riprendo a respirare.

    «Scusa per ieri sera», le dico, abbandonando la politica del finto tonto.

    «Non c’è problema. I tuoi sono incantevoli».

    «No, mi sto scusando per… il mio atteggiamento».

    «Non è successo niente».

    Aspetto trenta secondi, ma Ivy non definisce anche me incantevole.

    E chiaramente non ho fretta di sapere quale sia la canzone dei Take That preferita di Ivy; e non mi importano davvero né il voto che ha preso agli esami di maturità né il nome del suo primo gatto. Ma ci sono altri dettagli che mi sembra importante conoscere, per quanto siano banali.

    «Non so nemmeno quand’è il tuo compleanno».

    «Il ventinove ottobre», mi informa lei.

    C’è un momento di silenzio. Ivy mi lancia un’occhiata, sostiene il mio sguardo per un secondo, inarca un sopracciglio a più non posso. L’ombra di un sorriso le appare sulle labbra. «Compio quarantun anni», mi dice, tornando a guardare la strada.

    Prima che io riesca a replicare qualcosa, ci sorpassano otto auto, due furgoni e due camion.

    «Bello», commento, come se, anziché la sua età, Ivy mi abbia rivelato di avere un talento o un’abilità particolare: suonavo la chitarra in un gruppo heavy metal, ho corso la maratona in 2:58, posso montare un ak47 bendata. «Bello».

    Quest’informazione mi ha spiazzato (non che ci voglia molto a sconvolgere il mio equilibrio precario stamattina) e nessuno di noi due aggiunge altro per i successivi venti chilometri circa.

    Ivy compirà quarantun anni il prossimo ottobre, il che significa che ha nove anni più di me. Quando lei aveva la mia età, io avevo ventidue anni. Quando lei aveva ventidue anni, io ne avevo tredici. E, di conseguenza, quando io avrò l’età che ha ora, lei spegnerà cinquanta candeline; mettetela come vi pare, ma sarà vecchia. Non voglio nemmeno pensare a quanti anni avrà Ivy quando li compirò io, cinquant’anni. Un uomo a cinquant’anni si mantiene ancora bene: è un’epoca di capelli sale e pepe che conferiscono un’aria distinta e non tanto di rughe, quanto piuttosto di linee di saggezza conquistate a fatica. Mi si accappona la pelle al pensiero di quanti anni avrà Ivy quando io taglierò il traguardo del mezzo secolo. Non dimostra la sua età: ha un fisico tonico e la sua pelle è liscia, dove non è segnata dalle cicatrici. In questo momento, provo il desiderio irrefrenabile di voltarmi ed esaminarle gli angoli degli occhi per individuare le zampe di gallina. La faccenda si sistemerà, immagino, quando arriverò agli ottanta. È anche vero, però, che le donne tendono a vivere più a lungo degli uomini, perciò ci sono buone probabilità che moriremo insieme, tenendoci per mano sul divano davanti a un fuoco che si spegne lentamente, nel nostro cottage sulla costa. Qualcosa di positivo c’è, insomma.

    Ci fermiamo a una stazione di servizio per andare in bagno e Ivy sta via tanto a lungo che comincio a temere che l’abbiano rapita o che semplicemente abbia accettato un passaggio da un affascinante sconosciuto.

    Quando torna in macchina, se possibile ha un’aria ancora più avvilita rispetto a stamattina. Le ho comprato un sacchetto enorme di Skittles, che le porgo con un sorriso da scimmietta; Ivy, tuttavia, mi dice di non sentirsi molto bene e mi chiede di guidare. Fa di un maglione piegato un cuscino improvvisato, abbassa il sedile al massimo – il che non è molto, in effetti – e chiude gli occhi. E così maciniamo altri chilometri, mentre le auto, le moto e i furgoni suonano il clacson

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