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Revolution Saga. A ferro e fuoco
Revolution Saga. A ferro e fuoco
Revolution Saga. A ferro e fuoco
E-book796 pagine11 ore

Revolution Saga. A ferro e fuoco

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Info su questo ebook

Il miglior scrittore di romanzi storici del mondo

1804. Nella cattedrale di Parigi, Napoleone Bonaparte, dopo gli ultimi successi ottenuti sui campi di battaglia, viene finalmente incoronato imperatore dei francesi. Ma il suo desiderio più grande è portare la Francia a dominare l’intera Europa. Per questo costituisce uno dei più grandi eserciti che sia mai esistito: la Grande Armata. Eppure nella battaglia navale di Trafalgar la coalizione francese subisce una clamorosa sconfitta. Per Napoleone non è tempo di fermarsi, i nemici potrebbero sfruttare la situazione a loro vantaggio. Così, dopo una rapida riorganizzazione, ottiene un’importante vittoria ad Austerlitz contro l’armata formata da russi e austriaci e riesce contemporaneamente a mettere sul trono di Spagna suo fratello Giuseppe. Rimane ora un unico nemico da sconfiggere: l’Inghilterra. Sull’altro fronte, le vittorie del duca di Wellington in Portogallo e in alcune zone della stessa Spagna risollevano il morale degli inglesi: Napoleone non è forse così invincibile come molti credono. Lo scontro epocale tra i due grandi condottieri è a un passo…

Un autore da milioni di copie nel mondo 

Napoleone vuole diventare il più grande condottiero di tutti i tempi
La rivoluzione continua…

Hanno scritto di Scarrow e dei suoi romanzi:

«Ogni nuovo capitolo della lunga serie di Scarrow è come sempre un grande piacere.»
The Times

«Il miglior scrittore di romanzi storici? Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«Nella quadrilogia dedicata a Napoleone e Wellington di Simon Scarrow l’invenzione e la storia si accostano e confluiscono come due fiumi, difficile imbrigliarli.» 
La Lettura
Simon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore dei romanzi Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, Roma alla conquista del mondo, La spada di Roma, La legione, Roma o morte, Il pretoriano, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, L’aquila dell’impero, Sotto un unico impero, La spada e la scimitarra, Per la gloria dell'impero e I conquistatori (con T.J. Andrews), tutti pubblicati dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2017
ISBN9788822709752
Revolution Saga. A ferro e fuoco
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    Revolution Saga. A ferro e fuoco - Simon Scarrow

    Capitolo 1

    Napoleone

    Parigi, dicembre 1804

    Mentre la carrozza di Napoleone si fermava davanti a Notre-Dame, dall’enorme folla in attesa nell’aria gelida si levò un’acclamazione che riecheggiò per le massicce mura grigie. Gli edifici che un tempo circondavano la grande cattedrale erano stati abbattuti per fare spazio alla processione per l’incoronazione, e i parigini si erano assiepati nell’area delimitata dai granatieri dell’imperatore. I soldati stavano su due file lungo tutto il tragitto e i loro alti colbacchi coprivano gran parte della visuale, concedendo a chi stava dietro solo fugaci occhiate alle carrozze riccamente decorate e ai loro eleganti passeggeri. Tra le carrozze, trottavano squadroni di corazzieri con i pettorali talmente lustri che riflettevano le immagini distorte della scena circostante. L’imperatore, l’imperatrice, la famiglia imperiale, i marescialli e i ministri occupavano più di quaranta carrozze fabbricate appositamente per l’incoronazione. Parigi non aveva mai veduto nulla del genere: con un colpo solo Napoleone aveva eclissato la pompa e la magnificenza dei Borbone suoi predecessori.

    A quel pensiero, Napoleone sorrise soddisfatto. Laddove i re di Francia avevano posseduto la corona semplicemente per diritto di nascita, lui l’aveva conquistata grazie alla sua abilità, al coraggio e all’amore del popolo francese. Era stato il popolo a concedergli la corona imperiale tramite un voto popolare in cui solo qualche migliaio di persone in tutto il Paese gli aveva negato il proprio sostegno. In cambio della corona, Napoleone aveva concesso loro la vittoria e la gloria e già la sua mente era affollata di progetti su come estendere ulteriormente quella gloria.

    Ci fu un breve indugio quando due lacchè dall’elaborato abbigliamento accorsero con dei piccoli gradini, abbassarono la maniglia e aprirono lo sportello. Napoleone, in splendido isolamento sul sedile rivestito di seta, inspirò profondamente e si alzò, comparendo alla vista. Gli occhi grigi vagarono sul mare di volti adoranti e le labbra si schiusero in un sorriso. Un’altra acclamazione squarciò il silenzio e oltre le file di granatieri un mare di braccia e cappelli piumati ondeggiò in un confuso turbinio di colore e movimento.

    Guardandosi intorno, Napoleone vide Talleyrand, il ministro degli Esteri, in piedi con gli altri ministri all’ingresso della cattedrale, aggrottare la fronte con aria di disapprovazione. Napoleone non poté trattenere una risatina alla vista dell’aristocratico infastidito da quella mancanza di compostezza. Disapprovasse pure, rifletté Napoleone. Il vecchio regime non c’era più, spazzato via dalla rivoluzione, e al suo posto era sorto un nuovo ordine. Un ordine basato sulla volontà del popolo. Napoleone fu sufficientemente grato e astuto da ricambiare quell’acclamazione voltandosi da ogni lato per fare un cenno alla folla entusiasta prima di scendere dalla carrozza. Subito, i lacchè sollevarono lo strascico delle sue vesti rosse ricamate d’oro e lo seguirono a passo sicuro mentre l’imperatore percorreva il tappeto verso l’ingresso della cattedrale.

    La maggior parte degli ospiti e dei familiari era già entrata ed era stata indirizzata ai posti assegnati. I ministri, in quanto alti servitori dello Stato, avrebbero seguito l’imperatore e occupato i più prestigiosi posti al cuore della cerimonia. In principio, Napoleone aveva pensato di portare nella cattedrale i suoi generali, ma il fratello Giuseppe e Talleyrand lo avevano esortato a presentare l’incoronazione come una celebrazione soprattutto civile. Anche se l’esercito era stato lo strumento con cui Napoleone era salito al potere, era importante presentarsi al mondo come un capo politico e non militare. Talleyrand nutriva ancora la speranza che, convincendo le altre potenze che il nuovo imperatore era in primo luogo uno statista e poi un soldato, in Europa potesse raggiungersi una pace duratura.

    Dopo i tanti anni di guerra, l’effimero Trattato di Amiens aveva alimentato nel popolo un desiderio di pace e stabilità. Soprattutto stabilità, e questo significava la costituzione di una nuova e permanente forma di governo. Napoleone aveva preparato abilmente il terreno, passando da console, a primo console e poi a primo console a vita, prima di dare al popolo l’opportunità di approvare la sua ascesa a un nuovo trono. Ovviamente i senatori l’avevano camuffata come un espediente necessario per proteggere la Repubblica dai suoi nemici interni ed esterni, ma la Repubblica non c’era più. Era morta nel parto dell’impero. Napoleone si era già circondato della sfarzosa pompa della regalità e aveva limitato i poteri di senatori, tribuni e rappresentanti del popolo. E c’era in progetto di introdurre tutta una serie di nuovi titoli nobiliari e onorificenze per rafforzare il nuovo regime. Col tempo, sperava, l’impero sarebbe stato accettato dalle altre potenze europee e sarebbero cessati gli attentati alla sua vita da parte di francesi al soldo di nazioni straniere.

    Mentre procedeva verso l’entrata, Napoleone si fermò e si voltò, poi levò le mani e fece un cenno in direzione della folla con un sorriso raggiante sotto le chiome scure che gli incorniciavano il volto. La gente emise un grido di gioia e affetto per il suo imperatore e avanzò con tale foga che la fila di granatieri, per contrastare l’ondata e ricacciare indietro la folla con i moschetti, si piegò sotto quella pressione e gli stivali raschiarono il selciato.

    Napoleone si girò e riprese ad avanzare verso l’alto portale ad arco. Superando Talleyrand, inclinò il capo verso il ministro degli Esteri.

    «Pare che il popolo approvi».

    «Sì, sire», annuì Talleyrand.

    «E allora, vi preoccupa ancora la mia decisione di accettare quest’onore?».

    Talleyrand si strinse leggermente nelle spalle. «No, sire. Avete la loro fiducia, e sono certo che faranno in modo che la onoriate».

    Napoleone annuì lentamente e il sorriso gli si gelò in volto. «Quest’oggi, io sono la Francia e la Francia è me. Non può esserci alcun dissidio».

    «Come dite voi, sire». Talleyrand chinò il capo e indicò debolmente l’entrata. «La corona vi attende».

    Napoleone si raddrizzò in tutta la sua altezza, deciso ad apparire regale quanto gli consentiva la sua esile figura. Erano passati più di quattro anni dalla sua ultima campagna e la bella vita che aveva condotto da allora gli aveva fatto mettere su un po’ di pancetta. Giuseppina era stata così priva di tatto da sottolinearlo in più di un’occasione, pizzicandogli delicatamente il fianco quando erano abbracciati. A quel pensiero sentì librarsi il cuore e lanciò un’occhiata lungo la navata della cattedrale verso il punto in cui la sapeva seduta. Si erano conosciuti nove anni prima, quando era emerso per la prima volta dall’oscurità. Giuseppina non avrebbe mai potuto immaginare che quel giovane e smilzo generale di brigata dai capelli lisci sarebbe un giorno diventato sovrano di Francia, né che gli sarebbe stata accanto come imperatrice. Napoleone sentì battergli forte il cuore per l’orgoglio. All’inizio aveva temuto di non essere alla sua altezza e che lei l’avrebbe capito in fretta. Ma la sua ascesa alla fama e la fortuna avevano scacciato quel timore e ora, sebbene amasse Giuseppina come non aveva mai amato nessun’altra donna, aveva cominciato a chiedersi se fosse degna di lui.

    Dopo un’ultima boccata d’aria fresca, Napoleone entrò dentro Notre-Dame. Nell’istante in cui superò la soglia, dal fondo della cattedrale cominciò a cantare un coro e tra un fruscio di abiti e un raschiare di sedie, gli astanti si alzarono in piedi. Un lungo tappeto verde scuro gli si estendeva dinanzi fino alla pedana dove il papa lo attendeva presso l’altare. Alla vista del Santo Padre, il sorriso dell’imperatore svanì. Malgrado i suoi sforzi di limitare il ruolo della Chiesa cattolica in Francia, il popolino era cocciutamente attaccato alla religione e Napoleone aveva avuto bisogno della benedizione del pontefice per dare all’incoronazione un’approvazione divina.

    La pedana e l’altare erano nuovi. Due vecchi altari e un coro riccamente intagliato erano stati demoliti per creare uno spazio più imponente nel cuore di Notre-Dame. Su entrambi i lati, uomini di Stato, ambasciatori, ufficiali e rampolli dell’alta società parigina chinarono il capo al passaggio dell’imperatore. La mano gli scivolò sul pomo della spada di Carlo Magno, portata da un monastero di Aix-la-Chapelle per arricchire le sue insegne regali. Un ulteriore tentativo di conferire all’incoronazione l’autorità di una tradizione secolare. Un novello Carlo Magno per una nuova era, rifletteva Napoleone procedendo tra le sete e gli ermellini punteggiati dagli scintillanti gioielli delle signore e i galloni dorati e le luccicanti decorazioni di generali e marescialli di Francia. Alla loro testa stava Murat, l’esuberante ufficiale di cavalleria che aveva combattuto al fianco di Napoleone a Marengo e ne aveva poi sposato la sorella, Carolina. Al passaggio dell’imperatore, si scambiarono un rapido sorriso.

    Papa Pio vii sedeva su un trono davanti all’altare. Accanto e dietro si trovava il suo seguito di cardinali e vescovi, illuminati dai raggi di luce che scendevano obliqui dalle alte finestre disposte lungo i grandi muri in pietra. Napoleone avanzò verso i tre gradini che conducevano alla pedana. A sinistra vide i fratelli e le sorelle. Il giovane Luigi non poté trattenere un sorriso, ma Giuseppe annuì gravemente al passaggio del fratello. Era un vero peccato che non potesse essere presente tutta la sua famiglia, pensò Napoleone. Girolamo e Luciano, che avevano rifiutato di obbedire alla sua richiesta di lasciare le mogli a vantaggio di donne più consone alla famiglia imperiale, erano ancora in disgrazia. Anche sua madre, Letizia, era assente. Sosteneva di essere troppo malata per lasciare l’Italia e partecipare all’incoronazione. Napoleone non si era fatto trarre in inganno da quelle scuse. La madre aveva manifestato fin dal principio in modo piuttosto chiaro la sua avversione per Giuseppina e il figlio era certo che avrebbe preferito andare all’inferno piuttosto che assistere all’incoronazione della nuora. Se solo il padre fosse stato in vita per vedere quel giorno. Carlo Buona Parte avrebbe cercato di far ragionare la suscettibile moglie.

    Un rapido movimento attirò il suo sguardo verso l’altro lato della cattedrale. Vide l’artista Jean-Louis David sistemare sulla tavola da disegno un nuovo spesso foglio di carta in procinto di iniziare un altro schizzo dell’evento. Napoleone gli aveva commissionato un dipinto monumentale per commemorare l’incoronazione e David gli aveva detto di aver bisogno di tre anni per completare l’opera. In verità, pensò Napoleone, lo spettacolo di quella giornata avrebbe rifulso per i secoli a venire.

    Il pontefice si alzò dal trono e tese una mano verso Napoleone, che si mise su un ginocchio, appoggiando la gamba rivestita dalla calza bianca su un cuscino riccamente ricamato sistemato dinanzi al papa. Quando il canto del coro si concluse e sugli astanti calò il silenzio, il pontefice pronunciò la benedizione con voce esile e acuta e le sue parole in latino percorsero la cattedrale riecheggiando monotone contro le pareti.

    Mentre il Santo Padre proseguiva le sue formule magiche, Napoleone guardava fisso il tappeto colto da un’improvvisa voglia di ridere. A dispetto di tutta la pompa, gli abiti sfarzosi, l’elaborata scenografia, i mesi di preparazione e le settimane di prova, era quel momento della cerimonia religiosa che gli pareva l’aspetto più ridicolo di tutti. L’idea che proprio lui avesse bisogno dell’approvazione divina era non solo comica, ma oltraggiosa. Quasi tutto ciò che aveva ottenuto era stato il risultato dei suoi soli sforzi. Il resto lo si doveva alla cieca sorte. Era assurda l’idea che Dio guidasse la traiettoria di ogni proiettile o palla di cannone sul campo di battaglia. La religione era la piaga dei deboli di mente, degli ingenui e dei disperati, pensò Napoleone. Era un peccato che gran parte dell’umanità restasse attaccata a simili superstizioni. Ma andava anche a suo vantaggio. Finché avesse finto rispetto per le sensibilità religiose avrebbe potuto servirsi della Chiesa come di qualsiasi altro mezzo per dominare le menti dei suoi sudditi. L’unica difficoltà stava nel conciliare le proprie esigenze con quelle del papato.

    Per il momento, in ginocchio e a testa china, con le parole di una lingua antiquata che gli scorrevano sul capo, era disposto a mostrarsi conciliante con la Chiesa. Smise di ascoltare, concentrandosi sul ruolo che doveva svolgere nella cerimonia, una volta che il papa avesse concluso la sua benedizione. Non ci sarebbe stata alcuna messa: su questo era stato irremovibile. Tutto il resto sarebbe emanato dalla sua personale autorità. Solo Napoleone avrebbe potuto incoronare Napoleone. E Giuseppina, se è per questo. Anche lei avrebbe ricevuto la corona dalle sue mani.

    Per un attimo, volse il pensiero alle altre teste coronate d’Europa. Le disprezzava perché detenevano tale potere solo per diritto di nascita. Esattamente come tutti quei nobili che gli avevano infelicitato gli anni di scuola. Ma era quello il paradosso, pensò mordendosi delicatamente il labbro. Era solo grazie al principio dell’ereditarietà che gli Stati godevano di una qualche stabilità. La feroce carneficina della Rivoluzione francese aveva mostrato la necessità di una tale stabilità, e solo quando Napoleone si era impossessato del potere e aveva iniziato a governare col pugno di ferro in Francia era riapparso l’ordine. Senza di lui si sarebbe tornati al caos ed era per quello che la gente era stata felice di vederlo imperatore. A tempo debito avrebbe dovuto esserci un erede. Mosse leggermente il capo per guardare un attimo Giuseppina. Lei incrociò il suo sguardo e gli ammiccò.

    Napoleone sorrise, pur avvertendo una grande tristezza in cuore. Fino ad allora non gli aveva generato dei figli e gli anni passavano. Ben presto Giuseppina sarebbe stata troppo vecchia per procreare. Fu assalito dall’improvviso timore di essere sterile. Se era così, la dinastia che stava fondando quel giorno si sarebbe esaurita con lui. Napoleone distolse in fretta la mente da quel pensiero agghiacciante, concentrandosi piuttosto sulle più immediate difficoltà che minacciavano la sua posizione. Per quanto sul continente ci fosse una pace precaria, la Francia era sempre in guerra con la sua più implacabile nemica.

    Oltre la Manica, gli inglesi ancora lo osteggiavano e li proteggeva dalla sua collera la sottile barriera di legno delle navi da guerra che pattugliavano di continuo le vie marittime negandogli il trionfo che avrebbe completato il suo dominio sull’Europa. Aveva già valutato la possibilità di un’invasione ed erano in corso preparativi per la costruzione di un gran numero di imbarcazioni nei porti e nelle basi navali lungo la costa francese di fronte alla Gran Bretagna. A tempo debito, Napoleone avrebbe radunato una grande flotta da guerra e spazzato via la Marina britannica.

    Una volta umiliata la Gran Bretagna, nessun’altra nazione avrebbe osato sfidarlo, ragionò, ma fino ad allora, avrebbe dovuto tenere strettamente sotto controllo Austria e Russia, visto che le sue spie riferivano che si stavano armando per la guerra.

    D’improvviso si rese conto che il papa aveva smesso di parlare e tutti erano in silenzio. Napoleone mormorò in fretta un amen e si fece il segno della croce prima di alzare la testa con aria interrogativa. Il pontefice stava indietreggiando con grazia verso il seggio decorato, con la mano destra levata in segno di benedizione. Incrociò lo sguardo dell’imperatore e annuì leggermente. Napoleone iniziò a tirarsi su e per poco non cadde in avanti inciampando nello strascico. Riuscì appena in tempo a mantenere l’equilibrio e con una sommessa imprecazione si alzò in piedi e salì l’ultimo gradino della pedana. Accanto al papa c’era un piccolo piedistallo dorato su cui si trovavano i due cuscini che accoglievano le corone create per l’imperatore e l’imperatrice.

    Napoleone si avvicinò al piedistallo ed esitò un istante per comunicare il dovuto senso di rispetto richiesto dall’occasione. Poi allungò entrambe le mani e prese il serto d’oro della corona imperiale, modellato a imitazione di quello dei Cesari, e si voltò lentamente tenendolo sollevato in modo che tutti potessero vederlo. Fece un respiro profondo e anche se conosceva a memoria le parole sentì il cuore martellargli in petto per l’eccitazione nervosa.

    «Con l’autorità con cui mi ha investito il popolo, prendo questa corona e assumo il trono imperiale di Francia. Prometto sul mio onore a tutti i presenti di difendere la nazione contro ogni nemico e, a Dio piacendo, di governare in accordo ai desideri del popolo e nei suoi interessi. Che questo momento dimostri al mondo la grandezza della Francia. Che questa grandezza sia come un faro per le altre nazioni facendo sì che esse si uniscano a noi nella gloria dell’era a venire».

    Tacque e poi si sollevò la corona sopra la testa e lentamente la abbassò. Il serto d’oro era più pesante di quanto pensasse e fece attenzione a sistemarlo bene prima di ritirare le mani. Subito, il coro riprese dalla cantoria dietro l’altare e intonò un brano composto per celebrare appositamente quel momento. Napoleone inclinò leggermente indietro la testa e scrutò le file di ospiti lungo la navata. Si alternavano espressioni diverse. Alcuni sorridevano. Altri avevano un’aria grave e altri ancora si tamponavano le lacrime sulle guance sopraffatti dall’emozione di quel grande evento. Riguardò Giuseppe e gli vide tremare le labbra come se lottasse per trattenere l’orgoglio e l’affetto che provava per il fratello minore. Lo stesso orgoglio e affetto che Napoleone aveva sempre provato, sin da quando avevano condiviso la stanza nella modesta casa di Ajaccio tanti anni prima, prima che la fiera famiglia corsa riuscisse faticosamente a trovare il denaro per assicurare ai ragazzi un’istruzione adeguata in una buona scuola francese.

    Napoleone si concesse di scambiare un rapido sorriso con il fratello prima di spostare lo sguardo sulle file di marescialli e generali, molti dei quali avevano condiviso con lui pericoli e avventure fin dai primissimi giorni della sua carriera militare. Soldati coraggiosi come Junot, Marmont, Lannes e Victor. Uomini che avrebbe guidato verso altre vittorie negli anni a venire, se le altre potenze europee avessero osato sfidare il nuovo ordine della Francia.

    Il coro concluse il brano e tacque, e intanto l’imperatore si voltò verso Giuseppina, che avanzava con lo strascico sorretto da due amiche scelte per l’occasione dopo che le sorelle di Napoleone avevano rifiutato quel compito. Come il consorte, indossava un pesante abito scarlatto riccamente ornato di motivi in oro e, per quanto mantenesse in volto un’espressione composta, gli occhi le brillavano come gemme preziose. Avanzò con grazia verso i gradini e prese posto sul cuscino, inginocchiandosi ai piedi di Napoleone. Inclinò il capo e rimase immobile.

    Napoleone si schiarì la voce e si rivolse agli astanti. «È nostro grande piacere conferire la corona di imperatrice di Francia a Giuseppina, che amiamo come la vita stessa». Prese l’altra corona e si avvicinò alla moglie. Le tenne il cerchio d’oro sul capo e poi l’abbassò lentamente sui ben acconciati boccoli castani. Non appena indietreggiò, il coro cominciò il brano composto in onore dell’imperatrice e le voci melodiose viaggiarono per tutta la cattedrale. Napoleone si chinò in avanti e prese le mani di Giuseppina, che si alzò, salì sulla pedana e gli si mise accanto rivolta verso i loro sudditi.

    La cerimonia si concluse con una preghiera del papa, poi Napoleone condusse l’imperatrice giù per i gradini e verso l’entrata di Notre-Dame. Mentre passava accanto al fratello maggiore, gli mormorò: «Ah, Giuseppe, se solo nostro padre potesse vederci ora!».

    Capitolo 2

    Aprile 1805

    Napoleone era in piedi davanti alla finestra e guardava i ben strutturati giardini delle Tuileries. Sui rami erano spuntati i primi germogli primaverili e il cielo era terso e luminoso, dopo una breve sfuriata di pioggia e vento che aveva spazzato via la sudicia coltre di fumo che solitamente ricopriva Parigi. Una mattina bella come quella di norma gli avrebbe risollevato l’umore, ma quel giorno l’imperatore osservava la scena con espressione assente. Aveva la mente oscurata da una serie di pensieri inquietanti sul quadro che Talleyrand gli aveva appena delineato. Nessuno in Europa dubitava che la Francia fosse la più grande potenza del continente. La sua influenza si estendeva dalle coste del Baltico a quelle del Mediterraneo. Ma lì, al limite delle acque, la potenza di Napoleone veniva meno. In mare aperto, le navi da guerra della Marina britannica si facevano beffe delle sue ambizioni e il disprezzo della Gran Bretagna alimentava la tacita ostilità di Prussia, Austria e Russia.

    Con un sospiro stanco, Napoleone si voltò dando le spalle all’alta finestra e fissò il ministro degli Esteri. «Sono sicuri i nostri agenti?»

    «Sì, sire», rispose annuendo Talleyrand. «È stato dato ordine ai generali austriaci di iniziare a concentrare le loro forze fuori Vienna dalla fine di giugno. I carri dei rifornimenti si stanno già radunando presso i magazzini lungo il Danubio. Gli agenti dell’imperatore Francesco hanno viaggiato in lungo e largo per acquistare in tutto il continente cavalli per l’esercito. Le fortezze che controllano i passi dall’Italia sono state rafforzate e attorno ai perimetri sono state erette nuove fortificazioni. Il nostro ambasciatore ha chiesto spiegazioni alla corte austriaca».

    «E allora?», intervenne secco Napoleone.

    «Gli austriaci sostengono che si tratta semplicemente di adeguamenti alle difese previsti da tempo. Negano ci sia nulla di minaccioso in questi lavori».

    «Ovviamente». Napoleone sorrise cupo. «Ma invece non c’è alcun dubbio: si stanno preparando alla guerra».

    «Così sembrerebbe, sire».

    «Che informazioni abbiamo dal nostro ambasciatore in Russia? Gli austriaci possono anche millantare grande coraggio militare, ma francamente dubito che azzarderebbero una guerra contro la Francia senza allearsi con almeno un’altra potenza europea. La questione è: sarà la Russia a combattere al fianco dell’Austria, o la Prussia?». Napoleone tacque un momento. «O tutte e due? Tutte sovvenzionate e fomentate dagli inglesi, naturalmente»

    «Sì, sire». Talleyrand annuì nuovamente. «Immagino che gli inglesi estenderanno le loro linee di credito ai nostri nemici, fornendogli anche armi ed equipaggiamento e un flusso costante d’oro e d’argento».

    «Ovviamente». Napoleone sbuffò di disprezzo. «Come sempre, gli inglesi distribuiscono le loro ricchezze e si salvano la pelle, lasciando le carneficine agli alleati. E la Russia?».

    Talleyrand consultò brevemente un appunto sul foglio che teneva in mano, poi guardò l’imperatore. «L’ambasciatore Caulaincourt riferisce che lo zar parrebbe restio a entrare in guerra contro di noi da solo. Ciononostante c’è stata una certa mobilitazione di forze che non può attribuirsi semplicemente a operazioni difensive. Se l’Austria ci dichiara davvero guerra, immagino che la Russia possa facilmente essere convinta a unirsi alla causa».

    Napoleone unì le mani e appoggiò il mento sulla punta delle dita. Come sempre, i suoi rivali puntavano alla distruzione della Francia. Tanto per farlo. Se solo avessero accettato il fatto che la Francia era cambiata. La tirannia dei Borbone non sarebbe tornata. La Francia rappresentava il modello di una società migliore, rifletté, ed era questo che temevano più di ogni altra cosa. Se i loro popoli avessero cominciato a capire che esisteva un’alternativa alla parassitaria nobiltà di sangue, i loro governi sarebbero crollati come un castello di carte. Col tempo, avrebbero seguito la Francia sulla via della rivoluzione, emergendone alla fine più illuminati, emancipati e inevitabilmente attratti nel consesso di nazioni sotto l’influenza della Francia, e del suo imperatore. Napoleone si accigliò. Quel giorno era ancora molto lontano. Al momento, i suoi nemici si stavano radunando come lupi, e il primo passo per sconfiggerli doveva essere trovare un mezzo per dividerli. Guardò Talleyrand. «Che ne pensate del nuovo zar?».

    Talleyrand storse un attimo le labbra ed elaborò la sua risposta. «A giudicare dai rapporti di Caulaincourt e dalle mie conversazioni con l’ambasciatore russo qui a Parigi, lo zar Alessandro sembrerebbe un giovane impressionabile. Un po’ idealista, anche. Desidera migliorare le condizioni della popolazione, forse tanto da abolire la schiavitù. Comunque, non è uno sciocco. Sa bene che questa sua aspirazione è osteggiata dai proprietari terrieri e sa quanto ciò possa essere pericoloso».

    Il volto di Napoleone fu attraversato da un fugace sorriso. «In effetti, è raro che uno zar muoia per cause naturali».

    Talleyrand annuì. «Esatto, sire».

    Napoleone sedette alla scrivania e giunse le mani. «Abbiamo a che fare con una specie di radicale, quindi. Bene. Un uomo del genere si potrebbe forse avvicinarlo al nostro punto di vista».

    «Soprattutto se lo zar ha in mente di estendere l’influenza della Russia nel Mediterraneo e in Oriente».

    Napoleone alzò lo sguardo. «Dove entrerebbe in conflitto con le mire britanniche».

    «Precisamente, sire».

    «Bene. Fate in modo che Caulaincourt sottoponga lo zar a una robusta dieta di informazioni sull’insaziabile appetito imperialistico della Gran Bretagna. Quanto alla Prussia», sorrise brevemente, «facciamole penzolare davanti la prospettiva di una piccola ricompensa. Offriremo ai prussiani l’Hannover in cambio della neutralità. Federico Guglielmo non è un eroe, è un uomo debole e facilmente influenzabile. Una bustarella dovrebbe essere sufficiente a comprare la sua pace. Il nostro vero problema è lo zar. Soprattutto visto che siamo in guerra con la Gran Bretagna e verosimilmente lo saremo con l’Austria nel prossimo futuro».

    «Sì, sire», concordò Talleyrand.

    Qualcosa nei modi del ministro attirò l’attenzione di Napoleone, che scrutò l’uomo un momento prima di parlare.

    «Avete qualcosa da dire».

    Era un’affermazione, non una domanda, e il ministro lo capì immediatamente e annuì.

    «Allora parlate».

    «Sì, sire. Penso che potremmo ancora evitare una guerra con l’Austria, e forse persino ottenere una pace stabile con la Gran Bretagna».

    «Pace con la Gran Bretagna? Quell’infido nido di vipere? Vi illudete, Talleyrand. I sovrani di quell’isola non hanno alcun desiderio di pace. Avete letto cosa dicono di me i loro giornali». Napoleone si puntò un dito al petto. «Mostro, tiranno, dittatore. Così mi chiamano».

    Talleyrand fece un gesto sprezzante. «Esagerazioni della stampa, sire. I giornali inglesi sono famosi per la loro parzialità. Come quelli parigini, d’altronde», aggiunse con leggera enfasi. «Non sono certo i portavoce del governo. E ci sono uomini nelle alte sfere che sarebbero pronti a valutare la prospettiva di una pace con la Francia».

    «E allora perché non lo dichiarano apertamente?».

    Talleyrand si strinse nelle spalle. «Non sempre è facile parlare di pace in tempo di guerra. Ma i sudditi britannici devono essere stanchi della guerra quanto quelli francesi. Deve esserci modo per le nostre nazioni di vivere in pace, sire. Dobbiamo spezzare il ciclo di ostilità, prima che ci porti tutti alla rovina. Dobbiamo negoziare».

    «Perché? A che scopo?», esclamò impaziente Napoleone. «La Gran Bretagna ha dichiarato apertamente che sarà soddisfatta solo con la mia distruzione, la restaurazione dei Borbone e l’umiliazione della Francia. E a quel punto dominerà il continente».

    «Sire, con tutto il rispetto, non sono d’accordo. La Gran Bretagna è in fondo una nazione di commercianti, di uomini d’affari. Se potessimo dimostrar loro che potrebbero commerciare a loro piacimento in Europa, potremmo convincerli che questa guerra è svantaggiosa, da qualsiasi punto di vista. Se potessimo trovare un qualche compromesso, ci sarebbe pace con la Gran Bretagna e in tutta Europa». Talleyrand tacque e guardò intensamente l’imperatore. «Sire, se mi permetteste di avviare dei negoziati con gli inglesi, allora…».

    «Allora niente!». Napoleone batté la mano sul tavolo. «Non se ne farà niente. Non farò alcun compromesso. Non mi farò dare ordini da quella nazione di bottegai! In Europa c’è posto per una sola potenza. Non capite, Talleyrand? Se vogliamo davvero la pace, l’Europa deve essere dominata. Se ci affidiamo al compromesso e parliamo alla pari con i nostri vicini, ci saranno sempre differenze, ostilità e conflitti».

    Seguì un breve silenzio in cui Talleyrand fissò Napoleone, poi scosse il capo. «Questa è l’estrema ratio. Di certo è meglio tentare di negoziare che contare sulla guerra!».

    «Forse, ma almeno la guerra ha il pregio di concedere al vincitore il diritto di dettare i termini della pace. A quel punto non c’è bisogno di alcun compromesso».

    «A che prezzo, sire? Quanto oro si dilapiderebbe? Quante vite verrebbero distrutte? La guerra è semplicemente il fallimento della diplomazia, sire».

    «Vi sbagliate, Talleyrand. La guerra è il proseguimento della diplomazia, in extremis. È anche il collante più potente per l’unità di una nazione. Non tollera compromessi e se si conclude con la vittoria, una nazione sarà ricca di gloria e autostima e potrà riplasmare il mondo circostante a favore dei propri interessi. Il negoziato è la prima azione dei deboli. La guerra è riservata ai potenti. Se la Francia ha una predisposizione per la guerra, allora la guerra diventa il mezzo più efficiente con cui essa può esercitare la propria influenza». Napoleone si appoggiò allo schienale e sorrise. «E negli ultimi anni, non abbiamo forse dimostrato un particolare talento per la guerra?»

    «Talento per la guerra?». Talleyrand inarcò sorpreso un sopracciglio. «La guerra è una cosa terribile, sire. Un simile talento, come lo chiamate voi, lo si dovrebbe considerare più un incomodo che una virtù».

    «Voi non conoscete la guerra quanto me», ribatté Napoleone. «Ho fatto il soldato per gran parte della mia vita. Sono stato in guerra per quasi dodici anni. Ho fatto campagne dall’Europa ai deserti dell’Arabia. Ho combattuto in decine di battaglie e ho resistito ad assalti di moschetti e palle di cannone. Sono stato ferito e ho visto uccidere i miei amici. Ho visto enormi campi disseminati di morti e moribondi, Talleyrand. Ho visto anche uomini dare il meglio di sé. Li ho visto dominare la paura e il terrore e attaccare in situazioni disperate. Li ho visti marciare, a piedi nudi e affamati, per giorni e giorni e poi combattere e vincere. Ho visto tutto questo», fece con un sorriso. «Vedete, Talleyrand, conosco bene la guerra. E voi? Cosa ne sapete? Un nobile di sangue. Una creatura dei salotti parigini e dei palazzi di principi e re. Cosa ne sapete del pericolo? All’apice della rivoluzione non eravate nemmeno qui a Parigi. Perciò prima di farmi lezioni sui mali della guerra, fatemi la cortesia di limitare i commenti al campo che vi compete. Voi vi occupate di diplomazia. Ottenete ciò che potete per la Francia con la vostra eloquenza e gli intrighi. Ma ricordate una cosa. Siete un servitore della Francia. Un servitore dell’imperatore. Siete un mezzo per raggiungere un fine e io, io solo, decido la natura di quel fine. È chiaro?»

    «Sì, sire», rispose piano Talleyrand a denti stretti. «Chiarissimo».

    Napoleone scrutò attentamente il ministro degli Esteri per un momento e poi d’improvviso sorrise e fece un cenno noncurante con la mano.

    «Su, basta così! Smettiamo di filosofeggiare e parliamo di cose concrete. In questo momento, non desidero la guerra più di voi. Ma ci si deve guardare da ogni eventualità».

    «Naturalmente, sire».

    «Quindi dobbiamo convincere i nostri amici austriaci che a farci guerra non c’è da guadagnare alcun vantaggio. Li abbiamo scacciati dai domini italiani. Ora è tempo di fargli capire che la nuova e permanente signora dei regni d’Italia è la Francia».

    «Prego, sire?»

    «Voglio che organizziate un’altra incoronazione». Napoleone inclinò indietro la testa. «Non più tardi della fine della primavera, sarò incoronato re d’Italia. Ed estenderemo tutti i benefici del nostro codice civile e del nostro governo alla popolazione di quel Paese. In breve, ne faremo dei francesi il prima possibile, in modo che non debbano mai più subire il dominio dell’Austria».

    «Re d’Italia?», rifletté Talleyrand. «È questa la vostra volontà, sire?»

    «Sì. Provvedete che comincino subito i preparativi».

    «Sì, sire».

    «Ora potete andare, Talleyrand. Non ho impegni a Parigi per qualche giorno. Se avrete bisogno di me, sarò a Malmaison con l’imperatrice e la mia famiglia».

    «Sì, sire». Talleyrand tacque un momento. «E l’altra questione, sire?»

    «Quale altra questione?»

    «La questione dei negoziati con la Gran Bretagna».

    «Non ci sarà alcun negoziato. Gli inglesi vogliono la guerra e la guerra avranno».

    Talleyrand annuì tristemente e uscì dalla stanza, zoppicando sulla gamba deforme. Non appena la porta si chiuse alle spalle del ministro degli Esteri, l’espressione di Napoleone s’indurì. Per quanto apprezzasse le sue doti diplomatiche, non si fidava di Talleyrand. Il fascino mellifluo e il tono della voce vagamente beffardo gli provocavano una sorta di risentimento e rabbia, una sensazione che l’imperatore era obbligato a celare il più possibile per conservare i servigi del ministro. A ogni modo, decise che lo avrebbe fatto sorvegliare ancor più strettamente dalle spie di Fouché. Napoleone non nutriva dubbi sul patriottismo di Talleyrand, ma quel patriottismo era legato a un’idea molto particolare degli interessi della Francia, che non collimava con i piani imperiali di Napoleone.

    Tuttavia una cosa era certa. La Gran Bretagna doveva essere distrutta. Per via delle improvvide venti miglia di mare che separavano la Francia dalle scogliere di Dover, c’era solo un modo per annientare il nemico: la Marina britannica doveva essere eliminata dalla Manica in modo che Napoleone potesse guidare la Grande Armata in un’invasione della Gran Bretagna e dettare i termini della pace direttamente da Londra.

    Capitolo 3

    «Non capisco perché non dovrei avere dieci nuove paia di scarpe», si accigliò Giuseppina versandosi un’altra tazza di caffè, esitò poi su un piatto di pasticcini finché le dita non si posarono su un biscotto sottile spruzzato di miele. Tenendolo delicatamente tra pollice e indice se lo portò alle labbra e diede un morso, masticando un momento prima di continuare. «Dopotutto, sono l’imperatrice e non deporrebbe bene per te se mi presentassi in pubblico con indosso un cencio logoro e un vecchio paio di zoccoli. E poi, te lo puoi permettere».

    Erano soli nel salotto privato che si affacciava sui giardini sul retro del castello. Fuori, il crepuscolo avvolgeva la campagna e faceva freddo abbastanza da giustificare il fuoco che brillava dietro il parascintille, di tanto in tanto emettendo un improvviso schiocco o sibilo dall’ultimo ciocco gettato sulle braci. Napoleone stava scorrendo della corrispondenza da una cassetta appoggiata in grembo. Batté col dito un’altra lettera.

    «Ed eccone un’altra. Da un fornitore di tende di Lione… Cinque balle di seta». Napoleone inarcò di scatto un sopracciglio. «Cinque balle di seta! Buon Dio, sai quanto te le ha fatte pagare?».

    Giuseppina fece spallucce.

    Napoleone sospirò indicando con un cenno del capo le lettere impilate nella cassetta. «La maggior parte di queste lettere è di fornitori della casa imperiale. Oltre alla seta, si parla di scarpe, cappelli, abiti, cavalli, mobili, vino, dolci… E tutti dichiarano rispettosamente che il conto deve essere ancora saldato».

    «Ci mancherebbe che non fossero rispettosi, quegli ingrati», fece tirando su col naso Giuseppina. «Dopo che mi sono presa la briga di nominarli fornitori della casa imperiale, dovrebbero apprezzare l’onore che gli concedo».

    «Devono essere ancora pagati», l’ammonì Napoleone. «Non sono enti di beneficenza. E tu non devi continuare così. Potrei armare una brigata di fanteria con quello che spendi in inutili lussi ogni mese. Bisogna finirla, prima che questi sperperi danneggino la nostra reputazione».

    «E come? Quello scarafaggio di Fouché controlla tutte le notizie che arrivano ai giornali. Figurati se permette la pubblicazione di qualsiasi pettegolezzo che possa compromettere il suo padrone».

    «I pettegolezzi li diffondono le lingue oltre che i giornali», ribatté stancamente Napoleone. «E non voglio che qualcuno si lamenti perché non paghi i debiti».

    «Be’, è tutta colpa tua», disse irritata Giuseppina. «Se mi dessi abbastanza per arrivare alla fine del mese non dovresti trattare con quei pidocchi e le loro stupide rimostranze».

    «Una buona moglie sa come farsi bastare i soldi».

    «È questa cos’è?», sogghignò Giuseppina. «Un’altra delle perle di saggezza corsa di tua madre?»

    «Ti ho già avvertita. Devi rispettare mia madre. Soprattutto quando è sotto il mio tetto».

    Era più di un mese che Letizia Bonaparte, guarita dalla sua malattia, si era unita alla famiglia imperiale.

    «Questo è un altro punto», aggiunse Giuseppina. «Quanto resterà ancora?»

    «Fin quando vorrà».

    «Certo», ridacchiò senza umorismo Giuseppina. «Fa come a casa sua e passa le giornate a criticare tutto quello che dico o faccio. Mi disprezza, e sono sicura che appena può ti riversa veleno su di me nelle orecchie».

    «Basta!», urlò Napoleone, scagliando la corrispondenza verso la moglie. La cassetta colpì il piatto di pasticcini e la fine porcellana e il suo contenuto caddero dal tavolino in terra riducendosi in mille pezzi. Giuseppina saltò sulla sedia, con gli occhi sgranati per il terrore. Aveva ancora delle briciole sulle labbra e deglutì nervosamente fissando il marito. Napoleone si alzò in piedi, le si avvicinò e si chinò puntandole contro un dito per dare più enfasi alle sue parole.

    «Non parlare mai più in questo modo, mi hai capito?»

    «Sì, marito», disse lei con voce tremante. «Come desideri».

    «Esatto», replicò lui annuendo. «Come desidero. Sarai cortese e rispettosa con mia madre e il resto della mia famiglia, qualunque cosa ti dicano. Malgrado tutto, nel fondo sono sempre un corso e la mia famiglia conta per me più di quanto immagini. Capito?».

    Giuseppina annuì, stringendosi le mani al petto. Guardò timorosa il marito e già le lacrime le sgorgavano dagli occhi. Per un attimo, Napoleone la fissò truce, poi emise un profondo sospiro e le prese delicatamente le mani.

    «Mi dispiace. Il mio carattere non è più quello di un tempo. Ho troppe cose per la testa e poca pazienza per i piccoli dettagli che dovrebbe seguire un marito. Perdonami». Chinò il capo e le baciò le dita.

    Giuseppina annuì con il petto che le si sollevava nel tentativo di trattenere le lacrime. «È colpa mia. So che dovrei mostrarle più rispetto, ma… mi detesta. Come tutta la tua famiglia. Mi hanno sempre detestato. Non riesco a sopportarlo».

    «Sshh». Napoleone le prese la guancia nella mano. «Nessuno ti detesta. Sono corsi con una morale corsa». Per un attimo, Napoleone pensò alla sorella Paolina e al suo comportamento scandaloso. Le sue numerose relazioni erano di dominio pubblico, ma era sempre stata promiscua. Napoleone sussultò al ricordo di quando l’aveva sorpresa con un granatiere dietro un paravento nella sala delle carte durante la prima campagna in Italia, nove anni prima. Scosse il capo. «La maggior parte, almeno. A ogni modo, non dovrai sopportare la mia famiglia ancora per molto».

    «Davvero?».

    Napoleone sorrise. «Lasciamo la Francia per due, forse tre mesi».

    «Lasciare la Francia?», replicò cauta Giuseppina. «Non per un’altra campagna?»

    «No, a meno che la Gran Bretagna non decida di invadere l’Italia».

    «L’Italia!». Subito il volto di Giuseppina si rischiarò al ricordo del primo comando di Napoleone, la corte quasi regale al palazzo di Montebello, dove aveva trascorso giorni spensierati circondata dalle menti più brillanti e le più vivaci personalità dei regni italiani. «Quando partiamo?»

    «Entro questo mese», fece Napoleone con un sorriso. «Ma bada di non ordinare per il viaggio abiti che non puoi permetterti».

    «Canaglia!». Giuseppina gli diede una manata sulla spalla, poi si fece seria un attimo. Gli avvolse le braccia attorno al collo, lo attirò verso la sedia e lo baciò sulla bocca. Napoleone si sentì accelerare il battito e le mani afferrarono i lacci che le chiudevano il corpetto.

    «Sarà come l’altra volta», sussurrò lei. «No, meglio dell’altra volta che siamo stati insieme in Italia. Ci scommetto».

    Napoleone le sfiorò il collo con le labbra fino alla morbida curva del seno, e con la coda dell’occhio vide dall’orologio sopra il camino che c’era tempo di fare l’amore prima di vestirsi per la cena.

    Di solito Napoleone considerava i pasti come un male necessario e mangiava in fretta prima di tornare al lavoro. Ma non quella sera. Attorno al tavolo sedevano sua moglie, i suoi fratelli Giuseppe e Luciano, le sorelle Carolina e Paolina e all’altro capo sua madre, Letizia. Dopo che fu servita la pietanza e i servitori si furono ritirati chiudendosi le porte alle spalle, Carolina si schiarì la voce.

    «Ho saputo che ti recherai in Italia».

    A quell’affermazione, Giuseppina trasalì leggermente e guardò subito il marito che si sforzò di trattenere la sorpresa e chiese: «Chi te l’ha detto?»

    «Mio marito. Gioacchino l’ha sentito dal suo capo di stato maggiore».

    «Davvero?». Napoleone inarcò un sopracciglio. Il maresciallo Gioacchino Murat era il suo più dotato comandante di cavalleria, ma come molti del suo genere tendeva a fare il gradasso e a essere indiscreto. Se aveva saputo dell’imminente viaggio in Italia, era ben possibile che ormai se ne parlasse in metà dei salotti parigini.

    Annuì alla sorella. «Molto bene, visto che il segreto è stato svelato, sì, è vero. Ho intenzione di fare un giro dei nostri territori italiani».

    «È vero anche che sarai incoronato re d’Italia?».

    A parlare poteva essere stato solo Talleyrand, capì subito Napoleone. Ma perché aveva dovuto diffondere i suoi piani? Forse per prevenire potenziali assassini? Scacciò quel pensiero non appena gli si affacciò alla mente. Dal sanguinoso attentato alla sua vita quattro anni prima tendeva a vedere minacce ovunque, ma capiva che non poteva vivere nella paura.

    «È vero, Carolina».

    All’altro capo del tavolo, la madre rise senza allegria. «Un’altra incoronazione? Ora fai collezione di corone, figlio mio?».

    Napoleone rise e gli altri lo imitarono brevemente, scacciando finalmente un po’ della tensione che gravava sulla tavola sin dall’inizio del pasto.

    «Sono disposto a collezionare corone se ha una qualche utilità, madre. Ma sarebbe sconveniente indulgere in acquisizioni del genere».

    «Soprattutto per uno che fino a pochi anni fa era un fervente giacobino», aggiunse piano Luciano.

    Napoleone guardò il fratello minore con aria stanca. Luciano era sempre stato il più radicale dei fratelli, pericolosamente radicale.

    Luciano sorseggiò il vino e proseguì: «Ricordi, fratello, quando rovesciammo il Direttorio e diventasti primo console?»

    «Sì».

    «E ricordi che sguainai la spada e giurai che se mai avessi tradito la Francia e fossi divenuto un tiranno ti avrei piantato la lama nel cuore io stesso?»

    «Lo ricordo».

    «Ora sei imperatore, e stai per assumere un’altra corona». Levò il bicchiere in un finto brindisi. «Questo fa di quel giuramento una buffonata, non credi?»

    «Sì, se fossi diventato un tiranno», replicò tranquillo Napoleone. «Ma il popolo ha votato perché diventassi imperatore e quindi io incarno la sua volontà. In questo caso, non sono affatto un tiranno e il tuo onore è intatto».

    «Un avvocato non avrebbe difficoltà ad accettare questo discorso», ammise Luciano. «Ma più che nelle parole è nello spirito che va onorato il mio giuramento».

    «Come vuoi, Luciano. Ma i tempi sono cambiati. La rivoluzione stava sprofondando nel caos prima che ponessimo fine al Direttorio. Da allora, in Francia si è ristabilito l’ordine».

    «È vero, ma abbiamo barattato l’ordine con la libertà».

    «Può essere, ma credi davvero che importi alla gran parte delle persone? La gente ha bisogno di lavoro. Ha bisogno di pane, e più che altro di stabilità. E ho intenzione di fornirglieli. Dipende tutto da quello che intendi per libertà, Luciano». Napoleone tacque un momento elaborando quell’idea. «Per te, per me e per tutti i frequentatori di salotti, è un ideale, e come tutti gli ideali è un lusso. La sola libertà che conta per la gente comune è la libertà dalla sofferenza».

    Luciano si accigliò, scosse il capo e fissò il cibo nel piatto bordato d’oro. «Se gli uomini non aspirano agli ideali, Napoleone, cosa ci distingue dalle bestie?»

    «C’è sempre posto per gli ideali, e per quegli uomini che vorranno discuterne e promuoverne la causa. Ma uomini del genere sono pochi e devono essere incoraggiati e innalzati a posizioni privilegiate».

    «In altre parole devono diventare aristocratici. Sembrerebbe tu stia perorando un ritorno ai mali del regime dei Borbone».

    Napoleone si strinse nelle spalle. «Se un uomo ha del talento non gli farò pesare le sue origini, neanche se è uno stronzo presuntuoso come Talleyrand».

    Giuseppe scoppiò a ridere e dopo aver osservato le espressioni scioccate delle signore, a lui si unì Napoleone.

    Persino Luciano rise a quell’osservazione. «Sai tu come giudicare quell’uomo, fratello».

    Tutti levarono i bicchieri e presero un altro sorso di vino.

    Letizia si schiarì la voce. «Certo, va benissimo che tu elargisca simili ricompense agli uomini di talento, ma come puoi essere certo che rimarranno leali al nuovo ordine? Puoi fidarti di uomini che si fanno abbagliare con tanta facilità dai gingilli che offri?»

    «Certo, madre. Quale miglior sprone alla lealtà della prospettiva di un premio per i propri buoni servigi?»

    «La famiglia», replicò subito lei. «Non c’è più grande vincolo alla lealtà del sangue».

    Napoleone annuì. «Ed è per questo che devo innalzare i miei familiari e amici a posizioni elevate in Francia, e col tempo collocarli tra le dinastie regnanti delle potenze europee, e forse su un loro trono».

    «Non starai dicendo sul serio?», ridacchiò Giuseppe. «Vorresti farmi re?»

    «Un giorno, forse, e prima di quanto tu creda».

    «Assurdo!». Giuseppe scosse il capo. «Non sono nato per fare il re, non più di Luciano, o Luigi, o Girolamo».

    «Non sono d’accordo», ribatté Napoleone. «Uno qualunque dei miei fratelli vale dieci zar o qualsiasi sovrano asceso al trono per diritto di nascita. E la Gran Bretagna ne è la prova. Re Giorgio è pazzo e il suo erede è un irresponsabile libertino. Non ci sono in Gran Bretagna cento, mille uomini migliori in grado di governare? Quando sarà il momento opportuno, vi farò tutti re».

    «Che lo vogliamo o meno?», chiese Luciano.

    «Mi servono alleati di cui potermi fidare. Come dice nostra madre, quale miglior legame di quello di sangue? Sei con me?».

    Luciano rifletté un momento, poi fece spallucce. «Sei mio fratello. Certo che sono con te. Fintanto che non sei un tiranno».

    «E tu, Giuseppe?».

    Il fratello maggiore sorrise e levò il bicchiere. «Fino alla fine».

    «L’unica fine che riconosco è la gloria eterna».

    «Eterna?». Letizia strinse le labbra e lanciò un’occhiata a Giuseppina. «Questo accadrà solo se genererai un successore. Senza un erede andrà tutto a scatafascio».

    «L’erede verrà», disse con decisione Napoleone. «È solo questione di tempo».

    «Il problema è proprio il tempo», disse la madre. «Siete ormai sposati da più di dieci anni. Giuseppina, non ricordo bene, quanti anni avete?».

    L’imperatrice trasalì ma non rispose. Letizia si chinò verso di lei e batté un dito sulla tavola. «Quarantadue, se non sbaglio. Giusto?».

    Giuseppina annuì.

    «Be’, perdonatemi, mia cara, ma non è un po’ tardi per una gravidanza?».

    Napoleone accorse in difesa della moglie. «Donne anche più anziane hanno partorito bambini sanissimi, madre. C’è ancora tempo».

    Giuseppina lo fissò e disse con voce piatta. «Anche più anziane? Grazie».

    «Devi avere un erede», insistette Letizia.

    «E lo avrò. Giuseppina ha avuto due figli forti…».

    «È stato molto tempo fa».

    «E ne avrà degli altri».

    «Quando?», chiese brusca Letizia.

    «Al momento giusto, madre».

    «E se non lo farà?»

    «Lo farà», ribatté con vigore Napoleone, pur sapendo in cuor suo che c’erano poche possibilità.

    «Deve, se vuole giustificare il suo ruolo di moglie dell’imperatore di Francia».

    «Basta!». Giuseppina batté la mano sul tavolo, facendo ammutolire tutti. «Non permetto che mi si parli in questo modo. Avete capito? Non lo permetto. Diteglielo, Napoleone».

    Napoleone la fissò, poi lanciò un’occhiata alla madre.

    «Non posso tollerarlo! Che diritto ha di parlarmi in questo modo?», disse Giuseppina con labbra tremanti.

    «Che diritto?». Letizia raddrizzò l’esile corpo sulla sedia. «Il diritto conferitomi dall’aver messo al mondo tredici figli, otto dei quali sopravvissuti. Non due e basta».

    Giuseppina la guardò con odio, poi si alzò bruscamente in piedi. «Al diavolo! Al diavolo tutti i corsi!».

    Si voltò e si diresse decisa verso la porta mentre le lacrime le soffocavano in petto. Spalancò la porta e se la sbatté alle spalle. Seguì un silenzio scioccato, rotto dal rumore dei suoi passi per il corridoio.

    Carolina si guardò intorno e mormorò: «L’ho sempre detto che non era degna di Napoleone».

    «Silenzio!», replicò lui stizzito. «Non sai quello che dici, piccola stupida. Hai la memoria così corta? Quando arrivammo in Francia eravamo fuggiaschi, senza casa, né denaro o influenza. Giuseppina era moglie di un conte, confidente dei più potenti politici della capitale, e gli uomini perdevano la testa per lei. Eppure scelse me per marito. Quando potevo a stento permettermi l’uniforme e vivevo in una catapecchia fatiscente. Hai idea di cosa abbia significato per me? L’adoravo. E l’adoro ancora», si affrettò ad aggiungere. «Con Giuseppina posso essere me stesso. Quando sono circondato da leccapiedi e uomini da poco, solo Giuseppina mi offre sincerità e comprensione. Le devo fedeltà. E amore. Perciò non cercare di metterti in mezzo».

    Carolina fece spallucce. «Niente da dire, ma in cambio dovrebbe darti un erede, Napoleone. Dov’è tuo figlio?».

    Napoleone s’incupì, ma prima che potesse replicare intervenne la madre.

    «Non è questo il punto. Quella donna è ovviamente troppo vecchia per fare dei figli. C’è solo una soluzione al problema, e prima l’accetterai meglio sarà, figlio mio».

    Napoleone scosse il capo. «No, non lo farò».

    «Non ora, forse. Ma a prescindere dai tuoi sentimenti per lei, hai un obbligo verso il tuo popolo. Deve esserci un successore per l’impero». Letizia gli agitò un dito contro. «Prima o poi, dovrai dare alla Francia un erede al trono. Soprattutto se tornerai in guerra e rischierai la vita».

    «Rischiare la vita?», fece ridendo Napoleone. «Madre, non lo sapete? Sono protetto dalla fortuna».

    «La tua fortuna non durerà per sempre».

    «Perché no?».

    Letizia si strinse nelle spalle. «La fortuna non dura mai. Ho vissuto abbastanza per scoprirlo. E quindi devi avere un erede».

    «Per questo ci sarà tempo». Napoleone vuotò il bicchiere e spinse la sedia via dalla tavola, lasciando intendere che il pasto era concluso. «Ma prima c’è la piccola questione della Gran Bretagna. Bisogna schiacciarla una volta per tutte».

    Capitolo 4

    Arthur

    Londra, settembre 1805

    Dopo i sei mesi trascorsi in mare nel viaggio di ritorno dall’India, sir Arthur Wellesley trovò gradita e familiare la vista di Londra. Erano passati quasi nove anni da quando aveva messo piede per l’ultima volta nella capitale e non poté fare a meno di alzarsi e sporgersi dal finestrino della carrozza che risaliva sferragliando una lieve altura, da cui si godeva una bella vista sui quartieri tentacolari di Londra e si intravedeva il Tamigi scintillante con la sua selva di alberi di navi, che recavano in Inghilterra materie prime e beni di lusso e trasportavano in tutto il mondo i suoi manufatti.

    Ora, per merito delle fatiche sue e del fratello Richard, la ricchezza e la potenza della Gran Bretagna erano aumentate grazie alle vastità dei territori indiani conquistati. Mentre Richard aveva servito il Paese in qualità di governatore generale, Arthur aveva acquistato fama nell’esercito, procedendo dal rango di colonnello a quello di maggior generale, a capo di un’armata che aveva conseguito una serie di grandi vittorie. Infine, le sue imprese erano state ricompensate con un cavalierato e ora rientrava in Inghilterra come uomo di esperienza, ricco e influente.

    Aveva trentasei anni, si sentiva all’apice delle sue forze e avrebbe potuto servire il suo Paese nella titanica lotta contro la Francia. Quando aveva lasciato la Gran Bretagna, il nemico era stato una repubblica rivoluzionaria. Ora la Francia era un impero, governato dal tiranno Bonaparte. Avendo molto tempo a disposizione, negli ultimi sei mesi Arthur aveva letto ogni giornale che la nave raccoglieva nei porti lungo il tragitto e aveva seguito i costanti progressi di Bonaparte. Era un’impressionante sequela di successi, ammetteva a malincuore Arthur. Quell’uomo era una vera forza della natura per aver ottenuto così tanto in poco tempo. Era un peccato che le sue doti di generale e statista non fossero temperate da alcun desiderio di pace con i regni vicini. Alla fine di quella guerra, Bonaparte sarebbe stato il signore del mondo, o la Francia sarebbe stata umiliata. Per come la vedeva Arthur, era dovere della Gran Bretagna operare quella sconfitta, a prescindere da quanto tempo, da quanti milioni di sterline e da quante vite sarebbe costata.

    Per i primi geli autunnali mancava ancora qualche settimana e il cielo sopra la città era coperto solo da una debole caligine gialliccia. Con l’arrivo dell’inverno, ricordò Arthur, nei giorni tranquilli il cielo sarebbe stato perennemente imbrattato dal fumo di decine di migliaia di camini che avvolgeva la città. Per un attimo, ripensò con nostalgia alla fresca brezza che aveva accompagnato il suo recente viaggio. La nave aveva attraccato a Portsmouth solo due giorni prima e Arthur si sentiva ancora un po’ in mare. Ogni volta che scendeva dalla carrozza, il terreno gli pareva stranamente instabile sotto i piedi, come se si trovasse ancora sul ponte di legno che per giorni e giorni si era alzato e abbassato con monotona regolarità. C’erano state alcune settimane di burrasca quando il mercantile aveva doppiato il Capo di Buona Speranza, ma per gran parte del viaggio aveva potuto riposare e riprendersi dalle fatiche di diversi anni di dura vita militare in India.

    La vista della città gli tirò su il morale cupo e sorrise alla prospettiva di ritrovare la famiglia e i tanti amici di un tempo. Ma più di tutto teneva a scoprire come stavano le cose tra lui e Kitty, l’amore giovanile che aveva lasciato in Irlanda. Le saltuarie comunicazioni che avevano intrattenuto negli ultimi dieci anni erano una misera base su cui valutare la vera natura dei sentimenti della donna nei suoi confronti. E come l’avrebbe giudicata lui? Dieci anni potevano benissimo aver apportato cambiamenti significativi nel carattere di Kitty, per non parlare del suo aspetto. Ma non era stato il suo aspetto a conquistargli il cuore, ripensò Arthur. Era stata l’eccentrica vivacità, che la distingueva da tutte le debuttanti ingenue e pudiche, e in definitiva noiose, che ornavano la buona società del Castello di Dublino. Se era rimasta così, sarebbe stata perfetta per lui. La domanda era: come avrebbe dovuto procedere Arthur per chiedere la sua mano?

    Ci aveva già provato una volta, qualche mese prima di partire per l’India, quando aveva chiesto al fratello maggiore Tom la mano di Kitty. Essendo un semplice maggiore, con poche possibilità di guadagnarsi una fortuna, e molte possibilità di morire prematuramente, Arthur aveva avuto da offrire solo il suo amore. Per un uomo pratico come Tom, quel sentimento non era né interessante né desiderabile. E di conseguenza aveva rifiutato la richiesta di Arthur, malgrado il fatto che Kitty avesse già dato il suo cuore al giovane ufficiale. In un estremo tentativo di conservare il suo affetto, Arthur le aveva scritto una lettera dichiarando che i suoi sentimenti per lei non sarebbero cambiati e che se fosse rientrato con maggior rango e ricchezza e lei fosse ancora stata nubile, la sua offerta di matrimonio sarebbe stata ancora valida.

    La carrozza cominciò a scendere per un dolce pendio e la vista su Londra si perse dietro un filare di alberi, quindi Arthur si rimise a sedere di fronte alla considerevole mole dell’altro passeggero diretto a Londra. L’uomo indossava una marsina scura e calze di pizzo bianco dal disegno elaborato. Si erano scambiati un saluto formale all’inizio del viaggio e da allora poche parole. Il signor Thomas Jardine aveva dichiarato di essere un banchiere e quando Arthur si era a sua volta presentato era stato chiaro che non aveva mai sentito nominare il giovane maggior generale. All’ultima sosta, il signor Jardine aveva acquistato un giornale. Ora lo piegò e lo appoggiò accanto a sé sul sedile in pelle.

    Arthur indicò il giornale. «Permettete?»

    «Certo, prego».

    «Grazie».

    Arthur prese il giornale e se lo aprì in grembo. Uno degli articoli principali trattava dei preparativi bellici da parte dell’eroe della Marina britannica, l’ammiraglio Nelson. Era già nota ad Arthur la più notevole delle imprese di quell’uomo, ossia la schiacciante vittoria sui francesi nella baia di Abukir, sulla costa egiziana. Ma Nelson prometteva ora di eclissare persino quella con una delle più grandi flotte che la Marina Reale avesse mai radunato. Proprio in quel momento, le navi da guerra si stavano riunendo a Portsmouth, caricando proiettili, polvere da sparo e rifornimenti per una grande prova bellica contro le Marine unite di Francia e Spagna.

    Jardine si mosse. «Grand’uomo, eh?».

    Arthur alzò lo sguardo, abbassando il giornale. «Prego?»

    «Nelson. La nostra migliore chance di umiliare i mangiarane. Una volta che avrà dato loro una sonora batosta, di invasione non se ne parlerà più».

    «Immagino di no».

    «Una bella fortuna che tra noi e monsieur Bonaparte ci sia la Marina Reale. Se non fosse per quella entro la fine dell’anno parleremmo tutti francese e mangeremmo rane».

    «Sì, siamo davvero fortunati ad avere Nelson e la Marina», fece Arthur con un sorriso. «Ma non bisogna neanche dimenticare il ruolo che svolge l’esercito nella difesa del Paese».

    «Naturalmente», annuì Jardine, con le guance tremolanti. «Anche se ammetterete anche voi che le nostre, ehm, valorose giubbe rosse hanno avuto poche occasioni di distinguersi in questa guerra».

    Il sorriso di Arthur svanì. «Posso assicurarvi, signore, che l’esercito ha svolto il suo compito quanto la Marina».

    «Suvvia, non intendevo offendervi. Desideravo semplicemente sottolineare che il peso della guerra è ricaduto principalmente sulle spalle dei nostri marinai. Non potete negarlo».

    «Davvero?». Arthur ripensò alla sua prima campagna nei Paesi Bassi. Metà dei suoi uomini era morta per la mancanza di cibo e il freddo pungente di un inverno terribile. Poi c’era stata l’India e le lunghe marce nel caldo rovente prima di affrontare eserciti enormemente superiori in numero e sconfiggerli. Guardò negli occhi l’uomo e si schiarì la voce. «Sono sicuro che se foste a piena conoscenza dei fatti, non giudichereste tanto duramente il contributo dell’esercito».

    Jardine scosse brevemente il capo. «Non sono duro. Perdonatemi se così vi sembra. Mi baso semplicemente sui precedenti delle due forze armate. Sui mari, i nostri marinai dominano completamente il nemico, laddove i nostri soldati non possono competere con i francesi e non sono riusciti ad assicurarsi il benché minimo punto d’appoggio sul continente. Invece di portare la lotta direttamente contro il nemico lo punzecchiano nelle colonie, ben lontano dal cuore del conflitto».

    «Non è certo colpa dei soldati se il governo decide di impiegarli in questo modo», protestò Arthur.

    «Esattamente, signore. Voi, ad esempio», fece Jardine indicando il volto abbronzato di Arthur. «Dal vostro colorito, presumo siate stato in servizio ai tropici, o giù di lì».

    «Sono appena rientrato dall’India».

    «E laggiù cosa avete fatto di importante per questo Paese?».

    Arthur sussultò e fece un respiro profondo. La domanda richiedeva una risposta molto articolata, ma Jardine continuò prima che avesse la possibilità di cominciare.

    «Sono certo che voi e i vostri uomini avete trascorso gran parte del tempo a scacciare i locali dalle proprietà della Compagnia delle Indie Orientali».

    «Molto più di questo, signore. È grazie alle imprese dell’esercito se l’Inghilterra governa ora terre molto più estese e popolose delle Isole Britanniche».

    «L’India è un semplice dettaglio nella nostra lotta contro la Francia», ribatté Jardine con noncuranza. «Oltretutto, combattevate selvaggi, e non veri e propri eserciti. Come potevate perdere una lotta talmente impari?».

    Arthur si appoggiò allo schienale con aria stanca. Quell’uomo evidentemente non aveva idea delle campagne che erano state combattute nel cuore del subcontinente nell’ultimo decennio. Non sapeva niente del sanguinoso assalto alla fortezza di Seringapatam del sultano di Mysore. Niente della disperata marcia davanti all’enorme esercito dei Maratha ad Assaye per attaccarne il fianco e sconfiggerli. Niente della coraggiosa avanzata contro i cannoni e i ranghi serrati del nemico ad Argaum. Niente dei lunghi mesi di aspre scaramucce con i banditi guidati dal sanguinario Dhundia Wagh. Ovviamente, le imprese di Arthur e dei suoi uomini non avevano avuto alcuna eco in patria. Quasi fossero un’armata dimenticata guidata da un generale dimenticato. Sospirò.

    «Posso garantirvi che le truppe che sono stato onorato di comandare in India hanno affrontato nemici pericolosi quanto i francesi. Al momento di affrontare Bonaparte in una battaglia campale, daranno del

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